Capitolo XX – Un colpo di pistola

Il barone di Clairmont aveva accolto gl’inglesi con la tradizionale cortesia della sua patria, per quanto nell’animo suo avrebbe preferito scambiare con essi, invece che frasi gentili, dei buoni colpi di spada o di pistola.

Il marchese di Halifax si era quindi affrettato a spiegare le ragioni della sua venuta al castello, dicendo:

«Io ero imbarcato sopra un brigantino, col quale dovevo compiere una certa missione, che è inutile spiegare, signor barone, e poi raggiungere il generale Burgoyne, la cui flotta, numerosa di navi potentissime,» e il marchese calcò con la voce sugli aggettivi, «incrociava nel lago. Disgraziatamente la bufera che imperversava sul Champlain ha fatto naufragare la mia nave, costringendomi a cercar rifugio su qualcuna delle nostre corvette, la cui presenza ci era segnalata dai frequenti spari delle loro artiglierie, attraverso il nebbione. Ebbi la buona sorte, infatti, d’incontrarne una e di essere preso a bordo sano e salvo. Però, mentre stavamo per riunirci alla squadra inglese, il congelamento del lago ci ha sorpresi imprigionandoci. Immobilizzati tra il ghiaccio, con la prospettiva di una specie di svernamento polare, obbligati ad una inattività che non è nel nostro carattere e nelle nostre abitudini, la nostra esistenza non si presentava troppa lieta, a dir vero. Tuttavia noi l’avremmo accettata con pazienza, se non ci fossimo accorti di un gravissimo inconveniente.»

«E cioè?…»

«Le nostre provviste di liquori, e soprattutto di gin, erano agli estremi, e noi, che siamo tutti, da me all’ultimo mozzo, dei bevitori formidabili, rischiavamo di fare un’astinenza noiosissima. Per fortuna ci venne in aiuto una nostra guida canadese dicendoci: <Sorge a qualche distanza da questa nave un castello posseduto dal barone di Clairmont, perfetto gentiluomo francese, amico dell’Inghilterra, assai ricco e possessore di cantine sempre abbondantemente fornite>. La notizia del nostro uomo, signor barone, ci riempì di gioia. <Cospetto> ci dicemmo <se si andasse a fargli una visita a quell’eccellente cavaliere di Francia? Dopo tutto, è nostro alleato, o meglio, è un suddito fedele di quel re Giorgio ii d’Inghilterra, del quale noi siamo i soldati, i difensori dei suoi più santi diritti manomessi da un pugno d’insensati facinorosi… Detto fatto. Ed eccoci qua, signor barone.»

«Per farvi rifornire da me dei liquori che vi mancano?» chiese il barone.

«Ed anche per conoscervi personalmente,» rispose il marchese di Halifax con intenzione. «Spero che ci farete l’onore di presentarci la vostra famiglia e i vostri amici.»

Il barone s’inchinò leggermente, con freddezza cortese, poi uscì dicendo a suo figlio minore:

«Carlo, farai aprire il grande salone e vi condurrai i signori.»

«Sta bene, padre mio,» rispose il giovane.

Il signor di Clairmont s’allontanò.

Allora il marchese di Halifax si volse ad un ufficiale di bruttissimo aspetto che gli stava sempre accanto e che aveva quasi interamente i lineamenti del viso nascosti dalla parrucca e da una folta barbaccia incolta, e gli disse:

«L’accoglienza non poteva essere più cordiale, mi pare.»

«Sì, signor marchese,» quegli rispose.

«Se ti fossi dunque ingannato?»

«Impossibile.»

«Sir William Mac-Lellan è qui, secondo te?»

«Lo giurerei.»

«Uhm!…»

«L’ho veduto io, con i miei occhi, giungere in soccorso di mastro Testa di Pietra assieme al barone di Clairmont, proprio mentre i miei Irochesi stavano per vincere le ultime resistenze dei Mandani.»

«E pensi che vi sia anche lei… Mary di Wentwort, la donna che amo ancora, in onta a tutto, e che voglio strappare a mio fratello, sia pure al prezzo di un delitto?»

«Sì, so che una straniera europea è ospite del castello… Non può essere che lei.»

«Forse t’inganni.»

«No, no, lo sento.»

«L’inferno ti ascoltasse.»

«Del resto… lo saprete presto.»

«In che modo… Vedendo codesta donna straniera?»

«Al contrario, non vedendola.»

«Stento a capirti, mastro Davis mio.»

«E pure è semplice: se si tratta di Marv Wentwort, il barone di Clairmont non ve la presenterà… è naturale.»

«Sei più scaltro di quanto credevo.»

«Eh, via…»

«Intanto noi siamo entrati nel castello…»

«Come tanti lupi in un ovile.»

«E vi staremo da padroni. Non è proprietà di re Giorgio. sovrano del Canada? E noi non siamo i suoi legittimi rappresentanti?»

«Non so… se il re, sapendolo, ne sarebbe molto lusingato.»

«Taci, insolente.»

«Non fiato più.»

«Stanotte poi, con il favore della nebbia, verranno gli altri. E domani il castello si vedrà circondato da parecchie centinaia di uomini e dovrà arrendersi a discrezione.»

«Mi sembra però che il suo proprietario abbia un volto risoluto.»

«Bah, gli faremo capir la ragione a colpi di pistola. se mai gli saltasse la voglia di fare il cattivo.»

«A meraviglia.»

«Del resto, a me importa soprattutto d’aver in mio potere Mary di Wentwort e Sir Mac-Lellan.»

«E le due lettere?…»

«Esse hanno perduto molta della loro importanza. Tuttavia è sempre necessario averle per conoscere le intenzioni di Washington e usufruirne, a vantaggio dell’andamento della campagna.»

«Non ho perduto ancora la speranza di acciuffarle. Se Sir William è qui ci saranno anche i suoi fedeli amici.»

«A proposito… che può essere accaduto del mio segretario Oxford? In verità credo che sia finito assai male e ho rimorso d’averlo abbandonato alla sua sorte… Ma io non stavo meglio di lui, allora, con le rabbie del lago. Mi aveva dato prove di fedeltà, il disgraziato, e sento di aver perduto qualcuno, perdendo lui.»

Queste parole furono proferite dal marchese di Halifax in tono più alto, mentre rientrava Carlo accompagnato da alcuni Algonchini con la faccia dipinta di fresco, in strana guisa.

Vedendo e udendo il marchese, due di quegli indiani non poterono trattenersi dal trasalire e dal fissarlo con espressione diversa ma egualmente intensa.

Lo sguardo del marchese di Halifax s’incontrò con quello dei due pellerossa e ne fu subito afferrato.

«Oh, oh,» borbottò il truce inglese, «quale strana impressione mi fanno quegli occhi. Certo io li ho già veduti in qualche altro luogo.»

In quella, il minore dei Clairmont disse:

«Signor marchese, volete seguirmi coi vostri ufficiali, per essere presentato alla baronessa mia madre»

«Volentieri, giovane amico,» rispose l’altro. «Vi seguo.»

Salirono tutti al piano superiore del castello ed entrarono in un salone riccamente arredato, ove la baronessa seduta presso sua figlia Diana e avendo accanto, ritti in piedi, il marito e il figlio maggiore, attendeva in composta gravità.

Furono fatte le presentazioni.

Alla fine, il marchese di Halifax volse al falso ufficiale, che era, come sappiamo, mastro Davis sfuggito alla morte, dopo l’inseguimento dei Mandani, una occhiata quasi per dirgli: «Vedi?… Mary di Wentwort non c’è e nessun ospite europeo è visibile.»

La conversazione si fece generale, e il marchese di Halifax, attratto dalla grazia di Diana, le si collocò vicino complimentandola.

Tutta la giornata passò così in una cordialità apparente.

Da una parte e dall’altra, però, si giocava d’astuzia e di dissimulazione.

Gl’inglesi, abituati a spadroneggiare ovunque, consideravano il castello come casa propria e lo percorrevano da cima a fondo, col pretesto di ammirarne l’architettura interna, in realtà per ben altra ragione.

Mastro Davis era il più audace di tutti e anche il più astuto: scrutava i luoghi e le persone fingendo un’amabilità che non era nel suo naturale.

I lettori hanno ben compreso fin da principio che Sir William Mac-Lellan, Piccolo Flocco, i due assiani e Oxford si erano trasformati in tanti pellerossa, sotto la mano magistrale dell’algonchino.

Hulrik aveva poi ricevuto l’incarico di vegliare a turno con suo fratello Wolf, giorno e notte, sulla sicurezza di Mary Wentwort, nascostasi per prudenza; Piccolo Flocco doveva non perdere mai d’occhio Oxford, al quale non si era voluto dare la prova di sfiducia di chiuderlo in qualche stanza appartata.

Dov’era Oxford si poteva quindi essere certi di scorgere anche la figura del giovane gabbiere celata sotto il travestimento indiano.

Si accorgeva il segretario del marchese di quella sorveglianza? È difficile dirlo.

Egli mostrava un’assoluta indifferenza a quanto gli accadeva intorno, limitandosi a rappresentare con lo scrupolo di un vero artista la sua parte.

Era calata la notte.

Piccolo Flocco e Oxford attraversavano un corridoio, quando il giovane gabbiere ebbe un sussulto e si fermò sui due piedi, restando come estatico.

Una persona s’inoltrava verso i due indiani.

Era Lisetta, più vezzosa che mai, incamminata alle stanze della sua padrona.

Dobbiamo dire che Piccolo Flocco in que’ pochi giorni trascorsi al castello aveva fatti progressi nel campo per lui ancora inesplorato dell’amore. Egli amava la gentile fanciulla e quel che più conta, sentiva di essere ricambiato con vivo trasporto, nel suo purissimo sentimento.

Ora, dall’istante in cui erano giunti gl’inglesi, egli non aveva più avuto l’occasione di scambiare con Lisetta una sola parola dolce, una furtiva stretta di mano, e ciò lo metteva d’umor nero. Per la qual ragione, a vedersela d’un tratto apparire dinanzi, in un angolo un pò solitario, il giovane gabbiere non capì più nulla, sentì una gran voglia di avvicinarsi a lei, di spiattellarle lì un mondo di cose tenere e gentili, come se le sentiva turbinare in cuore e dimenticando Oxford e l’incarico che aveva, s’appressò alla giovane donna fermandola arditamente e dicendo con la sua voce naturale:

«Signorina… Lisetta, mi riconoscete?»

«Ah, voi!» esclamò ella.

«Sì. perbacco, proprio io… Vi devo sembrar ridicolo, è vero, così conciato?»

«Ridicolo no, ma certo… state meglio sotto le vostre vere spoglie.»

«Dunque, vi spiaccio?

«So chi siete, perciò…»

«Vi comprendo e vi ringrazio.»

Mentre i due giovani s’indugiavano a discorrere, obliando tutto, il segretario del marchese di Halifax si era allontanato più che in fretta, quasi avesse premura di non disturbare il colloquio amoroso o, piuttosto, di sfuggire alla compagnia del marinaio. Si trovò ad un tratto vicino ad una porta socchiusa dietro la quale intese delle voci che lo fecero trasalire.

«Diavolo, uno di coloro che parlano è il mio padrone,» borbottò, «e l’altro… Oh, oh, giurerei di udire l’accento rauco di mastro Davis. È mai possibile?… Se mi riuscisse di ascoltare ciò che essi dicono.»

Si guardò attorno; era solo. Appressò l’orecchio alla fessura appena visibile e tese l’udito. In quel momento parlava il marchese di Halifax. «Sei ben sicuro di aver veduto brillare il segnale di fuoco?» chiedeva.

«Come vedo voi ora,» rispose mastro Davis.

«Allora i rinforzi inglesi saranno qui fra poco.»

«Fra un’ora o due al più, secondo il convenuto.»

«Il castello sarà circondato.»

«E cadrà in nostre mani.»

«Sì,» disse il marchese.

«Con tutti i suoi abitanti. V’è la giovine padroncina che vale un tesoro… voi siete conoscitore, l’ho notato.

«Taci. Io non penso ad altro che ad avere Mary di Wentwort.»

«E l’avrete.»

«Me lo auguro… Ma, a proposito degli abitanti del castello, ho notato un algonchino, il quale mi ha prodotto una impressione singolare.»

«Davvero?»

«I suoi occhi mi ricordano in modo incredibile quelli del mio segretario…»

«Oxford?»

«Già.»

«Eh via, credo che quel gaglioffo, se i suoi nemici lo hanno risparmiato, abbia avuto tutto il tempo di morire dalla paura.»

Mastro Davis aveva appena finito di proferire quelle parole, che la porta si aprì lentamente e si vide apparire un indiano che, con l’indice della mano destra in croce alle labbra, raccomandava il silenzio.

I due soffocarono un’esclamazione di sorpresa.

«Chi siete, che volete?» disse il marchese di Halifax, con sospetto.

«Vostro Onore non mi conosce sotto questa mascheratura?»

«Oxford… tu, dunque, sei proprio tu?»

«Per carità, signor marchese. Siamo soli?»

«Lo vedi bene. Ma come…»

«A suo tempo le spiegazioni. Vi basti per ora sapere che vi sono sempre devoto.»

«Debbo crederti?»

«Oh, Vostro Onore…»

«Non temete, signor marchese, deve dire la verità.» soggiunse mastro Davis malignamente. «Egli ha senza dubbio ascoltato il nostro colloquio e sapendo che stiamo per impadronirci del castello, ha pensato di ritornarvi fedele.»

Il segretario lanciò a Davis un’occhiata velenosa, segno che il furfante aveva indovinato, poi ripigliò:

«Signor marchese, non indagate le cause del mio contegno, accettatelo così come è. Non sono nato uomo di guerra. e perciò son costretto, lo confesso. ad appoggiarmi al più forte! D’altra parte odio Sir William Mac-Lellan perché mi ha mostrato il suo disprezzo e i suoi sospetti.»

«È dunque qui, per davvero, il mio signor fratello e rivale?»

«Sì.»

«Nascosto?»

«Travestito da pellerossa.»

«Ah, bene… E Mary di Wentwort si trova pure nel castello?»

«Sì, nascosta.»

«Che vi dicevo?» disse Davis stropicciandosi le mani.

«E degli altri?» chiese di nuovo Lord Halifax.

«Testa di Pietra ê lontano, alla ricerca di Riberac.»

«Che ci ha abbandonati, passando al nemico, è vero?»

«Appunto, con Jor il canadese.»

«Prosegui.»

«Piccolo Flocco e i due assiani Hulrik e Wolf son qui travestiti al pari di me.»

«A meraviglia… Ora, sai darmi notizie delle due lettere che Testa di Pietra doveva portare a Ticonderoga?»

Invece di rispondere, lo scellerato Oxford si cacciò una mano in seno e subito la ritirò fuori, stringendo due pieghi muniti di sigilli verdi. Erano le lettere perdute da Testa di Pietra.

«Ah, finalmente!…» sussurrò il marchese strappandole di mano al segretario. «Come le hai avute?»

«Per caso; in verità gettandomi dalle parte dei vostri nemici io ero sincero perché mi vedevo abbandonato da Vostro Onore. Ma un giorno Testa di Pietra facendo inavvertitamente un brusco movimento, lasciò cadere le due lettere preziose, e io, che le vidi, me ne impadronii di nascosto, pensando che potevano essermi utili. Gli avvenimenti che succedettero dopo di allora furono tali e così vertiginosi, da far obliare al mastro i due pieghi, finché l’arrivo di Sir William glieli richiamò alla memoria, troppo tardi.»

«Ma non troppo tardi sono giunto io per punirti, traditore,» tonò in quella una voce piena di collera. «Eccoti il premio della tua infamia.»

S’udì uno sparo, seguito da un grido straziante e dal tonfo di un corpo che cade a terra.

Il marchese di Halifax e mastro Davis si voltarono di scatto impallidendo e ebbero un ruggito.

Sir William Mac-Lellan, vestito da algonchino ma col capo scoperto e il viso alterato dal furore, spaventoso eppur riconoscibile, stava ritto sulla soglia di una porticina che si era aperta d’improvviso misteriosamente, stringendo ancora nel pugno destro la pistola con la quale aveva squarciato il petto di Oxford.

Vi fu una breve pausa di silenzio, d’immobilità, di attesa.

Halifax e Davis avevano posto immediatamente mano alle spade e montavano le pistole che tenevano nascoste sotto l’abito militare.

Lo sciagurato segretario si contorceva al suolo nel suo sangue, rantolando in modo penosissimo.

Aveva la morte nei lineamenti.

Poi si udirono delle grida, dei passi affrettati, delle domande e degli ordini dati in lingua inglese, francese e indiana.

Apparvero quindi correndo il barone di Clairmont, i suoi due figli, l’abate Rivoire, Piccolo Flocco, Wolf, dei servi algonchini, tutti armati, da una parte; dall’altra ufficiali e soldati inglesi con le spade nude in pugno e i fucili imbracciati.

In breve la stanza fu invasa da quelle persone che si squadravano con aria minacciosa e risoluta.

«Chi osa turbare la quiete del mio castello?» tuonò la voce minacciosa del signor di Clairmont. «Voi forse, marchese di Halifax?…»

«Con qual diritto rivolgete a me per primo l’accusa?» rispose alteramente il lord. «Sono i vostri amici che voi dovete rimproverare signore; sono i cospiratori contro l’Inghilterra, gli alleati della rivoluzione americana, i traditori della propria patria, ai quali voi date ricetto, facendovi loro complice…»

«Signore!…»

«Sì, io non ritiro quanto ho detto; coloro che turbano la tranquillità di questo asilo… onorato, sono gli assassini, i codardi che si celano sotto travestimenti ridicoli, non osando…»

«Ah basta, miserabile mentitore,» urlò furiosamente Sir William. «Tu sai bene che il capitano dei corsari delle Bermude è sempre stato uso ad affrontare a viso scoperto i suoi avversari. A me una spada, io voglio, io devo vedere ancora una volta il sangue di quell’uomo, per misurarne la differenza col mio; poi spezzerò la lama ch’esso avrà macchiata, onde non abbia ad avvelenare alcuno.»

«Paroloni, fratello bastardo!…» ribatté sarcasticamente il marchese di Halifax. «Essi non tolgono il fatto che al mio arrivo avete creduto prudente nascondervi.»

«Fui io che lo volli,» intervenne a dire il barone di Clairmont in tono nobile. «Le vostre parole, signor marchese, sono ingiuste e, vi piaccia o no, indegne di un gentiluomo vero e di un leale soldato.»

«Ah è così?» proruppe il lord con furore concentrato. «Gettate alfine anche voi la maschera, per schierarvi dalla parte dei nemici dell’Inghilterra?»

«E quando mai noi, francesi del Canada, fummo amici degl’inglesi?» ribatté Enrico.

«Benissimo, siamo dunque in un covo di rivoluzionari, di ribelli a Sua Maestà Britannica,» prosegui Halifax. «Animo allora; in nome di re Giorgio, nostro sovrano e padrone, io v’impongo la resa e la consegna in mie mani del castello, sotto pena di essere passati tutti, uomini e donne, europei e indiani, per le armi.»

«A mia volta, milord,» rispose con calma il barone di Clairmont «dico che vi concedo cinque minuti di tempo per lasciare la mia casa, se non volete che essa diventi per tutti voi una tomba.»

«Temerario!… Badate…»

«Le vostre minacce non mi intimoriscono.»

«A momenti il vostro castello sarà circondato dalle truppe inglesi e messo a ferro e fuoco.»

«Impresa da pirati.»

«I ribelli si trattano da ribelli.»

«Noi ci difenderemo.»

«Pensate alle vostre donne.»

«Esse non hanno paura di vedere il fuoco dei moschetti e degli archibugi. Uscite, marchese d’Halifax.»

«Arrendetevi, barone di Clairmont.»

«Ancora due minuti, e poi vi farò buttar giù dalla rupe.»

«Battaglia, dunque.»

«Non aspetterete molto a vedere come si battono i francesi.»

«Bah, non certo meglio degl’inglesi.»

«Vi proveremo il contrario.»

«A noi… Inghilterra!»

«A noi… Francia e America!…»

V’era della decisione ferma in queste ultime parole del vecchio gentiluomo, quasi un furibondo entusiasmo, una gioia strana di battaglia e di vendetta.

La mischia stava per accendersi furiosa, quando Sir William Mac-Lellan si gettò avanti gridando:

«Arrestatevi… io ho lanciato una sfida al marchese di Halifax, e voglio credere ch’egli non si rifiuterà di accoglierla, a meno che non ami guadagnarsi un nuovo titolo d’infamia… con una prova di codardia.»

L’insulto non poteva essere più sanguinoso; il lord cacciò un urlo di collera.

«Ah, pel nome di Dio,» gridò balzando innanzi e ponendosi in guardia, «io vi ucciderò, signor corsaro… lo giuro.»

«Non avanzatevi troppo nelle vostre speranze,» ribatté Sir William prendendo a sua volta una bellissima guardia con la spada che il giovane Carlo di Clairmont gli aveva posta in mano subito, alla sua richiesta ansiosa. «Vi manca ancora il diritto di credervi capace di spedirmi nel tenebroso regno dei morti.»

«V’odio.»

«Pensate forse ch’io vi ami, signor fratello?…»

«Orsù, bando alle chiacchiere. Ci si faccia un po’ di largo e finiamola.»

«Io sono pronto.»

Nessuno aveva osato opporsi al duello di quei due uomini dello stesso sangue che nutrivano in sé si mortale odio, placabile con la morte d’uno di essi.

Da una parte e dall’altra si ritrassero a ridosso delle pareti per lasciare il maggior spazio possibile ai duellanti. E la singolar tenzone cominciò.

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