I bufali selvaggi

La notte era magnifica.
La luna era ormai sorta e proiettava, fra quell’immensa massa di vegetali, torrenti di luce azzurrognola, formando sotto gli squarci delle gigantesche volte, delle grandi chiazze scintillanti.
Una fresca brezza soffiava dalla parte del fiume, facendo stormire le enormi foglie delle palme, dei cocchi e dei banani selvatici.
Fra quell’oceano di luce volteggiavano, come accecati da tanto splendore, dei grossissimi pipistrelli, dalle ali straordinariamente sviluppate, il muso da volpe ed il corpo peloso. In lontananza il Maludu muggiva cupamente, infrangendosi contro le rive ed in mezzo ai canneti che coprivano gli isolotti.
Sandokan, il quale era abituato a percorrere le foreste fino da ragazzo, si era orientato rapidamente, guidando i compagni verso levante.
Mezz’ora non era trascorsa, quando si trovarono nuovamente sulla riva del Maludu, qualche miglio più sopra dal luogo ove era naufragata la barcaccia.
Il fiume scintillava come un gigantesco corso di bronzo fuso ed aveva dei bagliori superbi, che venivano, di quando in quando, rotti dalla brusca apparizione di qualche banda di gaviali affamati.
«Tutto è tranquillo» disse Sandokan. «Cercheremo di seguire il fiume finché potremo».
Si riposarono alcuni minuti, poi ripresero la marcia, costeggiando l’immensa foresta.
Sotto i grandi alberi il silenzio non regnava più. Le belve avevano lasciati i loro covi e s’erano messe in caccia.
Di tratto in tratto un urlo acuto echeggiava sinistramente nelle profondità della gigantesca boscaglia, propagandosi sotto le volte di verzura, seguito da suoni strani ed impressionanti.
Ora erano dei fischi stridenti, che si succedevano con rapidità prodigiosa; ora latrati, come se delle legioni di cani scorrazzassero sotto gli alberi; ora dei barriti fortissimi che annunciavano la presenza di qualche banda di giganteschi pachidermi.
Sandokan e Yanez, già abituati a quei clamori, non se ne preoccupavano affatto; invece Tremal-Naik e Kammamuri, quantunque fossero vissuti qualche anno sulle rive del Kabatuan, non potevano nascondere un po’ d’impressione, e ad ogni istante armavano le carabine, temendo probabilmente un improvviso attacco.
«Lasciate in pace le vostre armi» diceva Yanez. «Finché urlano o strepitano, non assaltano. Se vi fosse qui qualche pantera nera o qualche tigre, non annuncerebbe la sua presenza; ve lo assicuro io».
Avevano già percorso qualche miglio, sempre seguendo la riva del fiume, quando Sandokan, che si trovava alla testa del drappello, si fermò di colpo, togliendosi rapidamente la carabina che portava ad armacollo.
A breve distanza si udivano dei fischi stridenti e dei tonfi, come se un enorme corpaccio si dibattesse fra le acque del Maludu.
«Ehi, Yanez» disse Tremal-Naik. «Pare che ci sia qualche bestia poco tranquilla nelle vicinanze».
«Che un coccodrillo mi mangi una gamba se questo animalaccio che fischia in questo modo non è un rinoceronte! Che cosa dici, Sandokan?» «Sì, non può essere che un rinoceronte» rispose la Tigre della Malesia.
«Avanzate adagio ed in silenzio. Quei bestioni sono estremamente pericolosi quando sono arrabbiati».
«Lo so io» rispose Yanez. «Nell’Assam mancò poco che uno non mi sventrasse».
I fischi continuavano sempre più stridenti, accompagnati da certe note che sonavano come dei “niff-niff” acutissimi.
Qualche dramma si svolgeva certamente sulla riva del Maludu.
Sandokan aveva rallentata la marcia e si era portato verso il margine della grande foresta, per mettersi in salvo sugli alberi nel caso che un grave pericolo minacciasse i suoi compagni.
Conosceva troppo bene la brutalità feroce di quei giganteschi animali, per non prendere le sue precauzioni.
Percorsi altri centocinquanta passi, il pirata per la seconda volta si fermò dinanzi al tronco d’un durion, il quale stendeva i suoi immensi rami fino sulla riva del fiume.
«Eccolo!…» disse. «Non si trova certo in una bella situazione».
«Chi?» chiese Yanez.
«Il rinoceronte».
«Non mi ero ingannato dunque?» «No, Yanez».
Un enorme animale, di forme tozze, con un lunghissimo corno piantato sul naso, tutto imbrattato di fango, si dibatteva disperatamente in mezzo alle canne che coprivano i bassifondi del fiume.
Aveva intorno otto o dieci mostruosi gaviali, i quali cercavano di mordergli le zampe affondate nelle sabbie.
«Povero bestione!…» esclamò Kammamuri. «Si è immobilizzato nel fango».
«Sabbie mobili» disse Sandokan. «Non uscirà più dal fiume. Affonda lentamente e continuamente».
«E lo lasceremo andare?» chiese il maharatto.
«Pròvati a levarlo» rispose Tremal-Naik, ridendo. «Ci vorrebbero due elefanti».
«Affrettiamogli almeno l’agonia».
«Alto là, Kammamuri» disse Yanez. «Le cartucce sono troppo preziose in questo momento e colpi di fuoco non ne desideriamo».
Il povero rinoceronte era proprio caduto su un banco di sabbia senza fondo, ed i gaviali, accortisi della sua critica posizione, l’avevano assalito furiosamente per divorargli un po’ di carne prima che scomparisse definitivamente. Le voraci bestie gli strappavano brani di pelle, che inghiottivano d’un colpo solo, malgrado il loro enorme spessore, e cacciavano i musi nei fianchi grondanti sangue, senza preoccuparsi dei terribili colpi di corno che il povero mutilato avventava in tutte le direzioni. Lo divoravano vivo, a pezzo a pezzo, per strapparlo alla tomba delle sabbie.
«Che il diavolo se lo porti!» esclamò Yanez. «Non perdiamo il nostro tempo ad assistere all’agonia di quel bruto. Non vale meglio delle tigri e delle pantere nere».
«Se la cavi come può, se è capace» disse Sandokan. «Anch’io non amo quelle brutte bestiacce. Avanti, amici, e aprite ben bene gli occhi. I dayaki di terra non devon esser lontani».
Lasciarono il disgraziato rinoceronte in lotta cogli ingordi gaviali, i quali raddoppiavano i loro assalti, e ripresero la loro marcia seguendo sempre la riva del fiume.
Gli alberi si succedevano agli alberi, sempre più fitti, costringendo il piccolo drappello ad allontanarsi, di quando in quando, dal Maludu.
La foresta rintronava sempre di urla. Pareva che centinaia di belve si fossero messe in caccia e che combattessero furiosamente fra di loro.
Ora erano degli ululati spaventevoli che echeggiavano sinistramente sotto le infinite volte di verzura; ora dei fischi stridenti mescolati a barriti potenti, oppure dei sibili e degli strani gorgoglii.
Gli insetti dovevano avere certamente la loro parte in quel concerto assordante.
I quattro avventurieri avevano percorso qualche altro miglio, tenendosi sempre sulla fronte della foresta, quando Sandokan si fermò di nuovo.
«Un altro rinoceronte divorato vivo?» chiese Tremal-Naik, scherzando.
La Tigre della Malesia, invece di rispondere, si curvò verso terra mettendosi in ascolto.
«Non odi nulla tu, Yanez?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.
«Si direbbe che una massa d’acqua cada dall’alto» rispose il portoghese, il quale ascoltava pure attentamente.
«Eppure non abbiamo veduto nessuna cateratta sul Maludu» rispose Sandokan.
«É vero» confermò Kammamuri.
«Chi può produrre questo strano fragore?» si chiese la Tigre della Malesia.
«Non può essere acqua che si precipita» disse Yanez. «A me sembra invece che una moltitudine di animali s’avanzi attraverso la foresta».
«Degli elefanti?» «Che ne so io?» Anche Tremal-Naik e Kammamuri si erano messi in ascolto, scambiandosi sottovoce delle parole.
«Che cosa dite dunque voi, indiani?» chiese Yanez. «Vediamo se siete più furbi di noi».
«Degli animali marciano attraverso la foresta» rispose Tremal-Naik.
«Quali?» chiese Sandokan.
«Non degli elefanti di certo. Il passo è più leggero».
«Sono delle scimmie allora».
«Non scherzare, amico» disse Tremal-Naik. «Esiste un pericolo, e forse gravissimo. Non devono essere già dieci o quindici animali quelli che s’avanzano».
«Meglio così: avremo una colazione più che abbondante».
«Che diavolo d’uomo!… Ride sempre!…» «Vuoi che pianga, quando ho nelle mie mani una buona carabina?» «Cerchiamo un albero» disse in quel momento Sandokan. «Se non sappiamo quali animali stanno emigrando attraverso la foresta, è bene che prendiamo a tempo le nostre precauzioni. Suppongo che non saranno già dei topi volanti».
Sulla fronte della foresta non vi erano, disgraziatamente, delle piante robustissime. Tutto quel lembo era coperto da giunta man (urcola elastica), una specie di arrampicanti abbarbicati l’uno coll’altro, in modo da formare degli ammassi colossali, di poca consistenza.
«Bah!…» disse Sandokan. «Se non sono elefanti quelli che si avanzano, per noi basteranno. Già io non credo che si tratti di pachidermi. Su, amici, in alto!…» Il fragore sordo si avvicinava lentamente e continuamente. Pareva veramente, come aveva detto Yanez, che una moltitudine di animali marciassero sotto l’immensa foresta.
Di quando in quando i quattro avventurieri udivano degli strani fragori, come se delle onde s’infrangessero contro una spiaggia.
«Dunque, Yanez?» chiese Sandokan, il quale si mostrava un po’ preoccupato.
«Delle bestie si avanzano indubbiamente» rispose il portoghese. «Credo però anch’io che non siano elefanti, quantunque quei giganteschi pachidermi siano abbastanza numerosi nelle foreste del Borneo».
«Mi viene un dubbio».
«Quale?» «Io una volta ho assistito ad una gigantesca emigrazione di bufali».
«Cattivi come quelli indiani?» chiese Tremal-Naik.
«Più selvatici ancora, se è possibile» rispose Sandokan. «I bufali di quest’isola non hanno paura nemmeno d’una colonna di guerrieri».
«Ne so qualche cosa anch’io» disse Yanez. «Li abbiamo provati fra le selve di Labuan».
«In alto» comandò Sandokan.
Si aggrapparono alle piante gommifere, che si aggrovigliavano le une alle altre, innalzandosi parecchi metri e si misero al sicuro.
La macchia si estendeva per più di cento metri quadrati, stretta dai soliti rotang e dai soliti nepentes, i quali mostravano i loro meravigliosi vasi variopinti, con dentro dell’acqua, più o meno pulita, ma pur sempre bevibile.
Il male era che non poteva offrire una grande resistenza all’invasione di grossi animali.
«Speriamo che non ci scorgano» disse Yanez. «Se gli animali che si avanzano fossero degli elefanti, povere le nostre costole!» «Credi che siano veramente dei pachidermi, dunque?» chiese per la seconda volta Tremal-Naik.
«Te lo dirò quando compariranno» rispose il portoghese. «Tieni pronte le cartucce per ora».
«Se è possibile, le economizzerò, anzi».
«Tacete!» disse in quel momento Sandokan. «Stanno forzando la foresta».
Il fragore aumentava rapidamente. Si udivano delle piante cadere e dei rami schiantarsi sotto degli urti certamente poderosissimi.
Delle masse enormi dovevano attraversare la folta boscaglia.
Ad un tratto Yanez mandò un grido.
«Ho capito!…» «Che cosa?» chiese Sandokan.
«Ho udito un muggito».
«Dove?» «Toh!… Eccone un altro!… Sono davvero dei bufali selvaggi quelli che si avanZano».
«Bestie cattive» disse Sandokan. «Se si accorgono della nostra presenza, daranno una carica così furiosa, da sfondare di colpo tutto questo gigantesco agglomeramento di piante. Che nessuno faccia fuoco, ve lo raccomando. Ci va di mezzo la nostra pelle».
«Sono più terribili di quelli indiani, dunque?» chiese Tremal-Naik.
«Non certo migliori» rispose Yanez. «I dayaki li temono più dei rinoceronti».
«Emigrano di quando in quando?» «Sì, e in masse enormi. Guai se incontrano sul loro passaggio qualche carovana!… L’assaltano con furia incredibile e non lasciano vivo un solo uomo».
«Eccoli» disse in quell’istante Sandokan. «Tenetevi bene stretti alle piante, poiché subiremo indubbiamente degli urti poderosi».
Un branco d’animali, formato da una cinquantina di giganteschi bufali, di forme mastodontiche colla fronte larga, armata di due corna che s’incurvavano all’indietro, e il muso corto, s’avanzava lentamente attraverso la foresta, aprendosi il passo a gran colpi di testa.
Doveva essere l’avanguardia, poiché in lontananza si udivano risuonare dei muggiti e si udivano anche degli alberi cadere, schiantati certamente dalle saldissime corna di quei pesantissimi e robustissimi animali.
«Sono quasi grossi come i rinoceronti» disse Tremal-Naik. «Quelli indiani non raggiungono una simile mole».
L’avanguardia, giunta dinanzi all’ammasso delle piante gommifere, si fermò un momento per cercare un passaggio, poi, non trovandone, indietreggiò per prendere lo slancio.
«Tenetevi saldi!…» disse Sandokan. «Non rispondo della vita di chi cade».
«Anche questa ci doveva toccare» borbottò Yanez. «Quando potremo raggiungere i nostri uomini e muovere verso il lago?» I bufali selvaggi caricavano in quel momento, con furia incredibile, la testa bassa, le corna puntate.
Sembrò che passasse attraverso la macchia uno spaventoso ciclone.
Quelle enormi masse, scagliate come immani catapulte, sfondarono le piante gommifere, tracciando un immenso solco, e lacerando tutto ciò che incontravano sul loro passaggio.
Giunta man, calamus, rotang e nepentes cadevano, da tutte le parti, divelte, aggrovigliandosi come mostruosi serpenti.
La carica era stata diretta verso il luogo ove si erano rifugiati i quattro avventurieri.
Fu un momento terribile. I quattro uomini, quantunque saldamente aggrappati, si sentirono scaraventare in aria come se fosse scoppiata sotto di loro una mina.
Tre, Yanez, Sandokan e Tremal-Naik, ricaddero fra le fitte reti formate dalle piante arrampicanti: il quarto invece, cioè il povero Kammamuri, non fu in tempo ad afferrarsi nuovamente ai sarmenti, e andò a cadere invece a cavalcioni d’un gigantesco toro dal pelame nerissimo.
Si udì un grido echeggiare, confuso fra i muggiti delle bestie.
«Padrone!… Aiuto!…» Un altro aveva subito risposto: «É caduto il maharatto!…» «Dove?» gridarono Sandokan e Tremal-Naik.
«Là!… Guardate!…» La medesima voce di prima salì fino a loro: «Padrone!… Aiuto!…» In mezzo alla banda videro in quel momento il povero maharatto, il quale si teneva a cavallo del toro, aggrappato disperatamente alle lunghissime corna.
«Kammamuri!…» gridarono i tre avventurieri. «Kammamuri!…» L’indiano non ebbe il tempo di rispondere. Il toro, sorpreso di sentirsi addosso quell’insolito peso, credendo forse che qualche tigre o qualche pantera lo avesse aggredito, si era slanciato a corsa disperata attraverso la foresta, seguito da tutta l’avanguardia.
Attraversarono in un momento la macchia delle piante gommifere e scomparvero fra le tenebre con un fragore formidabile.
«É perduto!…» aveva esclamato Yanez. «Scendiamo!…» Ma Sandokan fu pronto a trattenerlo.
«Non commettiamo delle pazzie» disse. «S’avanza il grosso dell’orda. Vuoi farti massacrare?» «E quel disgraziato?» «Lasciamolo galoppare, per ora» rispose Sandokan. «Kammamuri non è un minchione e saprà, al momento opportuno, trarsi di impaccio anche senza di noi. Che cosa dici tu, Tremal-Naik?» «Che io non ho molte preoccupazioni per il mio maharatto» rispose l’indiano, il quale infatti appariva abbastanza tranquillo. «Io sono certo che non si lascerà condurre molto lontano».
«Purché i compagni del toro non lo uccidano a cornate» disse Yanez il quale non si mostrava molto ottimista.
«L’animale a quest’ora se li sarà lasciati indietro. Galoppava come se avesse il fuoco sotto il ventre» rispose Sandokan. «Lasciamo passare il grosso per ora; più tardi ci occuperemo di Kammamuri».
Il grosso, formato da almeno due centinaia di femmine, con una cinquantina di vitelli, sbucava in quel momento dalla foresta, avviandosi verso la macchia, essendo ormai stato aperto il passaggio.
Erano magnifiche bestie, dal pelame nero con qualche macchia bianca, d’aspetto selvaggio, e armate pure di corna formidabili.
Erano però meno grosse dei maschi che formavano l’avanguardia, pur essendo sempre più alte e più lunghe delle nostre mucche.
Sfilavano a gruppi attraverso il grande solco aperto fra le piante gommifere, fermandosi qualche istante a brucare qua e là le foglie e le erbe, poi a loro volta scomparvero nelle cupe profondità dell’immensa boscaglia, facendo echeggiare l’aria di sordi muggiti.
«L’emigrazione dev’essere finita» disse Sandokan, dopo d’aver ascoltato attentamente per qualche minuto. «Possiamo scendere e metterci in cerca di Kammamuri».
«Riusciremo poi a trovarlo?» chiese Yanez.
«Non avremo che da seguire lo squarcio aperto dai tori dell’avanguardia, e non ci sbaglieremo».
«E se quel maledetto toro avesse presa un’altra direzione?» «Tornerà sempre, presto o tardi, a congiungersi col grosso. Questi animali sanno quanto noi che non è prudente andarsene soli attraverso queste boscaglie, che servono di rifugio a pantere nere e a non poche tigri. Andiamo, amici: per ora nulla abbiamo da temere».
Abbandonarono il loro rifugio aereo e si misero a seguire le tracce lasciate dai bufali.
L’avanguardia, nelle sue cariche impetuose, aveva aperto un comodo sentiero il quale s’allontanava dal fiume. Era bensì ingombro di giovani alberi fracassati, di rami, di foglie smisurate e di festoni di piante parassite, tuttavia era praticabilissimo e permetteva ai tre avventurieri di avanzare con una certa velocità.
Temendo però un ritorno degli emigranti, da persone prudenti, di quando in quando, facevano delle fermate e si mettevano in ascolto.
Già camminavano da una buona mezz’ora, affrettando sempre più il passo, quando udirono improvvisamente uno sparo, subito seguito da un altro.
«La carabina di Kammamuri!…» aveva esclamato Tremal-Naik, fermandosi di botto.
«Sì, non t’inganni» aggiunse Yanez. «É il tuo maharatto che ha fatto fuoco».
«Avrà ammazzato il bufalo», disse Sandokan «per impedirgli di condurlo troppo lontano».
«Avvertiamolo della nostra presenza» disse Tremal-Naik. «A quanta distanza può aver fatto fuoco?» «A non più di mezzo miglio» rispose Yanez. «Rispondi subito».
L’indiano alzò la carabina e sparò un primo colpo, poi un altro, alla distanza di venticinque o trenta secondi.
Un momento dopo, con loro grande stupore, udirono cinque spari, l’uno presso l’altro, molto più deboli.
«Cinque colpi!…» esclamò Sandokan. «Che cosa significano? Chi può averli sparati?» «E scommetterei che sono colpi di pistola e non già di carabina» aggiunse Yanez il quale pareva estremamente inquieto.
«E Kammamuri non aveva nessun’arma corta» disse Tremal-Naik.
«Prova a sparare anche tu un colpo, Yanez» disse Sandokan. «Vediamo se rispondono ancora; e tu, Tremal-Naik, ricarica in fretta la tua arma. Qui sotto vi è un mistero».
Il portoghese obbedì, ma quel terzo colpo di carabina rimase senza risposta.
«Che cosa sarà successo?» chiese Tremal-Naik con voce angosciata. «Che Kammamuri sia stato sorpreso dai dayaki?» «Quelli di terra non posseggono armi da fuoco» asserì Sandokan. «Preferiscono le loro cerbottane e le loro frecce avvelenate col succo dell’upas».
«Non discutiamo più, amici» disse Yanez. «Ormai sappiamo approssimativamente di dove gli spari sono echeggiati. Accorriamo».
«Non tanta furia, fratellino. Ci possono essere i dayaki, e si fa presto a cadere in un’imboscata. Prendiamo le nostre precauzioni e soprattutto badiamo a non far rumore».
«Hai ragione, Sandokan» rispose Tremal-Naik. «Questa immensa foresta si presta troppo per gli agguati».
Si rimisero in cammino, seguendo sempre lo squarcio fatto dai bufali, anche perché si dirigeva precisamente nella direzione dove erano stati sparati quei sette colpi di fuoco.
Sandokan guardava innanzi; Yanez e Tremal-Naik sorvegliavano i due margini della foresta, l’uno a destra e l’altro a sinistra.
Il silenzio era tornato a regnare sotto i grandi alberi. Solamente di quando in quando un urlo lo rompeva, e anche a grande distanza.
I tre uomini procedevano abbastanza rapidi, cogli sguardi e gli orecchi in guardia e le dita sul grilletto delle carabine, temendo ad ogni istante di vedersi sorgere dinanzi qualche drappello di quei terribili abitatori dei boschi, di quei sanguinari collezionisti di teste umane.
Una grande preoccupazione turbava il loro animo, quantunque fossero uomini ormai, da lungo tempo, rotti a tutte le avventure ed a tutte le sorprese.
Quei cinque colpi di pistola, chi poteva averli sparati? I dayaki no di certo, non servendosi essi che di spingarde, di mirim e di lila installati sui loro prahos, armi che già i giavanesi e i sumatrini, loro vicini, usavano da trecento anni. Era stato qualche europeo perduto in mezzo all’infinita foresta ed accorso in aiuto del maharatto? Sandokan aveva cominciato a rallentare. Per istinto sentiva che qualche imboscata, abilmente tesa forse, li aspettava.
«Adagio, Yanez» aveva detto. «Vuoi che cominciamo una di quelle famose marce aeree che deludevano così bene gli inglesi di Labuan? Noi siamo ancora pratici di simili audaci manovre; è vero? E credo che Tremal-Naik, abituato ad attraversare le folte jungle delle Sunderbunds, non si troverà imbarazzato a seguirci».
«Si tratta di avvinghiarsi ai calamus?» chiese l’indiano.
«E di passare attraverso la foresta senza destare l’attenzione dei nemici, se ve ne saranno».
«Non sono più giovane; tuttavia credo di essere ancora abbastanza agile».
«Nessuna fretta, però, e nessun rumore».
«Seguirò le vostre mosse».
«In alto, Yanez» disse Sandokan. «É l’unico modo per eludere gli agguati.
Ricòrdati delle nostre marce aeree di Labuan».
«Lascia fare a me».
La foresta, in quel luogo, era formata per la maggior parte di piante gommifere e di piante parassite, intrecciate in modo da formare delle reti gigantesche che avrebbero formato senza dubbio la delizia di una banda di ragazzi.
Sandokan per primo, poi gli altri due, s’innalzarono rapidamente e cominciarono la loro marcia aerea nel più profondo silenzio.
Prima di avanzare provavano, a piccoli colpi, la solidità dei rami e delle piante parassite, poi si slanciavano per aggrapparsi a quelle più vicine.
Dei muggiti, che provenivano da alcune foltissime macchie, li avvertirono di aver finalmente raggiunti i bufali migranti.
«Che il toro che ci ha rapito Kammamuri sia ancora insieme alla banda?» si chiese Sandokan. «Il mistero si complica, a quanto pare».
«Se i bufali si sono fermati, vuol dire che qui non vi sono dei dayaki» disse Yanez.
«Eppure quei cinque colpi di pistola non devono averli sparati gli alberi».
«Sono appunto quelli che mi preoccupano, mio caro Sandokan».
«Continuiamo la nostra marcia. Se i dayaki fossero qui, i bufali selvaggi, che sono estremamente sospettosi, non si sarebbero fermati».
«É quello che penso anch’io» disse Tremal-Naik.
Sandokan s’aggrappò ad un ammasso di rotang e riprese la sua avanzata, scivolando di liana in liana.
Aveva percorsi altri cento metri, quando un lieve grido gli sfuggì.
«É qui!…» «Chi?» domandarono ad una voce Yanez e Tremal-Naik.
«Il toro».
«Dove?» «Qui, proprio sotto di noi».
«Possibile!…» «Guardate sullo squarcio che l’avanguardia ha aperto. Non sono cieco io!» Yanez e Tremal-Naik si curvarono attraverso un festone di solidissimi calamus e scorsero infatti una enorme massa oscura sdraiata presso un gruppo di piante gommifere.
«Che sia proprio il toro che ci ha rapito Kammamuri?» chiese il portoghese.
«Sono certo di non ingannarmi» rispose Sandokan.
«Che sia stato Kammamuri a ucciderlo?» «É quello che noi ora verificheremo» rispose la Tigre della Malesia. «Le palle di carabina producono delle ferite ben più profonde di quelle di pistola, e noi, gente di guerra, ce ne intendiamo».
«Dobbiamo scendere?» chiese Tremal-Naik.
Sandokan stava per rispondere, quando mise una mano su una spalla dell’indiano, sussurrandogli rapidamente: «Fermo!… Non ti muovere!…» «Che cosa c’è ancora?» chiese Yanez sottovoce.
«Vedi se abbiamo fatto bene a preferire la marcia aerea? Vengono».
«Chi?» «Degli esploratori dayaki. Che nessuno si muova e che nessuno faccia fuoco senza mio ordine».
Due ombre umane s’avanzavano, quasi strisciando, sotto quei giganteschi ammassi di verzura, scivolando fra le radici che serpeggiavano, come serpenti immani, sul suolo.
Non ci voleva molto a riconoscerli per due figli dei boschi, per due di quei terribili collezionisti di teste umane, perché erano quasi interamente nudi e armati di quei lunghi tubi di bambù chiamati sumpitam, e che con un soffio solo lanciano delle frecce avvelenate coll’upas.
S’avanzavano con infinite precauzioni, facendo di quando in quando delle soste per appoggiare gli orecchi a terra, per meglio raccogliere i più deboli rumori.
Si erano nuovamente fermati sotto i calamus ed i nepentes che celavano i tre avventurieri, forse per riposarsi qualche po’.
«Ancora nulla!…» aveva esclamato l’uno, piantando rabbiosamente in terra la cerbottana, la quale era munita all’estremità superiore, d’un ferro di lancia.
«Eppure devono passare per di qui».
«Purché non siano già passati» rispose l’altro. «Erano tre?» «Sì, perché uno lo abbiamo catturato».
«Che abbiano seguita la marcia dei bufali selvaggi?» «A quale scopo?» «Per procurarsi della carne».
«Noi non abbiamo uditi altri colpi di fucile».
«Pieghiamo verso il fiume. La loro mèta dev’essere l’isolotto sul quale si sono rifugiati i loro uomini. In qualche luogo li sorprenderemo e li colpiremo colle nostre frecce».
«Bada di risparmiare l’uomo bianco».
«Sono già stato avvertito. Non perdiamo tempo».
I due dayaki, dopo aver dato uno sguardo a destra ed a sinistra, si ricacciarono nella boscaglia, gettandosi fuori dello squarcio aperto dai bufali selvaggi.
«É stato preso!…» esclamò Tremal-Naik, quando ogni rumore cessò. «Mio povero Kammamuri!…» «Me l’ero immaginato» disse Yanez.
«Che cosa faremo ora?» «Che cosa? E ce lo domandi?» disse la Tigre della Malesia con stupore.
«Giacché i nostri uomini si trovano sempre sull’isolotto, ci occuperemo del tuo fedelissimo servo, mio caro Tremal-Naik. Noi non abbiamo l’abitudine di abbandonare gli amici».
«Dove l’avranno condotto?» «Quei due dayaki hanno lasciato delle tracce. Noi le seguiremo e vedremo dove andranno a finire. Scendiamo ed andiamo a vedere di quale morte è caduto quel toro. Voglio, innanzi tutto, chiarire il mistero di quei cinque colpi di pistola».
«E anch’io» disse Yanez.
Stettero ancora qualche po’ in ascolto, poi, rassicurati dal profondo silenzio che regnava nell’immensa foresta, si lasciarono scivolare lungo i calamus, giungendo felicemente a terra.
Il bufalo giaceva sul fianco destro, quasi appoggiato a un gruppo di piante.
Aveva la lingua sporgente ed un rivoletto di sangue gli era uscito dalla bocca.
«Dev’essere questo» osservò Yanez. «É tutto nero con una chiazza bianca sul dorso».
«Guardiamo le ferite» rispose Sandokan. «Due, quattro, cinque fori e tutti sul fianco sinistro, l’uno presso l’altro. Queste sono ferite prodotte da palle rotonde di pistola e non già da proiettili conici di carabina. Chi può averlo ammazzato? Ecco il mistero».
«Non vi sono ferite prodotte dalla carabina di Kammamuri?» chiese Tremal-Naik.
«Non ne vedo».
«Contro chi avrà fatto fuoco?» «Probabilmente addosso ai dayaki che cercavano di catturarlo».
«Ma non vedo nessun morto».
«Oh! Quei selvaggi hanno l’abitudine di portarseli via i morti, per seppellirli nelle loro kotte» rispose Yanez.
«Che abbiano decapitato il mio povero servo?» «Non credo, Tremal-Naik» disse Sandokan, il quale pareva che riflettesse intensamente. «Sapete, amici, che cosa penso io in questo momento?» «Parla!» risposero ad una voce il portoghese e l’indiano.
«Che coi dayaki vi potesse essere qualche uomo bianco».
«É impossibile!…» esclamò Yanez.
«E perché, fratellino? Mi hanno detto che il rajah del lago ha due figli, e uno potrebbe già essere giunto qui, per contrastarci a tempo l’avanzata.
Seguiamo le tracce di questi due spioni e vediamo dove vanno a finire. Noi non le lasceremo finché non avremo saputo che cosa è accaduto di quel bravo Kammamuri».
«E i nostri uomini?» chiese Tremal-Naik.
«Finché non ci vedranno ritornare, non lasceranno l’isolotto, te lo assicuro io» rispose la Tigre della Malesia. «Hanno armi e munizioni: si difendano e uccidano. Orsù, in marcia!…»

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