Capitolo VIII – Una notte infernale

I sette uomini si caricarono dei tamburi e delle casse e, approfittando del momento in cui un gran colpo di vento si rovesciava sulla foresta sfrondando gli altissimi pini, si misero a correre colla speranza che gli orsi rimanessero indietro o che tornassero verso la macchia delle betulle per raggiungere il loro primo padrone.

Niente affatto. Quei bravi animali, dopo una breve esitazione, si erano slanciati alle calcagna del drappello, mandando dei fremiti poco rassicuranti. Correvano come caribou e in breve furono alle spalle di Testa di Pietra, il quale copriva la ritirata, non avendo ancora completamente perduta la fiducia nel suo sguardo.

«L’indiano ci gioca,» disse Jor. «Sono sicuro che ci segue e che sorveglia i suoi animali.»

«Lo credo anch’io,» disse Riberac «e vi proporrei di sparare qualche colpo di carabina.»

«E se si irritassero?» disse il bretone. «Per tutti i campanili della Bretagna!… Sono troppi!…»

«Patre!…» gridò in quel momento Hulnk che correva dinanzi a tutti, portandosi sulle spalle una cassa. «Io afere scoperto altro rifugio!…»

«E la pianta non è meno grossa di quella che ci aveva ospitati,» aggiunse Wolf.

«Un’altra caverna legnosa?»

«Sì, patre.»

«Vasta?»

«Capace contenere venti uomini.»

«Ci possono stare allora anche gli orsi,» disse Piccolo Flocco.

«Ah, non li lasceremo entrare,» disse Riberac.

Il buon tedesco si era fermato dinanzi ad un pino diverso da quello degli altri. Era una superba lambertina, alta quasi trecento piedi, ossia cento metri, e che aveva l’enorme tronco spaccato alla base.

Tutto intorno vi erano centinaia e centinaia di frutti conici, lunghi un buon piede e mezzo, caduti dall’alto e che dovevano essere pieni di mandorle, le quali sono assai nutritive ed assai gustose se arrostite.

Gl’indiani anzi le macinano e ne traggono una specie di farina che condiscono col grasso degli orsi.

«Che colosso!…» esclamò Testa di Pietra, dopo aver respinto, col calcio della carabina. i cinque platingradi, i quali cominciavano a diventare aggressivi.

I suoi compagni si erano già rifugiati nell’interno del gigantesco albero, il quale offriva un asilo assai più vasto di quello che Jor aveva scoperto presso le rive del lago.

Era ingombro anche quello di polvere legnosa che sprigionava un acuto odore di resina, salubre sì ma seccante per uomini che avevano i polmoni buoni abituati piuttosto all’aria marina. che è ben più vivificante e che non ha odori ingrati.

Le acque ed il vento dovevano però aver portato via una gran parte di quell’imbombro, spingendolo a poco a poco fuori, sicché rimaneva abbastanza spazio per stabilirvi un bell’accampamento.

«Decisamente qualche buona stella ci protegge,» disse Testa di Pietra dopo aver gettati rapidamente i tamburi dinanzi allo squarcio che, se era assai alto, aveva una larghezza appena capace di lasciare passare due uomini insieme. «Questo asilo giunge in buon punto, poiché l’uragano torna ad infuriare.»

«Come vi ho detto, se ne trovano molti nelle nostre foreste canadesi. Vi sono delle carie che divorano rapidamente i più grandi pini,» disse Riberac. «Io non ne sono affatto stupito. Quante notti ho passato dentro le caverne legnose, dormendovi profondamente e…»

«Aspettate un po’ a raccontare il resto, signore.» disse il vecchio bretone, il quale si era slanciato verso l’apertura impugnando la carabina per la canna. «C’è questo birbante di Nicò che vuole assolutamente venire a tenermi compagnia, ciò che non desidero affatto.»

Non era però solamente l’orso battezzato con quello strano nome che voleva mettersi al coperto dai furiosi colpi di vento freddissimo che fischiavano attraverso la foresta. Anche gli altri si spingevano mostrando i denti e le unghie, risoluti, a quanto pareva, a forzare l’entrata.

Piccolo Flocco e Jor si erano slanciati in aiuto del bretone, mentre Riberac, i due assiani ed il segretario del marchese, ritirati i tamburi prima che potessero venire rovinati dalle zampacce degli assalitori, si mettevano a battere una carica indiavolata.

Gli orsi, udendo quei rulli, parvero diventare improvvisamente furiosi. Forse quattro tamburi erano troppi pei loro orecchi.

Si erano alzati sulle zampe posteriori e mandavano fremiti acuti, spingendosi innanzi.

«Prova il tuo sguardo affascinante,» disse Piccolo Flocco al bretone, non senza una punta d’ironia.

«Non credo più alla sua efficacia.» rispose egli tempestando Nicò col calcio della carabina in pieno muso. «Mio nonno non deve aver lasciato a mio padre che una ben piccola parte del suo famoso sguardo, ed io non ne ho avuto quasi nulla.»

«Eppure prima ti ubbidivano.»

«Che cosa vuoi che ti dica?»

«Silenzio,» disse in quel momento il trafficante.

Fra le urla del vento aveva potuto ancora raccogliere dei fischi stridenti che erano echeggiati a non breve distanza dalla gigantesca pianta.

«Ah!… L’indiano!…» esclamò. «Quel miserabile ci giocherà un pessimo tiro se noi non riusciremo a sbarazzarci di questi bestioni che obbediscono sempre a lui.»

«Proviamo ad ammazzarne qualcuno,» disse Testa di Pietra. «Nicò, che mi sembra il più pericoloso.»

Aveva già alzata la carabina quando gli orsi, come se avessero intuito il pericolo, balzarono lestamente indietro coricandosi fra le pigne che coprivano abbondantemente il suolo.

«Ah furfanti!…» gridò Piccolo Flocco. «Hanno l’intenzione di assediarci.»

«Quel cane d’un indiano li ha ammaestrati meravigliosamente, non c’è che dire,» disse Jor. «Obbediscono ai suoi segnali meglio che i soldati agli squilli delle trombe.»

«Meno male che non sono orsi grigi,» disse Riberac. «A quest’ora ci avrebbero divorati, mentre il nero non mangia mai le sue vittime.»

«Attacchiamo?» chiese Testa di Pietra, il quale pareva furibondo. «Io ne ho abbastanza di questi bestioni.»

«Non fidatevi, mastro,» rispose Jor. «Sono molto grossi e le nostre palle difficilmente riusciranno ad ucciderne uno. Guardate: scortecciano le pigne e rosicchiano le mandorle. Finché non ci danno l’assalto, lasciamoli tranquilli. È l’indiano che io vorrei sorprendere.»

«Và a fare una passeggiata pei boschi,» rispose Testa di Pietra. «Se lo prendi ti darò dieci ghinee.»

«Non mi sento in grado di lasciare questo rifugio,» rispose il marinaio della fusta. «Si sta troppo bene qui in vostra compagnia. E poi sarei sicuro di non guadagnare il premio.»

«Perché?»

«Perché gli orsi mi ammazzerebbero.»

«Credo che tu abbia ragione,» rispose il vecchio mastro. «Nemmeno io oserei uscire. specialmente con questo uragano.»

E la tempesta, in quel momento, infuriava davvero con un fragore infernale, scompigliando le grandi macchie.

Dal Champlain giungevano continuamente raffiche su raffiche, sempre più poderose, le quali spazzavano i rami come se fossero stati fuscelli di paglia.

Il sole era scomparso. Già le giornate, in novembre, sono brevissime al Canada, ed alle tre non ci si vede quasi assolutamente più, specialmente nelle regioni occidentali che sono coperte di foreste e foreste senza fine, le quali si spingono verso il Mackenzie, il fiume gigante, che taglia loro la strada.

«Non si potrebbe accendere un po’ di fuoco, giacché gli orsi si sono calmati?» chiese il segretario del marchese. «Fa freddo entro questa caverna legnosa. Stavo molto meglio nella mia cabina del brigantino.»

«Luminosa idea per far scappare quei bestioni senza impegnare un combattimento che potrebbe avere per qualcuno di noi delle conseguenze terribili,» disse Testa di Pietra. «Sfasciate le casse, affastellate il legname fuori dello squarcio e bruciate. Se potremo uscire, i rami pieni di resina non ci mancheranno. Il vento ne getta giù a migliaia. ed anche questo colosso comincia ad essere malmenato.»

«Ci sono le pigne che arderanno come vere torce.» disse Riberac. «Le abbiamo a portata di mano.»

«Provatevi però ad andare fuori a raccoglierne alcune. Vedrete se gli orsi vi lasceranno fare senza darvi qualche colpo di zampa.»

«Sono sempre in agguato?»

«Ma sì, e sembrano decisi a passare la notte in nostra compagnia. Intanto divorano mandorle con rapidità spaventosa.»

«Orsi afere paura di fuoco,» disse Hulrik, il quale, insieme a suo fratello, sfasciava le casse. «Nelle nostre foreste sempre scappare.»

«Quelli sono orsi bruni,» rispose il vecchio bretone. «So però che tutte le bestie hanno paura del fuoco, non esclusi i leoni. Signor Oxford, che cosa ne sarà del brigantino con questo po’ di bufera? Non vi è nessun buon approdo è vero, signor Riberac, sulla riva che noi abbiamo percorsa?»

«Solamente per delle scialuppe,» rispose il trafficante. «Non so come se la caverà l’equipaggio di quel legno che è addosso agli scogli.»

«Se non ha preso il largo,» disse il segretario. «Il lord è un buon marinaio che vale forse quanto suo fratello. il baronetto Mac-Lellan.»

«Mi spiacerebbe,» disse il vecchio bretone. «Io speravo che le onde mandassero la nave verso la costa e che annegassero almeno buona parte dei suoi marinai, se non il marchese. Ah!… Signori orsi, buon appetito!… Non siete ancora pieni? Qui avete trovato una cena alta come il campanile di Batz. Lasciate almeno anche a noi un po’ di mandorle. Siete troppo egoisti.»

«Largo, patre,» dissero in quel momento i due tedeschi, i quali erano carichi di pezzi di casse. «Noi fare scappare brutte pestie.»

«Badate di non dare fuoco al pino,» disse Riberac.

«No, buon patre.»

Uscirono coraggiosamente, scortati da Jor e da Piccolo Flocco. ed a cinque o sei metri dall’entrata del rifugio formarono una piccola catasta.

Gli orsi, tutti intenti a divorare, non si erano nemmeno mossi. Si erano limitati a brontolare su diversi toni.

I due tedeschi malgrado il vento, muniti di una corda incatramata, diedero fuoco al piccolo falò, poi scapparono, coi loro protettori, dentro il rifugio.

Una fiamma vivissima ruppe le tenebre già scese con una rapidità spaventosa, diffondendo un chiarore che aveva bagliori di sangue.

I cinque bestioni dapprima rimasero come stupiti, poi lasciarono le pigne che stavano divorando, allontanandosi di parecchi metri e dando segni di viva agitazione.

«Saltiamo fuori,» disse Testa di Pietra. «Bisogna che uccida Nicò.»

«Siamo pronti a seguirvi,» disse Riberac. «Approfittiamo del loro sgomento. Qualcuno andrà a gambe all’aria.»

I sette uomini uscirono fuori armati, poiché anche il segretario aveva il suo bravo fucile dal tiro però assai problematico, il fucile dell’indiano, e fecero una scarica.

Nicò, che Testa di Pietra voleva assolutamente morto, fu il solo a cadere.

Tutti lo avevano preso di mira e lo avevano ben imbottito di piombo.

Gli altri quattro, spaventati dalle detonazioni, scapparono a gran galoppo, scomparendo ben presto sotto le piante.

«Non saranno più cinque,» disse Testa di Pietra, il quale aveva impugnata l’ascia.

S’avvicinò al bestione, il quale era stramazzato presso il falò, e, vedendo che dava ancora qualche segno di vita, gli spaccò il cranio.

«Domani avremo dei magnifici zamponi,» disse. «Varranno meglio dei vostri prosciutti salati e delle vostre lingue di bisonte, signor Riberac.»

«Lo credo anch’io,» rispose il trafficante. «La notte però è appena cominciata.»

«Che cosa vorreste dire?»

«Che prima di domani potrebbero toccarci delle sorprese.»

«Da parte dell’indiano?»

«Che ne so io? Non sono affatto tranquillo. Pensate che vi sono anche gl’inglesi?»

«Avranno troppo da fare per occuparsi proprio ora di noi. Hanno la tempesta da combattere. Il lago deve essere agitatissimo e lo diventerà maggiormente questa notte. Il marchese avrà poco da ridere.»

«Sperate che faccia naufragio?»

«Lo spero.» rispose Testa di Pietra. «Sono un vecchio marinaio io, e me ne intendo di uragani. Ohé, che cosa fate, amici? Alimentate il fuoco?»

«E arrostiamo mandorle.» disse Piccolo Flocco il quale insieme a Jor e ai due tedeschi gettava sul fuoco bracciate di pigne. «Fa un freddo cane e comincia a nevicare a larghe falde. Un po’ di calore entrerà anche nel nostro rifugio se continueremo a bruciare. Se vuoi, camerata, possiamo cenare. Le mandorle mandano un profumo squisito e Jor, che se ne intende più di noi, assicura che sono abbrustolite a perfezione.»

«Per far lavorare i miei denti sono sempre pronto,» rispose il vecchio cannoniere. «Abbiamo fatto una colazione ben magra, con più abbondanza di ferro rovente che di prosciutti e di salsicciotti. Non ho avuto nemmeno il tempo di assaggiare le lingue di bisonte affumicate.»

«Eccellenti, mastro, te lo assicuro.»

«Le proverò anch’io.»

Jor e i due tedeschi portarono parecchie centinaia di mandorle calde dinanzi all’entrata della caverna legnosa, mentre Piccolo Flocco accumulava pigne su pigne sul fuoco, scatenando una fiammata intensissima alta parecchi metri.

I lunghi rami di pino impedivano alla neve di giungere al suolo per un circuito considerevole, mantenendo così il terreno quasi sgombro al di sopra del falò.

La notte si presentava pessima. Le raffiche si succedevano alle raffiche con ululati impressionanti, devastando le macchie di betulle e ontani le quali non potevano resistere a quella furia.

Foglie e rami volteggiavano in aria per abbattersi poi al suolo dove riprendevano la loro corsa indiavolata attraverso la foresta, roteando.

«Forse l’incontro con l’indiano è stata la nostra fortuna,» disse Testa di Pietra. «Se avessimo ripresa la marcia verso il lago dove avremmo potuto trovare un asilo noi, dopo che quei cani d’inglesi si sono divertiti a distruggere non solo il deposito bensì anche il pino? Qualche pianta ci sarebbe caduta addosso ammazzandoci tutti o per lo meno storpiandoci.»

Parlava, ma anche mangiava accompagnando le mandorle con una mezza lingua di bisonte. Gli altri, d’altronde, lo imitavano gareggiando fra di loro.

Riberac sturò un paio di bottiglie del suo famoso gin e le offerse ai compagni i quali, malgrado il gran fuoco che ardeva a pochi metri dalla base del pino, cominciavano a provare dei gran brividi di freddo.

«Ecco quello che ci voleva,» disse Testa di Pietra con aria soddisfatta. «Scaldiamoci un po’ dentro.»

Tracannò alcuni sorsi, poi caricò la pipa e andò ad accenderla al falò il quale si allargava continuamente, essendovi tutt’intorno pigne cadute forse da molto tempo e perciò ben secche.

Aveva appena aspirata una boccata e stava per ritornare, quando gli parve di vedere un’ombra umana passare velocemente attraverso una macchia che il fuoco in parte illuminava.

«Che sia l’indiano?» si chiese.

Sapendo quanto i pellerossa sono abili a lanciare, anche a cinquanta passi, le loro scuri di guerra con precisione quasi millimetrica, si affrettò a raggiungere i compagni i quali si stringevano gli uni agli altri per meglio scaldarsi.

«In guardia, amici,» disse. «Questa notte noi non dormiremo certamente. Io giurerei di aver visto Aquila Bianca.»

«Coi suoi orsi?» chiese Jor.

«No, le bestie non le ho vedute, ma forse non sono lontane e ci spiano, attendendo qualche nuovo segnale da parte del loro padrone.»

«Ci racconteremo delle storie per non chiudere gli occhi,» disse Piccolo Flocco.

«Basterà che ne raccontiate una sola. Testa di Pietra,» disse Riberac. «Sarà certamente interessantissima.»

«Quale?» chiese il vecchio bretone sedendosi su un ammasso di polvere legnosa.

«Mi avevate promesso di dirmi qualche cosa sul baronetto e sul marchese d’Halifax e di spiegarmi anche i motivi del loro odio feroce.»

«È vero: voi, che ci avete aiutati, avete il diritto di saperlo. E poi il signor Oxford mi aiuterà.»

«Conosco forse meglio di tutti quella storia.» disse il segretario del marchese. «Sappiate innanzi tutto che quei due uomini sono veramente fratelli, quantunque il marchese abbia avuto per madre una duchessa d’Argyle e il baronetto una gentildonna francese. Il vecchio lord, che era assai eccentrico, un giorno, rimasto vedovo della sua prima moglie, partì per la Francia, si riammogliò ed ebbe il baronetto, il famoso corsaro della Tuonante. Scoppiata la guerra nelle Fiandre, partì senza aver pensato a far nominare anche il suo secondo figlio marchese d’Halifax. Forse il re d’Inghilterra, sobillato dal primogenito, glielo aveva impedito. Morì sul campo di battaglia tagliato in due da una palla di cannone spagnolo. Il baronetto aveva sempre creduto di essere francese, poiché suo padre aveva assunto un altro nome lasciando la sua patria e nulla aveva d’inglese il nome della sua seconda moglie. Passarono alcuni anni. Il <bastardo>, come lo chiamò più tardi suo fratello il marchese, senza pensare che nelle sue vene scorreva il sangue degli Halifax, poiché era ben figlio di suo padre, cresceva valentissimo nelle armi sotto la guida d’uno scudiero francese, studiò nautica in un collegio di Brest e, diventato capitano, armò una nave da corsa. Infuriava allora la guerra tra la Francia e l’Inghilterra, e il giovane non tardò a diventare famoso. Lo chiamavano il «corsaro dai capelli biondi» e non aveva rivali. Le prede da lui fatte furono tante da impressionare il re d’Inghilterra e anche suo fratello il marchese, che lo faceva sorvegliare strettamente da alcuni fidi scozzesi che si fingevano francesi. Era diventato il terrore della Manica e del Mar del Nord, e più nessuno osava affrontarlo.»

«Gl’inglesi scappavano come gabbiani dinanzi a noi,» disse Testa di Pietra. «Ah!… Come li cannoneggiavo bene!… Avevo l’occhio più sicuro allora e ogni volta che i miei due pezzi da trentadue tuonavano, spaccavano con palle incatenate le navi nemiche immobilizzandole.»

«Già da quattro anni il futuro baronetto devastava le coste inglesi, quando un giorno, mentre la sua Tuonante si raddobbava a Brest…»

«No, a Le Havre, signor Oxford,» corresse il mastro.

«Un messo di suo fratello lo raggiungeva rimettendogli la nomina di baronetto Mac-Lellan, firmata dal re d’Inghilterra insieme a una lettera del marchese suo fratello con la quale lo pregava di lasciare la Francia e di raggiungerlo nel castello d’Argyle, situato in un’isola delle Ebridi. Forse esitò, ma poi cedette, anche ansioso di conoscere il primogenito che teneva pure un alto comando nella marina inglese, e gettò in mare la bandiera francese che aveva difeso con tanto valore.»

«E fu la sua disgrazia,» disse Testa di Pietra.

«Perché?» chiesero Jor e Riberac.

«Perché suo fratello non lo amava affatto, anzi aveva contro di lui una sorda invidia per la fama che si era creata come marinaio invincibile. È vero, signor Oxford?»

«Proprio così,» rispose il segretario. «Tuttavia l’accoglienza fu cordialissima in apparenza, ed il baronetto s’indusse facilmente ad abbandonare per sempre la marina francese e ad aiutare quella inglese che ne aveva allora estremo bisogno. Forse i due fratelli, nati da madri diverse, avrebbero potuto col tempo andare d’accordo se non ci fosse stata una donna: Mary di Wentwort.»

«Chi era?» chiese Riberac.

«Una delle più belle perle del Nord, gentildonna scozzese, imparentata coi duchi di Fife e di Lorme, le due più alte nobiltà dell’Inghilterra settentrionale. Il baronetto che, durante le tempeste invernali, si riposava nel castello d’Argyle, la vide e se ne innamorò pazzamente.»

«Non so chi avrebbe resistito a quella bionda bellezza dagli occhi azzurri,» disse Testa di Pietra. «Era senza dubbio la più splendida fanciulla che abitasse la Scozia.»

«E fu contraccambiato?» chiese Riberac.

«Godeva troppa fama di uomo valoroso per essere rifiutato,» disse il segretario. «Si amarono e fu deciso il matrimonio. Il marchese, che viveva quasi sempre a corte, appena poté vederla, fu lui pure preso da un pazzo desiderio di farne la propria moglie e concepì l’infame disegno di rapirla al fratello. Era allora scoppiata la guerra in America e si cominciava a combattere ferocemente intorno a Boston, che il generale Washington aveva giurato di prendere essendo una delle piazze più forti che avessero gli inglesi. Una grossa squadra si era formata per accorrere, senza indugio in aiuto della città minacciata, e il re d’Inghilterra ne aveva affidato il comando ad Howe e al marchese d’Halifax, pure lui valente marinaio.»

«Ah, non come suo fratello!» disse Testa di Pietra.

«Lo ammetto, però era un valore da non disprezzarsi.»

«Continuate, signor Oxford.» disse Riberac il quale aveva pure accesa la pipa. «Questa storia è assai interessante.»

«Il baronetto era partito per Edimburgo onde comperare i regali alla fidanzata e, quando tornò, non la trovò più. Il marchese, approfittando della sua assenza, gliela aveva rapita conducendola con sé, di forza, a Boston.»

«Ah, il brigante!…» esclamò Riberac. «Ed era suo fratello!…»

«Se lo chiamavano il <bastardo>!…» disse Testa di Pietra. «Ed ora, signor Oxford, lasciate pure raccontare a me.»

«Il marchese l’aveva sposata?» chiese il trafficante.

«No,» disse il segretario. «Mary di Wentwort aveva paura di quell’uomo e non pensava che al baronetto. Era una fanciulla energica, capace di tener testa a quel bruto, che aveva agito come un pirata. Doveva diventare una Mac-Lellan: così era scritto sul gran libro del destino.»

«Ora lasciate pure a me,» disse il vecchio bretone, il quale appariva assai commosso. «Non dimenticherò mai la terribile ira del baronetto, il quale si era veduto così indegnamente giocato dal fratello. La Tuonante fortunatamente era pronta e salpammo per l’America, tutti decisi a strappare la bionda miss al miserabile. La stagione allora era cattiva, tuttavia riuscimmo ad approdare alle Bermude, quando già la flotta di Howe e del marchese era entrata felicemente a Boston. Le Bermude, come forse avrete saputo, erano abitate da corsari intrepidi i quali si erano impegnati ad aiutare Washington nella sua aspra guerra contro la possente Inghilterra. Quei bravi marinai misero a nostra disposizione delle svelte navi e una notte riuscimmo a forzare il blocco e a gettare le ancore sotto le mura di Boston, già ben stretta da ogni parte e coperta, giorno e notte, di palle americane che a poco a poco diroccavano le sue fortificazioni. Là i due fratelli, quando la città resisteva ancora, s’incontrarono e il marchese si ebbe dal fratello il primo colpo di spada che per poco non lo mandava a riposare per sempre e… Ah!…»

Testa di Pietra si era alzato impetuosamente. guardando verso l’immenso braciere sul quale ormai si carbonizzava Nicò che nessuno aveva pensato a trascinare dentro il rifugio.

«Gli orsi!…» gridò. «Riprenderemo più tardi questa storia. Ora è il momento di pensare alle nostre polpe. Quel cane d’un indiano si è ripromesso di ingrassare le sue bestie con le nostre carni. Sarà forse riuscito a farli diventare carnivori. Su, su, tutti!…»

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