Capitolo XVI – Verso il castello di Clairmont

Un vivo senso di costernazione si dipinse sul viso degli amici del vecchio mastro nell’udire le sue parole.

L’incidente era senza dubbio di una gravità eccezionale.

Essi erano arrivati fin là, attraverso tanti pericoli, avevano lottato contro Davis e gli Irochesi per salvare le due lettere da consegnarsi ad Arnold e a Saint-Clair, i comandanti del forte di Ticonderoga, ed ecco che ad un tratto s’accorgevano che quelle due lettere preziose, per una misteriosa fatalità, erano sparite, mentre credevano di essere ormai salvi e sicuri di portarle alla loro destinazione intatte.

Testa di Pietra non sapeva spiegarsi la loro scomparsa e appariva desolato al massimo grado. Si strappava i radi capelli, o meglio tentava di strapparseli, perché essi erano troppo ben radicati sul cranio, e se la pigliava con tutti i campanili della terra e tutti i vascelli del mare, come se fossero creature sensibili al suo cospetto.

Sir William Mac-Lellan, che si era un po’ appartato col gentiluomo francese, udì la musica del vecchio cannoniere e s’informò delle cause che la provocavano.

«Le due lettere sono scomparse!…» esclamò egli, quando seppe la faccenda, con gesto di costernazione. «Cospetto, è una vera disgrazia…»

«Ah!»

«La quale però sarebbe meno grave di quanto sembri,» continuò il baronetto, «se si potesse accertare che i due pieghi non sono caduti in mano di persone interessate a conoscerne il contenuto per servirsene contro di noi e della causa americana, ma semplicemente smarriti.»

«Credo infatti che sia così,» s’affrettò a dire Testa di Pietra, aggrappandosi a quella speranza come a una tavola di salvezza. «Nessuno me li può certo aver rubati… e io li devo aver perduti sventatamente, pari a una stupida comare di Batz innamorata…»

«Se è così,» soggiunse Sir William, «la situazione non è compromessa irreparabilmente e noi non dobbiamo disperarci.»

«Mi consolate, comandante… Vi ringrazio.»

«Infatti, io conosco a memoria il contenuto delle due lettere, di cui una è mia, del resto… e potrò sempre riferirlo a voce ai comandanti di Ticonderoga, con le disposizioni precise del generale Washington. È necessario però raggiungere al più presto possibile il forte americano.»

«Io vi indicherò la via più corta e più sicura per arrivarci,» disse Goffredo Lespinois, barone di Clairmont, il quale assisteva al colloquio. «Seguitemi al castello… Là discuteremo e provvederemo a tutto.»

«Come volete.»

Stavano per mettersi in cammino, quando Testa di Pietra fece improvvisamente udire una nuova esclamazione.

«Che altro c’è?» chiese Sir William, non nascondendo un po’ di inquietudine.

«Oxford!…» soggiunse il mastro guardandosi attorno.

«Oxford… come c’entra qui, nel Canada, questa celebre sede della scienza e dell’insegnamento dell’Inghilterra?»

«Corpo d’un campanile!…» continuò Testa di Pietra. «Che l’abbiano ucciso o che si sia dato alla fuga, il mariolo?… So bene che non aveva troppo coraggio, ma…»

«Ti spiegherai una buona volta, spero; mi dirai pure di chi vuoi parlare.»

«Per il borgo di Batz, del segretario del marchese.»

«Che!…»

«Ah, è vero, voi non sapete, mio comandante, in che modo stanno proprio le cose. Ora vi metto al corrente di tutto quanto ho dimenticato di dirvi. Prima però, lasciatemi dare alcune disposizioni ai miei compagni.»

«Fa’ pure.»

Testa di Pietra chiamò Piccolo Flocco. Jor e i due assiani e diede loro l’ordine di cercare dappertutto il pusillanime Oxford; quindi si rivolse al capitano e gli disse:

«Nella fretta d’informarvi sugli avvenimenti verificatisi durante il viaggio fin qui, avevo dimenticato di narrarvi la cattura di mister Oxford e di dirvi dei cambiamenti accaduti nel suo animo dopo ch’egli si vide abbandonato in nostro potere dal suo padrone. Ecco ora come stanno le cose.»

E il bretone riferì al baronetto quanto i lettori già sanno.

Poi riprese:

«Durante l’assalto degl’Irochesi noi abbiamo perduto di vista il segretario del marchese. Ma ciò non deve meravigliare. Egli è un poltrone che ha più paura di un coniglio. Mentre noi abbordavamo il brigantino del suo padrone, egli se ne stette nascosto nel fondo di un canotto per sfuggire alle palle e non sentirne il fischio. Certamente, se non è morto di spavento, ora si sarà rifugiato in qualche nascondiglio ad attendervi l’esito della battaglia, o avrà messo tra sé e l’accampamento la maggior distanza possibile lavorando di gambe.»

«E tu lo credi sinceramente divenuto nemico di Halifax?»

«Sicuro; un uomo che è stato sul punto di vedersi appeso ad un laccio pendente e ha sperato invano di essere soccorso dal suo padrone, non può certamente essergli più fedele.»

«Chissà?… Forse il suo primo impulso è stato tale, ma poi l’interesse può avergli suggerito di fingere con voi, per carpirvi dei segreti a vantaggio dei nostri nemici, e trarvi magari in qualche tranello.»

«Diavolo!…»

«Bisogna vigilare…»

«Io tengo sempre gli occhi bene aperti.»

«E non stimare gli altri con la misura di se stessi.»

In quel momento alcune grida e delle risate si udirono da un punto del campo.

«Eccolo!…»

«Scovato il mariolo.»

«Su, poltrone; animo, coniglio, che ogni pericolo è scomparso.»

«Ah, ah, ah!…»

«Non afer mai feduto uomo più pauroso.»

Eran le voci di Piccolo Flocco e di Hulrik che risonavano clamorosamente.

Tutti gli sguardi si volsero allora al luogo donde esse partivano, e si videro i due fedeli compagni del mastro della Tuonante sollevare da terra un uomo, sostenerlo sotto le ascelle e spingerlo innanzi con una energica impazienza.

«Corpo della mia vecchia pipa di famiglia…» esclamò Testa di Pietra tutto rallegrato da quella vista. «È lui, Oxford in carne ed ossa… Si era nascosto per non buscarne, nemmeno per sbaglio. Sono contento di rivederlo, quel povero diavolaccio, e di non averlo giudicato male.»

«Tanto meglio,» soggiunse Sir William. «Se egli ci è devoto sarà certamente utile alla nostra causa.»

«Ne sono convinto, mio comandante.»

Il segretario del marchese e i suoi custodi arrivarono.

Oxford era pallidissimo e tremante.

Cercava di evitare gli sguardi canzonatori che si posavano su di lui e mostrava una grande confusione.

Il vecchio bretone gli mosse incontro e gli tese la grossa mano leale tonando:

«Orsù, caro segretario, voi non sarete mai un eroe, ma siete un brav’uomo, e perciò vi vedo con gioia ritornare fra noi sano e salvo. Un po’ di contegno per mille corvette, ora che siete al cospetto di Sir William Mac-Lellan!»

Oxford trasalì e sollevò gli occhi vergognosi.

S’avvide allora del baronetto che lo fissava con uno sguardo tra indagatore e sprezzante.

«Sir, perdonatemi il triste spettacolo che vi offro con la mia pusillanimità,» balbettò inchinandosi profondamente. «Non sono uomo di guerra, io, e al primo segno della battaglia mi sono nascosto sotto un mucchio di pelli d’alce o di orso e sono rimasto là, mezzo morto di paura; e chissà quando avrei trovato la forza di uscirne, se Piccolo Flocco e Hulrik non mi avessero scoperto e tratto fuori.»

«Rassicuratevi, mister Oxford,» rispose il baronetto. «In voi la paura non è una colpa, quindi non ho nulla da perdonarvi.»

A quelle parole velatamente ironiche, il segretario del marchese d’Halifax si morse un labbro, mentre un lampo che nessuno vide gli passava negli occhi velati dalle ciglia.

«Signori.» s’affrettò a soggiungere Sir William Mac-Lellan, «non perdiamo qui più oltre del tempo. Ho fretta, al pari del signor di Clairmont, di far ritorno al castello ove delle persone care stanno certamente in pena per noi. In cammino.»

Era pieno giorno, ormai, e tutti i Mandani superstiti si davano attorno a riordinare l’accampamento.

«Sapete adesso che cosa faccio?» disse Testa di Pietra.

«Udiamo.»

«Riunisco in un meeting tutti i miei sudditi.»

«Bene; e poi?»

«Poi tengo loro una specie di discorso.»

«Allo scopo…»

«D’informarli che son stanco di fare il sackem e che perciò rinuncio alla carica.»

«Sta a vedere se la tua dozzina di mogli sarà contenta,» osservò il giovane gabbiere.

«Contente o no, io ne ho fin sopra i capelli e li pianto tutti in asso, i signori pellerossa.»

«Sarebbe un errore che potremmo scontare in seguito amaramente,» disse con tono grave il canadese Jor. «I Mandani ora vi adorano, mastro Testa di Pietra, vi considerano come l’uomo, il capo, che li può salvaguardare dalle ire degl’lrochesi sconfitti. Se li abbandonate, voi e i vostri amici, in questo momento, vi si volgerebbero contro e sarebbero guai seri. Dovete pazientare e restare ancora il sackem dei Mandani.»

«Corpo di un campanile!…»

«Inoltre, questo esercito di selvaggi ci è utile alla causa americana. Lo terremo sulle rive del Champlain per opporlo agl’inglesi.»

«Dopo tutto avete ragione. Mi sacrificherò a restare.»

«Almeno finché sia in grado di succedere a voi Macchia di Sangue.»

«Sta bene.»

«E poi non dimentichiamo che c’è Riberac da salvare.»

«È vero.»

«Se pur ne avremo il tempo.»

Furono spiegate le cose a Sir William e al signor di Clairmont. Entrambi diedero ragione a Jor e allora venne deciso che Testa di Pietra con una scorta di guerrieri indiani, avrebbe accompagnato i suoi amici fino al castello per presentare i suoi omaggi a madama Mac-Lellan, e rifornirsi d’armi e di munizioni che il signor di Clairmont teneva nascoste in sotterranei segreti.

Quindi, insieme con Jor e un drappello di marinai, avrebbe raggiunto la sua tribù per mettersi alla ricerca di Riberac, mentre Piccolo Flocco e i due assiani restavano con Sir William, il quale doveva far ogni sforzo per raggiungere il forte di Ticonderoga, essendo andate perdute le lettere, e dovendo perciò riferire a viva voce il loro contenuto ai due comandanti americani.

Ciò stabilito, Testa di Pietra prese una ventina di guerrieri Mandani scelti fra i più aitanti nella persona e i più saldi di cuore e si mise in cammino alla volta del castello di Clairmont.

Strada facendo, Sir William Mac-Lellan spiegò le cause della sua improvvisa comparsa sulle rive del Champlain, cause che noi riferiremo anche perché serviranno a delineare la situazione delle ostilità fra i due stati belligeranti.

«Amici miei,» prese dunque a dire l’animoso baronetto, «data la vostra lunga assenza dal teatro principale della guerra, certo voi ignorate molti degli avvenimenti che si sono succeduti in questi ultimi tempi. Io vi metterò in breve al corrente di essi. Voi sapete che l’esercito capitanato dal generale Washington è composto di truppe regolari assoldate, le quali costituiscono il cosiddetto <esercito continentale>, e di milizie volontarie levate dai vari stati. Le prime, ahimè non superano i millecinquecento uomini; le seconde più numerose e molto abili nell’inseguire e molestare il nemico, non sanno resistere ad una battaglia in aperta campagna. Per maggior sventura, fin dai primi di quest’anno le malattie hanno recato spesso più danno a tali truppe che non le spade e i fucili inglesi; e Washington, mentre stava a Morristown, ha dovuto far innestare il vaiolo a tutti i suoi soldati, tenendo segreta l’operazione, onde gl’inglesi non traessero profitto dallo stato d’indebolimento del nostro esercito per assalirlo e distruggerlo. A primavera avanzata, Washington si recò a Middlebrook per vigilare di là le mosse di Howe. Il generale inglese, per trarlo da quella posizione, finse di ritirarsi all’Isola degli Stati e vi avviò infatti le salmerie e l’artiglieria. Washington si lasciò cogliere al laccio e si mosse da Middlebrook per danneggiare la retroguardia nemica. Allora Howe richiamò le truppe tragittate, divise le sue forze in due schiere, una sotto di sé, l’altra agli ordini di Cornwallis e assalì gli americani da due parti, per sterminarli. Vi sarebbe forse riuscito, se un battaglione della nostra fanteria non avesse incontrato Comwallis, il quale aveva incaricato di prendere Washington alle spalle, e non si fosse impegnato risolutamente in una fiera lotta. Al fragore del combattimento il dittatore americano comprese l’inganno in cui era caduto, e s’affrettò abilmente a retrocedere e a rioccupare Middlebrook. Howe non si scoraggiò per questo. Fece allestire una flotta, v’imbarcò le truppe e fece vela da Sandyhook. Dove andava? Mistero. Washington dubitava, spiando. Appena venne a sapere che la flotta si era mostrata dinanzi alla Baia del Delaware, sospettò che la mèta della spedizione inglese fosse Filadelfia e subito volò in soccorso di questa città. Ma Howe senza dubbio non ignorava che il Delaware era impraticabile per le palafitte e i carcami di navi affondate che la ostruivano; quindi si diresse alla Baia di Chesapeak, sbarcando il suo esercito al Cavo dell’Elk. Ora i due eserciti americani erano di fronte, a una distanza di sole sette miglia, separati dal fiume Brandywine.

«Fra i soldati di Washington erano uomini nobilissimi venuti dall’Europa per combattere in nome dell’ideale repubblicano. Il più notevole di essi era o, meglio, è, poiché il cielo ha voluto serbarlo ancora al trionfo inevitabile della causa americana, il marchese Lafayette, venuto dalla Francia appena diciannovenne, dopo aver abbandonato una consorte adorabile e una corte piena di splendori, per combattere come semplice milite fra le file americane.»

«Per tutti i campanili della Bretagna!…» esclamò Testa di Pietra asciugandosi con il dorso della mano gli occhi umidi di lacrime di gioia per l’onore che si faceva un suo compatriota. «Evviva la Francia!… Però, quel nobile ragazzo meritava subito un bel grado nell’esercito. Io lo avrei creato…»

«Maggior generale, come lo creò il congresso americano,» soggiunse Sir William, «ammirato dell’ardimento e della modestia di quel giovane marchese che, a differenza di tanti altri, veniva a chiedere un semplice fucile e un umile posto, dopo aver abbandonato onori e agi d’ogni sorta in patria.»

«Evviva l’America!…» tonò allora il bretone al colmo dell’entusiasmo.

«Il marchese di Lafayette, dunque,» riprese il baronetto, «e poi vi è anche il conte Casimiro Pulavski, eroico difensore della libertà della sua patria, la sventurata Polonia…»

«Scusate, sir,» intervenne il signor di Clairmont, «codesto conte Pulavski non è il polacco che, alcuni anni or sono, osò rapire, alla testa di un manipolo di prodi, il re Stanislao entro le mura stesse della città di Varsavia?»

«È lui, precisamente.»

«Ah, se gli Stati Uniti contassero pochi altri uomini come Lafayette, il Pulavski, e come voi, Sir William e i vostri fedeli… vedrebbero la propria indipendenza far passi da gigante…»

«Io di nulla temo,» replicò il baronetto Mac-Lellan con risoluta e schietta ammirazione, «finché so vivo, vigile e operante Giorgio Washington.»

Un rispettoso silenzio seguì alle solenni parole di Sir William.

Il quale ne approfittò per riprendere il suo discorso, così:

«Nel mattino di quel giorno fatale il generale Howe iniziò l’attacco contro Washington e, con la tattica consueta, ordinò che la destra dell’esercito, comandata da Knyphausen, facesse sembianza di passare il fiume Brandywine a Chasford, e la sinistra con Lord Cornwallis si recasse rapidamente e chetamente verso la parte superiore del fiume, lo guadasse e pigliasse i repubblicani alle spalle. Così infatti avvenne. Al dittatore americano venne tosto riferito lo stratagemma, ed egli comandò ai suoi di passare il Brandywine a loro volta e di schiacciare Knyphausen. Ma ecco giungere un altro avviso che smentiva il primo e diceva falso ciò che era vero. Washington ristette dal suo divisamento ardito che lo avrebbe sottratto a Cornwallis, sconfiggendo l’altra ala dell’esercito inglese. Troppo tardi i fatti fecero palese al generale repubblicano come stavano le cose. Allora egli mandò truppe a Sullivan onde facesse argine a Cornwallis. Alle 4 pomeridiane s’iniziò la battaglia, disperatamente. Ma gl’inglesi e i mercenari d’Assia, più numerosi, e, bisogna pur riconoscerlo, gareggianti fra loro nel dar prove di valore, ebbero, ahimè, ragione degli americani, sebbene questi si battessero da leoni, li scompigliarono, e, a notte fatta, li vinsero, costringendoli a ritirarsi nelle selve vicine per cercar ricovero poi in Filadelfia. I nostri perdettero millequattrocento uomini tra morti, feriti e prigionieri, cinquecento gl’inglesi. Il marchese Lafayette ebbe una ferita ad una gamba; il conte Casimiro Pulavski si batté gloriosamente e gli altri ufficiali francesi fecero del loro meglio per rendere meno disastrosa la rotta. Chi non avesse conosciuto Washington avrebbe potuto disperare ora delle sorti dell’indipendenza americana. Egli non smarrì l’animo saldo e l’altissima mente. Cercò di nuovo battaglia sulla Frenk-creek, ma una pioggia dirotta bagnò improvvisamente i rozzi e sgangherati archibugi dei nostri, rendendoli inservibili. Ragione per cui si dovette battere una seconda volta in ritirata, non senza nuove perdite. Che doveva fare in così tremenda situazione Giorgio Washington? Gl’inglesi potevano assalire Reading, dove si trovavano i magazzini dell’esercito, oppure Filadelfia. Il nostro generale, non potendo difendere entrambe le località, preferì l’utilità alla vanagloria, e abbandonò alla sua sorte Filadelfia. Howe vi entrò trionfante… ma voi, amici miei, potete credere che l’occupazione di una città così popolosa e non fortificata ha valso ad accrescere più la gloria del vincitore che la sua potenza.»

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