l’assalto della pantera

Due formidabili nemici stavano di fronte ai due pirati; l’uno non meno pericoloso dell’altro, ma pareva pel momento non avessero alcuna intenzione di occuparsi dei due uomini poiché, invece di scendere lungo il torrente, si muovevano rapidamente incontro come se avessero avuto intenzione di misurare le loro forze. L’animale che Sandokan aveva chiamato hariman-bintang era una splendida pantera della Sonda; l’altro invece era uno di quei grandi scimmioni, un urang-outan, che sono ancora così numerosi nel Borneo e nelle isole vicine e che sono sì tanto temuti per la loro forza prodigiosa e anche per la loro ferocia.
La pantera forse affamata, vedendo l’uomo dei boschi passare sulla riva opposta, s’era prontamente slanciata su di un grosso ramo che si curvava quasi orizzontalmente sulla corrente, formando una specie di ponte
Come si disse, era una fiera bellissima e altrettanto pericolosa anche.
Aveva la taglia e un po’ anche l’aspetto di una piccola tigre, colla testa invece più rotonda e poco sviluppata, gambe corte e robuste ed il pelame giallo oscuro a macchie ed a rosette più fosche.
Doveva misurare almeno un metro e mezzo di lunghezza, quindi doveva essere una delle più grosse della famiglia.
Il suo avversario era un brutto scimmione, alto circa un metro e quaranta centimetri, ma con delle braccia così smisurate da toccare i due metri e mezzo complessivamente.
La sua faccia, assai larga e rugosa, aveva un aspetto ferocissimo, specialmente con quegli occhietti infossati e mobilissimi e quel pelame rossastro che la incorniciava.
Il petto di quel quadrumane aveva uno sviluppo veramente enorme ed i muscoli delle braccia e delle gambe formavano delle vere nodosità, indizio di una forza prodigiosa.
Questi scimmioni, che gl’indigeni chiamano meias, miass e anche maias, abitano nel più folto dei boschi e preferiscono le regioni piuttosto basse e umide.
Si costruiscono dei nidi assai spaziosi sulle cime degli alberi, adoperando dei rami grossissimi che sanno disporre abilmente in forma di croce. Sono di umore piuttosto triste e non amano la compagnia. Ordinariamente evitano l’uomo e anche gli altri animali; minacciati però o irritati, diventano tremendi e quasi sempre la loro forza straordinaria trionfa sugli avversari.
Il maias, udendo il rauco brontolìo della pantera, si era arrestato di colpo. Egli si trovava sulla riva opposta del piccolo corso d’acqua, dinanzi ad un gigantesco durion, il quale lanciava il suo splendido ombrello di foglie a sessanta metri dal suolo.
Probabilmente era stato sorpreso nel momento in cui stava per dare la scalata all’albero onde saccheggiarlo delle sue numerose frutta.
Vedendo quella pericolosa vicina, dapprima si era accontentato di guardarla più con stupore che con ira, poi tutto d’un tratto aveva mandato due o tre fischi gutturali, indizio d’un prossimo scoppio di collera.
– Io credo che noi assisteremo ad una terribile lotta fra quei due animalacci – disse Yanez che s’era ben guardato dal muoversi.
– Non l’hanno con noi, finora – rispose Sandokan. – Temevo che ci volessero attaccare.
– Anch’io, fratellino mio. Vuoi che cambiamo rotta?
Sandokan guardò le due rive e vide che in quel luogo era impossibile dare la scalata e cacciarsi nella foresta.
Due vere muraglie di tronchi, di foglie, di spine, di radici e di liane, rinchiudevano il corso d’acqua. Per aprirsi il passo avrebbero dovuto mettere mano ai kriss e lavorare per bene.
– Non possiamo salire – disse. – Al primo colpo di coltello, maias e pantera si getterebbero contro di noi di comune accordo. Restiamo qui e cerchiamo di non farci scorgere. La lotta non sarà lunga.
– Dovremo poi affrontare il vincitore.
– Probabilmente si troverà in così cattive condizioni da non contrastarci il passo.
– Ci siamo!… La pantera s’impazienta.
– Ed il maias non ne può più dal desiderio di fracassare le costole alla vicina.
– Arma il fucile, Sandokan. Non si sa mai quello che può accadere.
– Sono pronto a fucilare l’una e l’altro e…
Un ululato spaventoso somigliante un po’ al muggito di un toro in furore gli troncò la parola.
L’urang’outan aveva raggiunto il colmo della rabbia.
Vedendo che la pantera non si decideva ad abbandonare il ramo e scendere verso la riva, l’urang-outan si fece minacciosamente innanzi, mandando un secondo ululato e percuotendosi fortemente il petto il quale risuonava come un tamburone.
Quello scimmione faceva paura. Il suo pelame rossastro era diventato irto, il suo volto aveva assunto un’espressione d’inaudita ferocia ed i suoi lunghi denti, che sono così solidi da schiacciare la canna d’un fucile come un semplice bastoncino, stridevano.
La pantera, vedendolo accostarsi, si era rannicchiata su se stessa come se si preparasse a slanciarsi, però non pareva che avesse fretta ad abbandonare il ramo. L’urang-outan con un piede si aggrappò ad una grossa radice serpeggiante al suolo, poi sporgendosi sul fiume prese con ambo le mani il ramo su cui tenevasi l’avversario e lo scosse con forza erculea facendolo scricchiolare. La scossa fu così potente che la pantera, non ostante avesse piantati nel legno i suoi acuti artigli, non potè reggere e cadde nel fiume.
Fu però un lampo. Aveva appena toccata l’acqua che si era già slanciata nuovamente sul ramo.
Sostò un momento, quindi si avventò a corpo perduto sulla scimmia gigante, piantandogli le unghie sulle spalle e nelle cosce.
Il quadrumane aveva mandato un ululato di dolore. Il sangue era subito sgorgato e scorreva fra i peli gocciolando nel fiumicello.
Soddisfatta del felice risultato di quel fulmineo attacco, la fiera cercò di staccarsi per riguadagnare il ramo prima che l’avversario tornasse alla riscossa.
Con un capitombolo magistrale volteggiò su se stessa, servendosi del largo petto della scimmia come un punto d’appoggio e scattò indietro.
Le due zampe s’aggrapparono al ramo cacciando le unghie nella corteccia, ma non potè però spingersi più innanzi, come ne avrebbe avuta l’intenzione.
L’urang’outan, malgrado le spaventevoli lacerazioni, aveva allungate rapidamente le braccia e aveva afferrata la coda dell’avversaria.
Quelle mani, dotate d’una forza terribile, non dovevano più lasciare quell’appendice. Esse si strinsero come due morse, strappando alla fiera un mugolìo di dolore.
– Povera pantera – disse Yanez, che seguiva con vivo interesse le diverse fasi di quella lotta selvaggia.
– È perduta – disse Sandokan. – Se la coda non si strappa, cosa impossibile, non sfuggirà più alle strette del maias.
Il pirata non doveva ingannarsi. L’urang-outan, sentendosi fra le mani la coda, era balzato innanzi salendo sul ramo.
Radunando le sue forze, sollevò di peso la fiera, la fece volteggiare in aria come se fosse un topo, poi la scagliò con impeto irresistibile contro l’enorme tronco del durion.
Si udì un colpo secco, come d’una scatola ossea che s’infrange; indi la povera bestia, abbandonata dal suo nemico, rotolò inanimata al suolo, scivolando poi fra le nere acque del fiumicello.
Il cranio, spaccato di colpo, aveva lasciato sul tronco dell’albero una grande chiazza sanguigna mista a brani di materia cerebrale.
– Per Giove!… che colpo maestro!… – mormorò Yanez. – Non credevo che quello scimmione potesse sbarazzarsi così presto della pantera.
– Vince tutti gli animali della foresta, perfino i serpenti pitoni – rispose Sandokan.
– C’è pericolo che se la prenda anche con noi?…
– È tanto irritato da non risparmiarci se ci vede.
– Mi pare però che sia in ben cattive condizioni. Gronda sangue da tutte le parti.
– Sono però animalacci i maias da sopravvivere anche dopo d’aver ricevuto parecchie palle nel corpo.
– Vuoi che attendiamo la sua partenza?
– Temo che la cosa vada troppo per le lunghe.
– Non ha più nulla da fare qui.
– Io ritengo invece che abbia il suo nido su quel durion. Mi pare di scorgere fra il fogliame una massa oscura e delle travi gettate trasversalmente fra i rami.
– Allora bisogna tornare.
– Nemmeno a questo ci penso. Dovremmo fare un giro immenso, Yanez.
– Fuciliamo quello scimmione e andiamo innanzi seguendo questo ruscello.
– Era quello che volevo proporti – disse Sandokan. – Siamo abili tiratori e sappiamo lavorare di kriss meglio dei malesi. Avviciniamoci un po’ onde non mancare ai nostri colpi. Ci sono tanti rami qui da far deviare facilmente le nostre palle.
Mentre si preparavano ad assalire l’urang-outan, questo si era accovacciato sulla riva del fiumicello e si gettava colle mani dell’acqua sulle ferite.
La pantera l’aveva conciato orribilmente. Le sue potenti unghie avevano lacerato le spalle del povero scimmione e così profondamente da mettere a nudo le clavicole. Anche le cosce erano state atrocemente dilaniate ed il sangue sgorgava copiosamente formando al suolo una vera pozza. Dei gemiti, che avevano qualche cosa di umano, uscivano di quando in quando dalle labbra del ferito, seguiti da ululati feroci. Il bestione non si era ancora calmato e, anche in mezzo agli spasmi, tradiva il suo selvaggio furore.
Sandokan e Yanez si erano accostati alla riva opposta onde potersi cacciare prontamente nella foresta, nel caso che avessero mancato ai loro colpi e che l’urang-outan non fosse caduto sotto la doppia scarica.
Già si erano arrestati dietro ad un grosso ramo che si slanciava sopra il fiumicello ed avevano appoggiati su quello i loro fucili per meglio mirare, quando videro l’urang-outan balzare improvvisamente in piedi percuotendosi furiosamente il petto e digrignando i denti.
– Cos’ha? – chiese Yanez. – Che ci abbia già scorti?
– No – disse Sandokan. – Non è con noi che sta per prendersela.
– Che qualche altro animale cerchi di sorprenderlo?
– Sta’ zitto: vedo dei rami e delle foglie a muoversi.
– Per Giove!… Che siano gl’inglesi?
– Taci, Yanez.
Sandokan si issò silenziosamente sul ramo e, tenendosi nascosto dietro un cespo di rotang scendente dall’alto, guardò verso la riva opposta, là dove si trovava l’urang-outan.
Qualcuno s’avvicinava, muovendo con precauzione le foglie. Ignaro forse del grave pericolo che l’attendeva, pareva che si dirigesse precisamente là dove s’alzava il colossale durion.
Il gigantesco quadrumane l’aveva già sentito e si era gettato dietro il tronco dell’albero, pronto a piombare su quel nuovo avversario ed a metterlo a pezzi. Non gemeva né urlava più; solamente un rauco respiro poteva tradire ancora la sua presenza.
– Dunque, cosa succede? – chiese Yanez a Sandokan.
– Qualcuno si avvicina incautamente al maias.
– Un uomo od un animale?
– Non riesco ancora a scorgere l’imprudente.
– Se fosse qualche povero indigeno?
– Siamo qui noi e non lasceremo tempo al quadrumane di massacrarlo. Eh!… Me l’ero immaginato. Ho scorto una mano.
– Bianca o nera?
– Nera, Yanez. Mira l’urang-outan.
– Sono pronto.
In quell’istante si vide la scimmia gigante a precipitarsi in mezzo ad una fitta macchia, mandando un ululato spaventevole.
I rami e le foglie, strappate di colpo dalle possenti mani del bestione, caddero lasciando vedere un uomo.
Si udì un urlo di spavento seguito subito da due colpi di fucile. Sandokan e Yanez avevano fatto fuoco.
Il quadrumane, colpito in pieno dorso, si volse ululando e vedendo i due pirati, senza più occuparsi dell’incauto che gli si era avvicinato, con un salto immenso, balzò nel fiume.
Sandokan aveva abbandonato il fucile e impugnato il kriss, risoluto ad impegnare una lotta corpo a corpo. Yanez invece, balzato sul ramo, cercava di ricaricare precipitosamente l’arma.
L’urang-outan, quantunque nuovamente ferito, s’era scagliato addosso a Sandokan. Già stava per allungare le villose zampe, quando si udì, sulla riva opposta un grido:
– Il capitano.
Poi uno sparo rintronò.
L’urang-outan si era arrestato portandosi le mani al capo. Rimase un istante ritto, dardeggiando su Sandokan un ultimo sguardo ripieno di rabbia feroce, poi stramazzò in acqua, sollevando un gigantesco spruzzo.
Nel medesimo istante l’uomo, che per poco non era caduto nelle mani dello scimmione, s’era pure slanciato nel fiumicello gridando:
– Il capitano!… Il signor Yanez!… Son ben lieto di aver cacciata una palla nel cranio di quel maias.
Yanez e Sandokan erano balzati rapidamente sul ramo.
– Paranoa!… – esclamò, allegramente.
– In persona, mio capitano – rispose il malese.
– Che fai in questa foresta? – chiese Sandokan.
– Vi cercavo, capitano.
– E come sapevi tu che noi ci trovavamo qui?
– Girando sui margini di questa selva avevo scorto degli inglesi ronzare accompagnati da parecchi cani e mi ero immaginato che cercassero voi.
– E hai osato cacciarti solo qui dentro? – chiese Yanez.
– Delle belve non ho paura.
– Però per poco l’urang-outan ti faceva a pezzi.
– Non mi aveva ancora preso, signor Yanez, e come avete veduto, gli ho piantata una palla nella sua testaccia.
– Ed i prahos sono giunti tutti? – chiese Sandokan.
– Quando sono partito per mettermi in cerca di voi, nessun altro legno era giunto oltre il mio.
– Nessun altro? – esclamò Sandokan, con ansietà
– No, mio capitano.
– Quando hai lasciato la foce del fiumicello?
– Ieri mattina.
– Che agli altri legni sia accaduta qualche disgrazia? – si chiese Yanez, guardando Sandokan con angoscia.
– Forse la tempesta li avrà trasportati molto al nord – rispose la Tigre.
– Può essere avvenuto questo, mio capitano – disse Paranoa. – Il vento del sud soffiava tremendamente e non era possibile resistergli in modo alcuno.
"Io ho avuto la fortuna di cacciarmi entro una piccola baia, bene riparata però, situata a sessanta miglia da qui, perciò ho potuto ridiscendere presto e trovarmi prima di tutti all’appuntamento.
"D’altronde, come vi dissi, sono sbarcato ieri mattina ed in questo frattempo anche gli altri legni potrebbero essere giunti."
– Tuttavia sono molto inquieto, Paranoa – disse Sandokan. – Vorrei già essere alla foce del fiumicello per levarmi queste inquietudini. Hai perduto nessun uomo durante la burrasca?
– Nemmeno uno, mio capitano.
– Ed il legno ha sofferto?
– Ha avuto pochissimi guasti che sono già stati riparati.
– Si trova nascosto nella baia?
– L’ho lasciato al largo per tema di qualche sorpresa.
– Sei sbarcato solo?
– Solo, mio capitano.
– Hai veduto nessun inglese ronzare nei pressi della baia?
– No, però, come vi dissi, ne ho veduto alcuni battere i margini di questa foresta.
– Quando?
– Questa mattina.
– Da quale parte?
– Verso l’est.
– Venivano dalla palazzina di lord James – disse Sandokan, guardando Yanez. Poi, volgendosi verso Paranoa, gli chiese:
– Siamo molto lontani dalla baia?
– Non vi giungeremo prima del tramonto.
– Tanto ci siamo allontanati! – esclamò Yanez. – Non sono che le due pomeridiane!… Abbiamo un bel tratto di via da superare.
– Questa foresta è molto vasta, signor Yanez, e anche assai difficile da attraversare. Ci vorranno almeno quattro ore prima di raggiungere le ultime macchie.
– Partiamo – disse Sandokan, che pareva fosse in preda ad una viva agitazione.
– Hai fretta di giungere alla baia, è vero, fratellino?…
– Sì, Yanez. Io temo una sventura e forse non m’inganno.
– Temi che i due prahos si siano perduti?
– Pur troppo, Yanez. Se noi non li troviamo alla baia, non li rivedremo mai più.
– Per Giove!… Quale disastro per noi!…
– Una vera rovina, Yanez – disse Sandokan con un sospiro. – Io non so, si direbbe che la fatalità comincia a pesare su di noi, come se fosse ansiosa di dare un colpo mortale ai tigrotti di Mompracem.
– E se la disgrazia si avverasse?… Cosa faremo noi, Sandokan.
– Cosa faremo?… E tu me lo chiedi, Yanez?… Forse la Tigre della Malesia è un uomo da spaventarsi o da piegare dinanzi al destino?… Noi continueremo la lotta, al ferro del nemico opporremo il ferro, al fuoco il fuoco.
– Pensa che a bordo del nostro praho non vi sono che quaranta uomini.
– Sono quaranta tigri, Yanez. Guidati da noi faranno miracoli e nessuno saprà arrestarli.
– Vuoi scagliarli contro la villa?…
– Questo lo si vedrà. Ti giuro però che io non abbandonerò quest’isola senza condurre con me Marianna Guillonk, fossi certo di dover lottare contro l’intera guarnigione di Vittoria.
"Chissà, forse dalla fanciulla dipende la salvezza o la caduta di Mompracem. La nostra stella sta per ispegnersi perché la vedo sempre più impallidire, ma non dispero ancora e forse io la vedrò risplendere più viva che mai.
"Ah!… se quella fanciulla lo volesse!… Il destino di Mompracem sta nelle sue mani, Yanez."
– E nelle tue – rispose il portoghese con un sospiro. – Orsù è inutile parlarne per ora. Cerchiamo di giungere al fiumicello per accertarci se gli altri due prahos sono tornati.
– Sì, andiamo – disse Sandokan. – Con un simile rinforzo mi sentirei capace di tentare anche la conquista dell’intera Labuan.
Guidati da Paranoa, risalirono la riva del fiumicello e si cacciarono su di un vecchio sentiero che il malese aveva scoperto qualche ora prima.
Le piante, e specialmente le radici, lo avevano invaso, però rimaneva ancora uno spazio sufficiente per permettere ai pirati di inoltrarsi senza troppe fatiche. Per cinque ore continue s’avanzarono attraverso la grande foresta facendo di quando in quando una breve fermata per riposarsi, e al tramonto giungevano presso le rive del fiumicello sboccante nella baia.
Non scorgendo alcun nemico, scesero verso l’ovest, attraversando una piccola palude che andava a terminare verso il mare.
Quando giunsero sulle rive della piccola baia, le tenebre erano di già scese da qualche ora.
Paranoa e Sandokan si spinsero verso le ultime scogliere e scrutarono attentamente il fosco orizzonte.
– Guardate, mio capitano – disse Paranoa, indicando alla Tigre un punto luminoso, appena distinto, che si poteva scambiare anche con una stella.
– Il fanale del nostro praho? – chiese Sandokan.
– Sì, mio capitano. Non lo vedete scivolare verso il sud?
– Qual segnale devi fare perché il legno si avvicini?
– Accendere sulla spiaggia due fuochi – rispose Paranoa.
– Andiamo verso la punta estrema della piccola penisola – disse Yanez. – Segnaleremo al praho la rotta esatta.
Si cacciarono in mezzo a un vero caos di scoglietti cosparsi di gusci di conchiglie, d’avanzi di crostacei e di ammassi di alghe e giunsero verso la punta estrema d’un isolotto boscoso.
– Accendendo qui i fuochi, il praho potrà imboccare la baia senza correre il pericolo d’arenarsi – disse Yanez.
– Lo faremo però risalire verso il fiumicello – disse Sandokan. – Mi preme nasconderlo agli sguardi degli inglesi.
– M’incarico io di questo – rispose Yanez. – Noi lo nasconderemo nella palude in mezzo alle canne, coprendolo interamente con rami e con foglie, dopo d’averlo privato degli alberi e di tutte le manovre. Ehi, Paranoa, fa’ il segnale.
Il malese non perdette tempo. Sul margine d’un boschetto fece raccolta di legna secca, formò due castelli e, collocatili ad una certa distanza l’uno dall’altro, li accese.
Un momento dopo, i tre pirati videro il fanale bianco del praho scomparire e brillare in sua vece un punto rosso.
– Ci hanno veduti – disse Paranoa. – Possiamo spegnere i fuochi.
– No – disse Sandokan. – Serviranno a indicare ai tuoi uomini la vera direzione. Nessuno conosce la baia, è vero?
– No, capitano.
– Guidiamoli, adunque.
I tre pirati si sedettero sulla spiaggia, tenendo gli occhi fìssi sul fanale rosso il quale aveva cambiata direzione. Dieci minuti dopo il praho era visibile.
Le sue immense vele erano spiegate e si udiva l’acqua a gorgogliare dinanzi alla prora. Visto fra l’oscurità, sembrava un uccello gigantesco scivolare sul mare.
Con due bordate giunse dinanzi alla baia ed imboccò il canale, inoltrandosi verso la foce del fiumicello.
Yanez, Sandokan e Paranoa avevano abbandonato l’isolotto ed erano retrocessi rapidamente fino sulle rive della piccola palude.
Appena videro il praho gettare l’ancora presso i canneti fittissimi della riva, si recarono a bordo.
Sandokan con un gesto intimò il silenzio all’equipaggio, il quale stava per salutare i due capi della pirateria con un intempestivo scoppio di gioia.
– I nemici non sono forse lontani – disse egli. – Vi ordino quindi il più assoluto silenzio onde non farci sorprendere prima del compimento dei miei progetti.
Poi volgendosi verso un sottocapo gli chiese, con una emozione così viva da rendergli la voce quasi tremula:
– Non sono giunti gli altri due prahos?.
– No, Tigre della Malesia – rispose il pirata. – Durante l’assenza di Paranoa ho visto tutte le coste vicine, spingendomi anche verso quelle del Borneo, ma nessuna delle nostre navi fu veduta in alcuna direzione.
– E tu credi?…
Il pirata non rispose: esitava.
– Parla – disse Sandokan.
– Io credo, Tigre della Malesia, che i nostri due legni si siano fracassati sulle coste settentrionali del Borneo.
Sandokan si cacciò le unghie nel petto, mentre un sospiro sibilante gli irrompeva dalle labbra.
– Fatalità!… Fatalità! – mormorò con voce sorda. – La fanciulla dai capelli d’oro porterà sventura alle tigri di Mompracem.
– Coraggio, fratellino mio – gli disse Yanez, posandogli una mano sulle spalle.
– Non disperiamo ancora. Forse i nostri prahos sono stati spinti molto lontani e così gravemente danneggiati da non poter riprendere subito il mare.
"Finché non si troveranno i rottami non possiamo credere che si siano sommersi."
– Ma noi non possiamo aspettare, Yanez. Chi mi dice che il lord si fermerà ancora molto nella sua villa?…
– Anzi, non lo desidererei, amico.
– Cosa vuoi dire, Yanez?
– Che noi abbiamo uomini sufficienti per assalirlo se dovesse abbandonare la sua villa per rapirgli la graziosa nipote.
– Vorresti tentare un simile colpo?…
– E perché no?… I nostri tigrotti sono tutti valorosi e se anche il lord avesse con sé un numero doppio di soldati, non esiterebbero di certo ad impegnare la lotta. Sto maturando un bel piano e spero che avrà una splendida riuscita.
"Lasciami riposare questa notte e domani noi cominceremo ad agire."
– Confido in te, Yanez.
– Non dubitare, Sandokan.
– Il praho però non possiamo lasciarlo qui. Può venire scoperto da qualche legno che si spinga nella baia o da qualche cacciatore che scenda il fiumicello per venire qui a fucilare gli uccelli acquatici.
– Ho pensato a tutto, Sandokan. Paranoa ha ricevuto delle istruzioni in proposito. Vieni, Sandokan. Andiamo a mangiare un boccone poi gettiamoci sui nostri lettucci. Io, ti confesso, non ne posso più.
Mentre i pirati, sotto la direzione di Paranoa, smontavano tutte le manovre del legno, Yanez e Sandokan scesero nel piccolo quadro di poppa e diedero il sacco alle provviste.
Calmata la fame che da tante ore li tormentava, si gettarono, vestiti come erano, sui lettucci.
Il portoghese, che non si reggeva più, si addormentò subito profondamente; Sandokan invece penò assai a chiudere gli occhi.
Tetri pensieri e sinistre inquietudini lo tennero sveglio parecchie ore. Fu solamente verso l’alba che potè prendere un po’ di riposo, ma anche questo fu brevissimo. Quando risalì in coperta, i pirati avevano ultimati i loro lavori per rendere il praho invisibile agli incrociatori che potevano passare dinanzi alla baia od agli uomini che potevano scendere lungo il fiume. Il legno era stato spinto verso il margine della palude, in mezzo ad un canneto foltissimo. Gli alberi colle manovre fisse e correnti erano stati abbassati ed al di sopra della tolda erano stati gettati ammassi di canne, di rami e di foglie disposti così abilmente da coprire l’intero legno. Un uomo, che fosse passato in quei dintorni, lo avrebbe potuto scambiare per qualche macchione di piante disseccate o per un enorme ammasso di erbe e di radici colà arenatosi.
– Cosa ne dici, Sandokan? – chiese Yanez, il quale si trovava già sul ponte, sotto una piccola tettoia di canne innalzata a poppa.
– L’idea è stata buona – rispose Sandokan.
– Ora vieni con me.
– Dove?…
– A terra. Ci sono già uomini che ci aspettano.
– Cosa vuoi fare, Yanez?
– Lo saprai poi. Ohe!… In acqua la scialuppa e fate buona guardia.

Speak Your Mind

*

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.