Le sirene

Alle otto precise papà Catrame era al suo posto, pronto a raccontarci l’ottava storia.

Guardammo il suo volto incartapecorito, per indovinare se fosse di buono o cattivo umore, poiché da questo si poteva argomentare se la novella era allegra o triste. Le nostre investigazioni riuscirono però vane, poiché il suo volto nulla diceva. Solo notammo che pareva un po’ nervoso: egli non faceva altro che levare di bocca la vecchia pipa e cacciarvi dentro il suo pollice, quantunque essa tirasse meglio del solito.

Era imbarazzato a trovare l’argomento? o il suo cervellaccio tardava a risvegliarsi? Io credo che fosse una cosa e l’altra; infatti rimase silenzioso più di un quarto d’ora, continuando a frugare e rifrugare nella pipa. Alla fine, quand’ebbe tracannato un paio di bicchieri, la sua me moria si svegliò come per incanto.

– Credo e non credo, – cominciò egli.

– Oh!… oh!… – esclamò il capitano. – Papà Catrame a poco a poco diventa incredulo.

– No, – rispose il mastro gravemente. – Ma su ciò che sono per narrarvi conservo dei dubbi, non avendo potuto constatare la cosa con piena sicurezza.

– L’argomento deve essere importante, – esclamò il capitano. – Si tratta di qualche mostro di nuova specie?

– D’un mostro precisamente non si tratta, – rispose il marinaio con serietà; – si tratterebbe anzi d’una vaga donna.

Un «oh!» di sorpresa uscì da tutte le bocche, e vi era di che. Come mai mastro Catrame, quell’orsaccio, che quando vedeva una donna fuggiva come se avesse dinanzi il diavolo, si occupava del gentil sesso?

– Ventre di balena! – esclamò il capitano. – Questa volta papà Catrame vuole morire.

– Fuori la novella! – gridarono tutti.

– Il titolo!… Il titolo! – tuonò una voce.

– Il titolo? – disse il mastro. – Eccolo: le sirene!…

Un clamoroso scoppio di risa tenne dietro a quell’annuncio; rideva il capitano fino a slogarsi le mascelle, ridevano i marinai, e si tenevano i fianchi perfino i mozzi.

– Ah! papà Catrame! – esclamò il capitano. – Tu credi ancora a simili frottole?… Eh via!… perbacco!… Sii un po’ più serio.

– Papà Catrame le sballa grosse come una corazzata! – gridarono tutti.

– Adagio, ragazzi, – disse il mastro, che faceva fronte colla maggior calma a quello scoppio d’ilarità. – Ho detto fin da principio che credo e non credo; ma qualche cosa di vero ci deve essere. Oh! perbacco! sono secoli e secoli che i marinai parlano delle sirene. A quale scopo avrebbero inventato simili frottole? Qualche cosa di vero, lo ripeto, ci deve essere, quantunque non abbia ancora potuto verificare esattamente quanto ce ne sia.

– Voi ridete pure; ma se continua la celia, pianto su due piedi l’uditorio e vado a passare la mia notte nella cella dei prigionieri. Avete capito? Ventre di foca! è un po’ troppo!… Corpo d’una spingarda! basta così, o…

– Silenzio! – tuonò il capitano, – o il vecchio Catrame scoppia come una caldaia a trenta atmosfere.

Con uno sforzo prodigioso frenammo la nostra ilarità e il silenzio più profondo regnò attorno al mastro.

– Ritorno al Caronte, – riprese Catrame, – a quel brutto vascello che si diceva fosse popolato di fantasmi e di folletti e il cui comandante fece la fine miseranda che voi tutti conoscete. Però la storia che sto per narrarvi non è tanto lugubre come sembrerebbe a prima vista.

– Quando il caso che ora apprenderete accadde, la fregata si chiamava ancora Santa Barbara; la comandava un altro capitano e nella stiva non si udivano né gemiti né cigolii di catene.

– Con me si era imbarcato un giovane ufficiale, i cui modi un po’ bizzarri mi avevano subito colpito. A quale nazione appartenesse non riuscii mai a saperlo; ma non doveva essere italiano, poiché masticava orribilmente la nostra dolce lingua; pareva anzi che venisse da un paese molto lontano: era bruno come un meticcio dell’America, aveva maniere strane, un temperamento concentrato, e mangiava cibi affatto diversi dai nostri. Doveva essere di buona famiglia e di casta molto elevata, perché notai che il capitano lo trattava quasi da eguale e aveva per lui molti riguardi.

– Non so il perché, fino dal primo momento che mi vide mi dimostrò una certa simpatia. Fosse la mia barba imponente, o fossero i miei modi franchi, – modestia a parte, – o perché ero un buon compagno quando si trattava di vedere il fondo di qualche bottiglia, egli mi chiamava sovente nella sua cabina, mi mesceva da bere; ed io ogni sera tornavo alla mia branda colle gambe malferme e la testa pesante; sovente anche quell’uomo strano chiacchierava con me, mentre cogli altri non apriva mai bocca.

– Avevamo lasciato la città del Capo di Buona Speranza diretti in Australia, non ricordo bene se a Melbourne o a Brisbane: un viaggetto di almeno tre mesi, se il vento ci fosse stato sempre propizio: altrimenti la traversata si sarebbe prolungata ancora di più. Il mio ufficialetto, di passo in passo che ci allontanavamo da terra, invece di diventare più allegro, come fa il vero marinaio, intristiva sempre più.

– Lo sorprendevo talora colla testa stretta fra le mani, la fronte annuvolata, le labbra strette e una faccia da uomo più ammalato che sano. Talvolta lo udivo sospirare profondamente, borbottare non so quali parole in una lingua sconosciuta, e in quei giorni non barattava con me due sillabe, anzi mi trattava molto ruvidamente.

– Invano mi rompevo il capo per indovinare il motivo di quella crescente tristezza. Se avessi avuto i galloni d’oro, l’avrei interrogato; ma nella mia condizione non era permesso, e poi veh!, mastro Catrame è un uomo che sa stare al suo posto, osservando le distanze.

– Un giorno, mentre entravo nella cabina per portare al mio ufficialetto non so quale ordine, lo sorpresi cogli occhi bagnati di lagrime… Rimasi di stucco e, ve lo confesso, scandolezzato. Che diamine! Un marinaio, anzi un ufficiale che piange! Poffare! Il motivo doveva essere molto grave per lasciar cadere quell’acqua dolce.

– Appena mi vide, si terse quasi con rabbia quei lucciconi, vergognoso di essersi lasciato sorprendere da me; ma poi, quasi fosse vinto da un nuovo dolore, si lasciò cadere su di una sedia, nascondendosi il viso fra le mani.

– Ve lo figurate come mi trovai io in quel momento, dinanzi al mio ufficialetto. Volevo fuggire, ma avevo timore che si offendesse; volevo rimanere, ma temevo che mi mettesse alla porta; ero insomma sui tizzoni ardenti e non so che cosa avrei fatto per diventare tanto piccolo da potermi nascondere sotto il tavolo.

– Invece il mio ufficialetto non si offese, né si sdegnò. Mi fece cenno di chiudere la porta, poi, piantandomi in viso due occhi che facevano paura, mi chiese a bruciapelo:

– «Catrame, hai avuto delle affezioni nella tua gioventù?…»

– Lo guardai trasognato. Perché chiedeva a me simili cose, a me che non mi sono occupato d’altro che di àncore, di vele, di pennoni?… E poi, e poi… Lasciamo correre…

– Alto là, papà Catrame, – disse il capitano. – Tu ci nascondi qualche particolare e non dici tutta intera la verità. Quel «lasciamo correre» mi fa sospettare qualche… Eh! m’intendo io!

– Che? – chiese il vecchio con una certa inquietudine che non sfuggì a nessuno di noi.

– Tu pure, un tempo, hai corso la cavallina…

– Io!… – esclamò il mastro, la cui faccia si oscurò. – Io!…

Trinciò l’aria due o tre volte colla destra e colla sinistra, come se volesse scacciare qualche cosa, poi riprese con voce aspra:

– Lasciatemi finire…, o io me ne vado nella cabina coi ferri alle mani e anche ai piedi, se volete mettermeli.

– Lasciamo correre adunque e vediamo cos’ha da fare quell’ufficiale piagnucolone colle sirene, – disse il capitano.

– Dunque, – riprese il mastro, – sono rimasto quando l’ufficiale mi rivolse a bruciapelo quella stravagante domanda.

– Rimasi imbarazzato, tanto ero lontano dall’attendermi una simile interrogazione, e non riuscii che a borbottare tre o quattro parole, che certo egli non comprese, poiché nemmeno io sapevo quello che dicessi.

– Avesse capito un no, o un sì, l’ufficiale continuò, coll’aria di un uomo che non ha tutto il cervello solidamente incastrato nella zucca:

– «Dimmi tu se io posso essere felice nel trovarmi così lontano da lei! E forse non la rivedrò più mai, forse morrà per me, e anch’io, lo sento, finirò presto questa esistenza tormentosa».

– Io non sapevo cosa rispondere; giravo e rigiravo le dita nel mio berretto e non vedevo il momento di darmela a gambe. Non m’intendevo io di simili cose… E poi… come mai gli era saltato in capo di prendermi per suo confidente?

– Continuò così a parlare un bel pezzo della sua donna, senza che io comprendessi gran che, avendo in quel momento nel cervello altro da pensare e indosso una certa vergogna che non saprei spiegarvi. Quando il cielo volle, mi lasciò libero, e vi potete immaginare con quanta lestezza sgattaiolai sul ponte.

– Per quindici giorni non misi più piede nella sua cabina per paura che mi facesse qualche altra simile domanda o che mi riparlasse della sua infelicità e della sua donna. Egli d’altronde non mi mandò più a chiamare e non comparve che rade volte sul ponte.

– Era però sempre abbattuto, pallido, triste, e nei suoi occhi brillava una strana fiamma. Vi confesso che mi faceva paura tutte le volte che mi fissava: c’era qualche cosa di sinistro in quelle pupille; e per quanto chiudessi gli occhi, me le vedevo balenare sempre dinanzi, e le vedevo anche alla notte luccicar in fondo alla mia branda o negli angoli più oscuri della mia piccola cabina, sotto le sedie, sull’orlo del tavolo o sulle pareti.

– Io incominciavo davvero a temere che quell’uomo mi avesse affascinato, o comunicato la sua pazzia; poiché io lo ritenevo un vero pazzo…

Papà Catrame s’interruppe, guardandoci, e fosse l’impressione o altro, anche nei suoi occhi vedemmo in quel momento balenare un lampo simile a quello che egli scorgeva negli occhi del misterioso ufficialetto. Era un baleno d’una tinta indefinibile, che ci metteva indosso un certo malessere. Si sarebbe detto che ci affascinava!…

A poco a poco però quel lampo si spense, il vecchio fece una mossa brusca come per risvegliarsi e continuò la sua curiosa storia, ma con voce stanca, spossata:

– Una sera, mentre mi trovavo nella stiva ritirando certe gomene che dovevano servire pel ricambio d’un paterazzo, mi sentii improvvisamente battere sulla spalla.

– Mi volsi e nella semioscurità vidi quei due occhi che mi guardavano con un’ostinata fissazione. Non scorgendo di primo colpo l’ufficialetto, mi sentii prendere da un vivo terrore e lasciai cadere le gomene per fuggire; ma una mano di ferro mi trattenne violentemente, mentre una voce mi sussurrava agli orecchi:

– «L’ho veduta!…»

– M’alzai di scatto, e mi trovai dinanzi all’ufficiale, al pazzo.

– «Chi?» – chiesi coi denti stretti.

– «Lei!…»

– Non so chi mi trattenne dal rispondergli male. Ero arcistucco di quel pazzo da catena, tanto più che cominciava a farmi paura.

– Vedendo che io rimanevo impalato dinanzi a lui senza parlare, mi ripeté con una intonazione pazza:

– «Ti ho detto che l’ho veduta».

– «Ebbene?» – chiesi, alzando le spalle.

– «Era bella, sai?»

– «Ne ho piacere».

– «E mi ha detto che mi vuole sempre bene».

– «Tanto meglio».

– «E che tornerà a trovarmi».

– «Buon segno».

– «Vieni a bere nella mia cabina: ti parlerò di lei».

– Mi sono sentito imperlare la fronte d’un freddo sudore a quella proposta, non perché mi dispiacesse il bere, anzi tutt’altro: ma trovarmi solo con quel pazzo! ciò non mi andava a sangue.

– Gli risposi che ero di quarto e che dovevo conferire col capitano; che perciò per quella sera mi dispensasse dal tenergli compagnia. Non attesi nemmeno la sua risposta e salii più che in fretta sul ponte, mandando un altro marinaio a compiere l’operazione delle gomene, temendo di ritrovare ancora il pazzo.

– L’indomani mi mandò a chiamare, ma mi guardai bene di andare nella sua cabina e gli feci dire che ero ammalato. Non so se credesse alla mia malattia, o si fosse accorto che io non volevo più saperne di lui: mi ricordo che mi lasciò tranquillo, e io fui contentissimo, e lo sarei stato di più se si fosse dimenticato di me.

– Quando però lo vedevo apparire in coperta, fuggivo più che in fretta e andavo a nascondermi nel pozzo delle catene, onde non potesse trovarmi.

– Egli, non vedendomi, domandava di me; ed i miei camerati, che sapevano ogni cosa, gli rispondevano sempre che ero ammalato od occupato in qualche importante lavoro per ordine espresso del capitano. L’ufficiale allora sospirava lungamente e tornava nella sua cabina più cupo che mai.

– Eravamo giunti presso le coste australiane, anzi già le avevamo scorte durante il giorno, quando una sera mi imbattei in quel maniaco. Vi assicuro che passai un brutto quarto d’ora, quantunque sia stato l’ultimo.

– Mi trovavo seduto a poppa, dietro la ruota del timone, attendendo la fine del mio quarto di guardia per andarmene a dormire. Ora che mi ricordo, appunto quella sera la fregata aveva imboccato lo stretto di Bass, larghissimo canale che divide la costa australiana dall’isola di Van Diemen, ed eravamo a poche miglia dall’isola di King.

– Avevo socchiuso gli occhi e stavo per addormentarmi, quando mi sentii toccare in fronte da una mano gelida. Alzai bruscamente il capo, e vidi dinanzi a me l’ufficiale, cogli occhi strabuzzati, il viso più terreo del solito, i capelli irti.

– «Cosa volete?» – chiesi preparando le gambe per fuggire.

– «Là!… là!…» – esclamò egli con voce strozzata, indicandomi la scia spumeggiante della nave.

– «Cosa vedete?» – gli chiesi.

– «Lei!…»

– «In mare? Eh via, signore, voi sognate».

– «No, Catrame!» – esclamò egli. – «L’ho veduta!…»

– Quantunque non credessi un ette a quello che mi diceva, mi curvai sul bordo e guardai attentamente nella scia; ma nulla vidi, nemmeno la testa di un pescecane.

– «Calmatevi», – gli dissi, vedendolo in preda a una viva eccitazione. – «Non vi è nulla in mare».

– «Ma sì», – riprese con sovrumana energia. – «Ti dico che l’ho veduta là, in mezzo alla spuma».

– «Sarà stato uno scherzo dei vostri occhi».

– Egli non rispose; si era slanciato innanzi come un vero pazzo, sporgendosi mezzo fuor dal bordo, e guardava fissamente con quegli occhi che mandavano strani bagliori.

– «Guardala!… guardala come è bella!» – ripeté.

– Guardai, più spinto dal desiderio di accontentarlo che dalla curiosità. Ebbene,… voi non mi crederete, eppure vidi sorgere in mezzo alla scia della nave, fra la candida spuma, una testa!… Faceva buio, è vero, ma la spuma era bianca, quasi fosforescente, e quella testa spiccava nettamente!… L’ho veduta due volte emergere, poi sparire, e giurerei di aver udito un suono, una voce che mi parve umana.

– Se mi chiedeste se era bella o brutta, se era bionda o bruna, non ve lo saprei dire, poiché lo stupore che provai era così forte da impedirmi di veder bene; ma avevo visto una testa umana: di questo sono certo…

Un beffardo scroscio di risa interruppe papà Catrame: era il capitano che si burlava di lui.

Il vecchio alzò le spalle e continuò:

– Rimasi parecchi minuti come pietrificato, dinanzi a quella inaspettata visione. L’ufficiale mi strappò da quello stupore pauroso, dicendomi:

– «L’hai veduta?»

– Non seppi dir di no e fu male, poiché, appena ebbi fatto quel cenno affermativo, il povero pazzo superò d’un balzo la murata e si slanciò a capofitto in mare, gridando:

– «Eccomi, Manuelita!…»

– Gettai un grido di terrore, e con un colpo di coltello lasciai cadere un gavitello(14). Il capitano, subito informato, comandò di virare di bordo e di mettere in mare le imbarcazioni.

– Tornammo sul luogo; ma tutte le nostre ricerche furono vane: il povero pazzo non ricomparve più mai alla superficie!…

– Era stato proprio affascinato da una sirena? – chiesero i mozzi.

– Chi può dirlo? – rispose papà Catrame. – Io non ho potuto vederla bene, essendo la notte oscura; ma… forse i nostri vecchi non hanno inventato le sirene!

Il capitano fece ancora udire il suo riso beffardo.

– Sai cos’era quella testa, papà Catrame? – disse poi.

– Non lo so, – rispose il mastro, bruscamente.

– Era quella di una foca!

– Sarà, ma non lo credo.

Sì, papà Catrame, era una foca dello stretto di Bass; e aggiungerò, per meglio convincerti, che in quel braccio di mare sono numerose quanto le tinche dei nostri stagni e che di notte si può scambiare la loro testa rotonda con quella di una creatura umana. Sei persuaso?

Il mastro non rispose né sì, né no, ma ci lasciò, brontolando più del solito.

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