I sergenti istruttori

I negritos del Borneo, al pari di quelli delle Filippine, delle Celebes, di Palavan e di altre grandi isole del mare cino-malese, sapendosi troppo deboli per opporre una valida resistenza ai loro nemici, i quali pare che provino una vera gioia feroce a distruggerli, come se fossero spiriti malefici, non costruiscono i loro villaggi a terra.
Allo scopo di preservarsi da improvvisi assalti e dalle stragi, preferiscono, e non a torto, formare, su delle altissime piante delle solide piattaforme ed innalzarvi sopra dei ripari che non si potrebbero chiamare nemmeno capanne, poiché non sono che delle semplici tettoie, aperte a tutti i venti ed alle furiose piogge che di quando in quando, benché a lunghi intervalli, si scatenano su quelle regioni equatoriali e intertropicali.
S’intende che quelle curiose costruzioni, che si ritrovano, cosa stranissima, anche sulle rive dell’Orenoco, uno dei fiumi giganti dell’America del Sud, non li preservano completamente da sgradite sorprese, poiché i feroci collezionisti di teste umane, di quando in quando, abbattono od incendiano la foresta, e allora dei villaggi aerei più nulla rimane.
I crani dei disgraziati peraltro, più o meno maltrattati, si ritrovano sempre, ed i dayaki non domandano di più, poiché essi non sono come i neo-zelandesi che mettevano una cura estrema nel conservare anche i lineamenti dei vinti nemici.
Il villaggio aereo del negrito si componeva d’una mezza dozzina di immense piattaforme e d’una cinquantina di tettoie formate di rami intrecciati e di gigantesche foglie di banani e di arenghe saccarifere.
Alle note stridenti dell’angilung, parecchi uomini, dalla pelle nerissima e i capelli cresputi, erano comparsi sui margini delle piattaforme, impugnando delle corte lance e delle cerbottane, pronti a difendersi. Vedendo il loro capo, che credevano ormai perduto, mandarono un urlo di gioia che si ripercosse sotto le tettoie.
«Salite, orang» disse il figlio delle foreste, volgendosi a Yanez e Sandokan.
«Io devo ad uno dei vostri uomini la vita, e nel mio villaggio avrete tutto quello che i miei sudditi posseggono».
Una specie di scala, formata di robustissimi rotang, era stata gettata dall’alto delle piattaforme.
Il negrito per primo s’inerpicò con un’agilità da scimmia, subito seguito da Sandokan, da Yanez e da Tremal-Naik.
I malesi e gli assamesi invece, per non ingombrare il villaggio, avevano subito improvvisato un piccolo campo alla base degli enormi alberi sostenenti le piattaforme, collocando innanzi tutto le spingarde ai quattro lati della macchia che circondava il villaggio.
«Preferirei una capanna a terra» disse Yanez a Sandokan che lo precedeva.
«Non so come staremo lassù».
«Non molto comodi davvero» rispose la Tigre della Malesia. «Conosco i villaggi dei negritos e soprattutto i pavimenti delle loro tettoie. Bada di non romperti le gambe. Noi abbiamo gli stivali, mentre questi figli dei boschi non li hanno mai conosciuti e posseggono l’agilità delle scimmie».
Sandokan diceva il vero, poiché quando Yanez mise i piedi sulla prima piattaforma si fermò assai perplesso, scaraventando quattro o cinque maledizioni al suo Giove. Le piattaforme non erano affatto coperte da tavole, come era sembrato. Le intelaiature erano robustissime e benissimo appoggiate a dei solidi rami, però il pavimento era formato di bambù collocati alla distanza di un mezzo piede, e fors’anche di più, l’uno dall’altro.
«Per Giove!…» esclamò Yanez. «Questa è una vera trappola dove si corre il pericolo di rompersi, come tu hai ben detto, le gambe. Questi selvaggi quando vogliono passeggiare sono dunque costretti a fare continuamente una ginnastica indiavolata».
«Vi sono abituati» rispose la Tigre della Malesia.
«Se avessero però delle scarpe!… Sfortunatamente in questo paese i calzolai non si conoscono».
«Non farebbero nessuna fortuna».
«Ne sono pienamente convinto».
«Orsù, saltiamo?» «Saltiamo pure» rispose Yanez, il quale da qualche istante fiutava, con una certa voluttà, un profumo squisitissimo che usciva da una delle tettoie che era ingombra di donne affaccendate.
Stava per cominciare la sua ginnastica, quando vide parecchi negritos giungere con delle grosse tavole. Avevano senza dubbio compreso l’imbarazzo dei loro ospiti e si affrettavano a gettare dei ponti per rendere loro meno faticosa l’avanzata attraverso le vaste piattaforme.
«Toh!…» esclamò Yanez. «Come sono gentili questi selvaggi!…» «Non chiamarli allora selvaggi» disse Tremal-Naik, ridendo.
«Hai ragione, amico».
Passarono attraverso i ponti e raggiunsero una delle prime tettoie, dove si trovava il negrito circondato da alcuni uomini di bassa statura, quasi interamente nudi, coi corpi stranamente tatuati: erano i notabili od i più famosi guerrieri della piccola tribù.
Delle stuoie fittissime, formate di nervature d’arenghe saccarifere, coprivano le traverse di bambù, per non esporre gli avventurieri a qualche sgradevole caduta. Il negrito offrì innanzi tutto, ai suoi nuovi amici, entro delle rozze tazze d’argilla cotta, del kalapa, bibita rinfrescante che si trova entro le noci di cocco, poi quattro donne portarono un maiale selvatico, cucinato intero, mentre dei ragazzi recavano vasi pieni di laron, le larve delle termiti e di ud-ang, quell’intruglio ributtante composto di piccoli crostacei seccati e ridotti in polvere insieme a pesci lasciati prima al sole a fermentare ed a corrompersi, e che pure è così apprezzato dai buongustai del Borneo, siano malesi, dayaki o negritos.
«La mia tribù vi offre, orang, quanto di meglio possiede per il momento» disse il negrito.
«Ed i nostri uomini?» chiese Yanez.
«Ho fatto arrostire per loro due babirussa, che furono catturati ieri mattina» rispose il capo. «Non soffriranno la fame».
«E la tua tribù?» «Si contenterà per oggi della frutta della foresta. Non preoccupartene, orang, e mangia».
I tre avventurieri, che digiunavano da una trentina d’ore, non si fecero ripetere due volte l’invito e fecero non poco onore al maiale arrostito, innaffiandolo con non poche tazze di eccellente bram, liquore fortissimo estratto dal riso fermentato e dal succo di certe palme, che somiglia non poco al sam-sciù dei cinesi. I notabili, o guerrieri celebri che fossero, si erano invece attaccati alle larve delle termiti ed ai vasi di ud-ang che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik avevano subito scartato.
La colazione era appena terminata e le pipe e le sigarette cominciavano ad affumicare la tettoia, quando Yanez, che già da qualche istante sembrava tormentato da un pensiero, si batté fortemente la fronte, dicendo: «Un’idea!…» Sandokan e Tremal-Naik si erano voltati verso di lui, interrogandolo cogli sguardi.
«Sì, un’idea» ripeté il portoghese.
«Se è nata nel tuo cervello, non può essere che buonissima» disse la Tigre della Malesia. «É sempre stato fertilissimo il tuo di trovate straordinarie.
Spiègati».
Yanez, invece di rispondere, si volse verso il negrito, chiedendogli: «Di quanti guerrieri dispone la tua tribù?» «D’una quarantina, orang. La mia tribù fu decimata crudelmente l’anno scorso dai cacciatori di teste».
«Sono almeno valorosi?» «Si sono sempre battuti benissimo».
«Credi tu di essere al sicuro, rimanendo qui, dalle bande dayake che battono la foresta?» «Mi aspetto, orang, di veder distruggere la mia tribù da un momento all’altro.
Quando voi, che avete tante canne tuonanti, sarete partiti, i cacciatori di teste piomberanno certamente su di noi per vendicarsi d’avervi io servito di guida. Li conosco troppo bene».
«Vuoi seguirci verso il lago? Noi c’incarichiamo di proteggere te, i tuoi uomini, le tue donne ed anche i fanciulli».
Un lampo di gioia brillò negli occhi nerissimi del figlio delle selve.
«Tu farai questo, orang?» disse con voce commossa.
«E insegnerò anche ai tuoi uomini a servirsi delle canne che tuonano.
Abbiamo un paio di casse di carabine, è vero, Sandokan?» «Sufficienti per armare tutti questi uomini» rispose la Tigre della Malesia.
«Approvi la mia idea?» «Pienamente, Yanez. Te lo avevo detto già prima che doveva essere buonissima.
Quaranta bocche da fuoco, sparino bene o male, non sono da rifiutarsi in questi momenti. Ci sarà l’ingombro delle donne e dei fanciulli».
«Ne faremo delle portatrici e dei portatori di viveri» rispose Yanez.
«Tu trovi risposta a tutto» disse Sandokan. «Che diavolo di uomo!…» «Non un diavolo; sono un rajah indiano, ora» disse il portoghese, scherzando.
«Ma chi addestrerà questi selvaggi, che non hanno mai preso in mano un fucile?» chiese Tremal-Naik.
«Chi? Io e Kammamuri» rispose Yanez. «Sandokan non ha nessuna premura di mettersi sulla testa la corona di rajah del Kinibalu, una corona che non riuscirà a trovare probabilmente nemmeno in fondo al lago, quindi possiamo fermarci qualche settimana ed istruire questi negritos. Io non dispero di fare di loro degli ottimi soldati, che non manovreranno meno bene dei soldati portoghesi od olandesi. Uno… due… per fila… avanti… di corsa…
caricate… puntate… fuoco a volontà!… Per Giove!… Sarei un ottimo sergente istruttore!» «Un grande generale» disse Tremal-Naik. «Mi pare di udire sir John Dukley comandare la manovra ai sipai sulla superba spianata del forte William».
«Ecco un uomo veramente meraviglioso» disse Sandokan scoppiando in una risata. «Vedrai, mio caro Tremal-Naik, che saprà ricavare da questi selvaggi dei soldati meglio disciplinati dei miei malesi e dei suoi assamesi. Che peccato che sia diventato un rajah!…» Quella prima giornata, passata sul villaggio aereo dei negritos, trascorse allegramente, innaffiata abbastanza copiosamente di bram e di kalapa.
Anche i malesi e gli assamesi, accampati intorno ai giganteschi alberi, non ebbero affatto da lagnarsi dell’ospitalità di quei poveri negritos.
Alla sera sulle piattaforme fu dato perfino un ballo, al quale si guardarono bene dal partecipare i capi della pirateria e gli assamesi che calzavano gli stivali, per non esporsi al pericolo di rompersi le gambe.
Sandokan però non trascurò di prendere, dopo la scomparsa del sole, le più grandi precauzioni, per evitare una qualche sorpresa da parte dei dayaki, dei quali non aveva avuto più alcuna notizia.
Diffidava estremamente del greco, che sapeva ormai quanto fosse vendicativo.
Fortunatamente aveva sottomano i quaranta guerrieri del negrito che lanciò, come sentinelle avanzate e fedelissime, attraverso la grande foresta, per garantire assolutamente i suoi malesi e gli assamesi di Yanez da un attacco fulmineo.
D’altronde le quattro spingarde, caricate fino alla bocca di chiodi di rame e di frammenti di vetro, erano pronte a fare una cattiva accoglienza ai feroci cacciatori di teste.
Ma quelle precauzioni furono affatto inutili, poiché la notte trascorse tranquillissima e tutti poterono gustare un buon sonno, di cui avevano ormai tanto bisogno.
Qualche ora dopo lo spuntare del sole, Yanez era nel pieno esercizio delle sue funzioni di sergente istruttore.
La sua voce echeggiava come una tromba sotto la volta dei grandi alberi, facendo sovente scoppiare dalle risa Tremal-Naik e Sandokan, i quali dall’alto delle piattaforme, assistevano allo spettacolo insieme con le donne della tribù.
«Uno… due… per fila a destra… girate a sinistra… caricate…
puntate… fuoco… all’assalto… urrah per la Tigre della Malesia!…» E non scherzava il bravo portoghese. Quando un guerriero non era pronto a muoversi, erano santissime legnate che piovevano sul dorso del maldestro, pienamente approvate dal capo della tribù.
Pareva peraltro che quei poveri selvaggi, malgrado la loro buona volontà di diventare degni guerrieri del tuan-uropa, avessero la testa molto dura, poiché dopo un paio d’ore ne sapevano meno di prima e non erano ancora riusciti a marciare in colonna. Forse non comprendevano completamente gli ordini che il portoghese impartiva a suon di legnate e di altissimi e rimbombanti comandi.
«Per Giove tuonante!…» esclamò a un certo momento Yanez, il quale si arrostiva da un paio d’ore sotto il sole fiammeggiante. «Che la mia famosa idea debba tramontare?» Guardò verso le piattaforme.
Sandokan e Tremal-Naik, sdraiati all’ombra dei grandi alberi, sul margine del villaggio aereo, colle pipe in bocca, lo guardavano sorridendo malignamente.
«Pare che si divertano dei miei sforzi quasi inutili» disse. «Kammamuri, a me!…» Il maharatto, che si godeva anche lui l’insolito spettacolo all’ombra d’un superbo pandano e trattenendo a stento le risa, sputò la noce d’areca che stava masticando e si fece innanzi dicendo con voce grave: «Presente, generale».
«Per la morte di Giove!…» gridò Yanez, un po’ esasperato. «Mi pare che tutti voi vi burliate di me allegramente».
«Niente affatto, generale».
«Io ti ho nominato istruttore delle truppe assamesi, perché appartieni alla più fiera casta guerriera dell’India».
«É vero, signor Yanez».
«Ma io non ti ho mai veduto far manovrare i miei sudditi».
«É vero, signor Yanez».
«Istruiscimi dunque questi selvaggi che pare abbiano un cervello molto ottenebrato. Io ne ho abbastanza!» «Ci vuole un buon bambù per infiltrare nei loro crani le manovre dei sipai».
«Il capo te lo permette».
«Allora lasciate fare a me. Vi assicuro, signor Yanez, che fra otto giorni questi uomini manovreranno come il primo reggimento dei fucilieri del Bengala».
«Che il diavolo ti porti!…» gridò Yanez. «Se non riuscirai, ti leverò la carica d’istruttore dei reggimenti assamesi, parola d’onore».
S’aggrappò alla scala formata di fibre di rotang e salì verso il villaggio aereo, mentre Kammamuri urlava a squarciagola ai selvaggi istupiditi: «Marciate… alto… formate il quadrato per la morte di Siva, di Visnù, di Brahma e di tutti i cateri dell’India!… Avanti!… Alto… in ginocchio…
fuoco… caricate… rompete le linee… in colonna… all’attacco… strage generale… spazzate i dayaki!…»

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