L’assalto dei Gaviali

La battaglia ingrossava davvero e minacciava anche di finire non troppo bene per le Tigri di Mòmpracem e per gli assamesi che Yanez aveva condotti dall’India.
L’attacco dei dayaki, indovinatissimo, contro quei legni che invano avevano cercato di abbordare nella baia di Kudat, continuava con lena feroce da parte degli isolani, i quali parevano risoluti a vendicarsi della sconfitta subìta.
I tronchi continuavano a scendere, urtando non solo la barcaccia, ma anche i prahos, i cui madieri non potevano offrire una grande resistenza.
Centinaia d’uomini, protetti dalle tenebre, li spingevano, cercando di sfondare i fianchi dei piccoli navigli, E non pensavano solamente a distruggerli, poiché sparavano di quando in quando non pochi colpi d’archibugio e scagliavano un gran numero di dardi.
I malesi e gli indiani, avendo ormai compreso che la barcaccia correva il pericolo di affondare, avevano tagliati i rimorchi; e siccome il vento mancava assolutamente, andavano alla deriva, difendendosi ferocemente.
Le spingarde non cessavano di tuonare con un fragore assordante, e le carabine vi facevano eco, distruggendo non pochi assalitori.
Disgraziatamente i tronchi continuavano a scendere come se migliaia e migliaia di boscaioli non cessassero di far cadere in acqua lembi di foreste, e gli urti si succedevano agli urti.
La barcaccia, ormai mezza piena d’acqua, colla macchina spenta, andava alla deriva come un corpo morto. La mitragliatrice peraltro tuonava sempre, poiché Yanez non aveva ancora perduto un atomo della sua calma e nemmeno Tremal-Naik.
Ogni tronco che cercava di accostarsi, veniva fulminato da una vera bordata di chiodi e un bel numero di nemici precipitava in acqua fra urla che nulla avevano di umano.
L’accanimento dei dayaki era però straordinario. Malgrado le perdite enormi, s’accanivano ferocemente contro la piccola flottiglia, come se avessero giurato di distruggerla, prima che avesse potuto giungere alla sorgente del Maludu.
«Come va dunque, Yanez?» chiese Sandokan, comparendo in coperta.
«Per Giove!…» esclamò il portoghese. «Il rajah del lago deve aver stregato questi selvaggi. Anche sul Kabatuan mi hanno fatto sudar freddo, ma non in questo modo. Che cosa ha promesso quel furfante a queste canaglie?» «Le nostre teste, probabilmente».
«Non sono ancora chiuse nei loro panieri».
«E non lo saranno nemmeno domani, spero».
«Siamo però totalmente battuti. Un praho ha un fianco sfondato».
«Si vede l’isolotto?» «Non ancora, Sandokan».
«Eppure non deve essere molto lontano. Ti pare?»   «Aspetta un po’ che mitragli questi altri furfanti. Pare che abbiano giurato di salire a bordo e di fare la danza dei kampilang colle nostre teste. A voi, bricconi!… Questo calmerà un po’ la vostra furia sanguinaria!»   La mitragliatrice riprende la sua musica infernale, appoggiata da cinque o sei colpi di spingarda e da una scarica di carabine.
I dayaki si affrettano a ripararsi dietro ai tronchi giganteschi che la corrente trascina addosso alla flottiglia, ma un gran numero di quei furibondi assalitori scompare per non tornare più mai a galla.
I gaviali del fiume avranno delle cene colossali, delle colazioni abbondantissime.
«Ecco che ora urlano come scimmie rosse!…» gridò Yanez. «Scotta la mitraglia e anche fora, miei cari. Non si scherza colle pallottole e nemmeno coi chiodi».
L’attacco per un momento si arresta. Pare che i dayaki comincino ad averne abbastanza di quella grandine di piombo e di ferro, e che esitino.
I tronchi che stanno per schiacciare la flottiglia, guidati dai nuotatori, si spostano lateralmente seguendo il filo della corrente.
Non è però che una breve pausa, poiché altri alberi calano ed anche quelli pieni di assalitori, impazienti di venire alle mani e di provare le punture dei chiodi.
«Sandokan, mi pare che cominci ad andare male per noi» disse Yanez.
«Questi birbanti sono peggio delle mignatte».
«Eppure non dispero di aver, presto o tardi, ragione di questi pirati d’acqua dolce» rispose Sandokan.
«La barcaccia continua a calare, amico».
«Farò cacciare nella falla un altro materasso».
«I praohs s’allontanano da noi. Sono più leggeri e derivano più presto di noi».
«Le carabine e le spingarde basteranno a coprire la distanza. Tieni la mitragliatrice: io torno nella stiva a rinforzare lo stoppaccio che ho cacciato nella falla. Non fare economia di piombo. Abbiamo giù tante cartucce e tanta polvere da far saltare l’intera flottiglia».
I dayaki, quasi avessero compreso che le prede stavano per sfuggir loro, ritornavano alla carica, spingendo furiosamente i tronchi.
Affrontavano la morte con un coraggio ammirabile, per nulla atterriti delle gravi perdite che avevano subìte e che dovevano ancora subire.
La moschetteria crepitava incessantemente a bordo della barcaccia e dei piccoli velieri, e le spingarde non cessavano di scagliare terribili bordate di mitraglia, le quali però non ottenevano grandi successi, poiché i furbi dayaki non si lasciavano vedere se non quando si trovavano a tiro di cerbottana.
Già i tronchi ricominciavano a percuotere formidabilmente i fianchi della flottiglia, quando delle grida altissime si alzarono a bordo dell’ultimo praho, il quale era ormai pieno d’acqua come la barcaccia, avendo avuto il fasciame sfondato.
«Terra!… L’isolotto!…»   «Finalmente!…» esclamò Yanez, scatenando un’altra bordata di mitraglia.
«Purché non naufraghiamo tutti!…»   «Ciò che segnerebbe la nostra fine» disse Tremal-Naik, il quale, insieme a Kammamuri, lo aiutava nel maneggio della mitragliatrice.
Sandokan ricomparve in quel momento in coperta, seguito da Sapagar e dagli scandagliatori.
Aveva cacciato un altro materasso nella falla, ritirando il primo, ormai inzuppato d’acqua.
«L’isolotto?» chiese.
«Sì» rispose Yanez.
Si slanciò verso poppa e balzò sulla murata, senza badare alle frecce che di quando in quando attraversavano il ponte, con lunghi sibili.
A quattrocento metri sorgeva l’isolotto, un brano di terra che non aveva più di due gòmene di lunghezza su mezza di larghezza e che era coperto da una foltissima vegetazione, molto opportuna per sostenere una lunga difesa.
L’ultimo praho si era già arenato sui banchi di sabbia che attorniavano l’isolotto e si era rovesciato su un fianco, sfondandosi completamente.
Il suo equipaggio però aveva portato le due spingarde sulla riva dell’isolotto, insieme a parecchie casse di munizioni ed aveva bravamente ripreso il fuoco.
Gli altri prahos non dovevano però avere migliore fortuna.
Trascinati dalla corrente, privi d’ogni direzione, andarono a loro volta ad insabbiarsi, cozzandosi reciprocamente e sbandandosi.
«Disastro completo!…» esclamò Yanez. «Ecco un bel principio per conquistare un regno!… Nell’Assam siamo stati più fortunati!…» Sandokan aveva assistito impassibile alla distruzione della sua flottiglia.
A lui bastava che i suoi uomini si fossero salvati e che nel medesimo tempo avessero posto in salvo le armi e soprattutto le spingarde, sulle quali molto contava per affrontare le barbare orde del rajah del lago.
La barcaccia, la quale era riuscita colla sua mitragliatrice, a trattenere nuovamente i dayaki, a sua volta derivava rapidamente, girando di quando in quando su se stessa in causa del suo peso eccessivo.
Malgrado il materasso cacciato a forza nella falla, l’acqua non aveva cessato di entrare in gran copia, allagando completamente la macchina la quale, come abbiamo detto, aveva cessato da qualche po’ di funzionare.
Già stava per urtare contro i banchi, in prossimità dei prahos naufragati così miseramente, quando un gorgo la prese, scagliandola fuori dalla sua rotta.
Sandokan aveva mandato un grido.
L’isola sfuggiva loro.
«Saltate in acqua!…» aveva comandato. «Presto!… La corrente ci porta via!…»   Gli indiani ed i malesi, che formavano l’equipaggio, in un lampo si gettarono sopra le murate balzando sui banchi.
Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e Kammamuri stavano per imitarli, quando un nuovo gorgo allontanò bruscamente la barcaccia, spingendola verso la riva sinistra.
«Salta!… Salta!…» gridò Tremal-Naik.
Yanez che gli stava presso fu pronto a fermarlo.
«Guàrdati!… I gaviali!…»   Delle mascelle enormi, armate di formidabili denti disposti su due lunghe file, erano comparse presso la barcaccia, pronte ad afferrare gli imprudenti che avessero osato lasciare quel pericolante rifugio.
Erano venti o trenta gaviali, quei prossimi parenti dei coccodrilli e dei caimani, lunghi dai cinque ai sei metri e dotati d’una voracità più che straordinaria. Tutti i fiumi delle grandi isole malesi pullulano di quei feroci sauriani, e guai al disgraziato che deve provare i loro denti d’acciaio.
Tremal-Naik e Kammamuri, i quali si erano già issati sulla murata, erano balzati indietro, spaventati dall’improvvisa comparsa di quei mostri.
«Non ci mancavano che questi!…» esclamò l’ex “Cacciatore della Jungla Nera”».
«Non ti lamentare» gli disse Sandokan. «Sono nostri alleati in questo momento».
«Perché?» «Daranno addosso ai dayaki ed arresteranno il loro assalto».
«Ma stiamo per affondare».
«Per qualche mezz’ora ci reggeremo ancora, io spero».
«E dove andremo a finire?»   «Su qualche spiaggia ci areneremo. Lasciate i dayaki e proviamo la resistenza delle scaglie dei gaviali. Costringiamoli a rimontare il fiume. Là troveranno prede più abbondanti che qua».
Mentre si preparavano a fucilare i sauriani, gli equipaggi dei prahos, guadagnate le rive dell’isolotto, affrontavano animosamente gli assalitori.
Avevano portate a terra tutte le spingarde, e, riparati sotto gli alberi ed in mezzo ai cespugli, mantenevano un fuoco vivissimo, mettendo a dura prova il coraggio degli assalitori.
Sapagar, il luogotenente della Tigre della Malesia, il quale aveva avuto il tempo di guadagnare terra coll’equipaggio della barcaccia, li aveva rapidamente organizzati, per tenere validamente testa agli avversari, in attesa del ritorno dei suoi capi.
Quel ritorno era però molto problematico, poiché la barcaccia, quantunque fosse piena d’acqua fino alla tolda, continuava la sua corsa, seguendo sempre il filo della corrente.
A volte pareva che da un momento all’altro dovesse sprofondare, poi rimontava a galla qualche po’, ora a prora ed ora a poppa, e dopo qualche altro giro su se stessa riprendeva la discesa.
Sandokan, Yanez ed i loro due amici, non vedendo più intorno alle murate semisommerse le brutte teste dei gaviali, avevano sospese le fucilate, per non sprecare inutilmente le loro munizioni, quantunque avessero avuto la precauzione di strappare all’inondazione una cassa di cartucce e di collocarla sulla cima dell’argano prodiero.
In piedi sulle murate, ascoltavano attentamente le scariche che rimbombavano sull’isolotto, domandandosi, con profonda angoscia, se i dayaki, battuti di fronte dalle carabine e dalle spingarde ed assaliti ai fianchi da quella truppa d’ingordi sauriani, si erano finalmente decisi ad abbandonare la partita.
«Mi pare che la moschetteria rallenti» disse ad un tratto Yanez. «Che sia per effetto della distanza, o perché i dayaki ne hanno avuto abbastanza?» «Le spingarde non sparano quasi più» rispose Sandokan.
«Che i nostri uomini siano stati invece massacrati?» chiese Tremal-Naik.
«I miei malesi sono d’acciaio del Borneo, che è il migliore che esista» rispose la Tigre della Malesia. «Quando hanno una carabina fra le mani e un parang, non si lasciano scannare nemmeno da mille dayaki».
«E anche i miei assamesi sono valorosi» aggiunse Yanez. «Sono stati scelti fra i montanari».
«Allora i dayaki sono in ritirata» disse Kammamuri. «Non odo più che qualche colpo di fuoco isolato».
«Pei miei uomini non temo» rispose Sandokan. «Nessuno potrà snidarli dall’isolotto. Siamo noi invece che ci troviamo in pessime acque».
«Puoi dire addirittura in acqua» disse Yanez. «Io sono immerso fino alle ginocchia. Quando si deciderà a fermarsi questa carcassa? Se noi gettassimo un’àncora?» «Sono scomparse tutte e due».
«Allora finiremo nella baia».
«Questa barcaccia non può durare tanto, Yanez».
«Eppure continua a galleggiare, quantunque sia piena d’acqua da scoppiare».
«Sono le casse dei viveri ed i barili delle munizioni che ci sorreggono.
Quando si sfasceranno, e ciò non tarderà ad accadere, caleremo a fondo».
«Ed i gaviali ci mangeranno le gambe» aggiunse Kammamuri.
«Per ora non ne vedo intorno a noi» disse Yanez. «Sono corsi tutti a rosicchiare i piedi dei dayaki. Ohe!…»   La barcaccia aveva subìta una brusca scossa e si era rialzata verso poppa, rovesciando l’acqua che copriva la coperta verso prora, coll’impeto d’una fiumana che straripa.
La corrente l’aveva spinta in quel momento verso la riva sinistra dalla quale ormai non distava che una ventina di metri.
«Abbiamo urtato» disse Sandokan. «Tenetevi pronti a guadagnare la sponda».
«Vi sono degli scogli dietro la poppa!…» gridò Kammamuri, il quale, tenendosi in equilibrio sulla murata di babordo, aveva raggiunto il casseretto.
«A fior d’acqua?» chiese Yanez.
«Sì, padrone».
La barcaccia rimase un momento ferma, cozzando e ricozzando contro quegli ostacoli, poi per la decima volta girò su se stessa e sfuggì alla stretta degli scoglietti.
«Nemmeno questi ci vogliono» disse Yanez, il quale si teneva già pronto a balzare in acqua, prima che il galleggiante scomparisse.
«Continuerà ancora per un bel pezzo questa corsa?» si chiese Sandokan, il quale appariva assai irritato. «Ci allontana sempre più dall’isolotto e perciò anche dai nostri uomini».
«Dobbiamo già essere lontani almeno sette od otto miglia» disse Yanez.
«E non possedere un remo per spingere questa carcassa verso la riva!…»   «Se n’è andato anche il timone!… Scommetterei che anche l’elica sta rotolando in fondo al fiume».
«Per far correre di più i gaviali» aggiunse Kammamuri.
«E avventarceli contro» gridò Tremal-Naik, il quale si avanzava verso la murata poppiera. «Vi è un’altra truppa che giunge, e questa non deve aver ancora assaggiate le bistecche dei dayaki».
«Guardatevi dal mettere piede sulla tolda!…» tuonò Sandokan.
«E neanche sulle murate ci troveremo al sicuro, fratellino» disse Yanez. «Se lavorano di coda siamo fritti!»   Sette od otto gaviali, venuti su dalle profondità del fiume, avevano circondata la barcaccia, cercando di issarsi sulla coperta.
Dovevano essere ben affamati per tentare un simile attacco, poiché sfuggono ordinariamente l’uomo quando non li importuna.
Non meno stupidi dei loro confratelli africani, giravano e rigiravano intorno alla barcaccia, mostrando le loro formidabili mascelle ed urtando i bordi colle loro grossissime scaglie ossee. Erano passati due volte dinanzi alle aperture delle murate che si trovavano a mezza tolda, senza nemmeno scorgerle.
Ma da un momento all’altro potevano scoprirle e salire facilmente a bordo.
«Amici», disse Yanez «giacché non ci sono ancora tra i piedi, mettiamoci in salvo».
«Vuoi saltare in acqua?» chiese Sandokan. «Ti avverto che io non commetterò mai una simile pazzia».
«Nemmeno io ho alcun desiderio di fare la conoscenza con questi gaviali. So quanto valgono quando sono affamati».
«Che cosa vuoi fare allora?» «Siamo tanti imbecilli».
«Grazie».
«Abbiamo la ciminiera e quattro trombe d’aria che ci serviranno magnificamente d’appoggio, e restiamo qui, in attesa che un colpo di coda ci getti nelle bocche di quegli schifosi sauriani!…» «Yanez, tu sei un genio!» disse Tremal-Naik.
«Lo so da molto tempo».
«Giù tutti!…» gridò Sandokan.
I quattro uomini balzarono sulla tolda e si slanciarono verso la ciminiera della macchina, la quale s’innalzava per oltre tre metri, circondata da quattro trombe d’aria e sorretta da cinque solide funi metalliche.
In un lampo Sandokan ed i suoi compagni s’arrampicarono lestamente, mettendosi completamente al sicuro dai colpi di coda dei gaviali.
Era tempo!… Un sauriano era riuscito a scoprire finalmente il passaggio aperto nella murata centrale di babordo, e con un colpo di coda si era issato sulla tolda. Nel medesimo istante un altro saliva dalla parte opposta.
«Buona notte, signori» disse Yanez, togliendosi cortesemente il cappellaccio di paglia. «Vi avverto però che siete giunti troppo tardi per prendere parte alla cena, perché ormai le nostre costolette sono al sicuro nella dispensa della macchina».
Uno scroscio di risa seguì quelle parole.
«Signor Yanez» disse Kammamuri. «Invitateli per un altro giorno».
«Sei pazzo, maharatto!… Io intendo offrire loro uno spuntino a base di piombo e non più tardi d’un mezzo minuto».
I due bestioni si erano fermati l’uno di fronte all’altro, come fossero stupiti di trovarsi su quella superficie oscillante e di non trovare più le prede che dovevano aver prima scorte ritte sulle murate.
Intanto altri sei o sette si erano issati sulla tolda, sbatacchiando fragorosamente le loro formidabili code sul ponte metallico della barcaccia.
«Sembrano di pessimo umore» disse Yanez. «Sfido io!… Vedersi sparire d’un tratto costolette d’Europa, della Malesia e dell’India!… Anche un antropofago sarebbe rimasto molto disilluso!»   «Tu scherzi», disse Sandokan «e non pensi che se la barcaccia cola a picco cadremo fra le loro mascelle».
«Se continua a galleggiare magnificamente!…» «Ed intanto ci allontaniamo sempre più dai nostri uomini».
«Sono in buon numero, e perciò non ho alcuna inquietudine per loro. A terra, trincerati in mezzo agli alberi e colle spingarde, terranno testa a tutti i dayaki senza subire gravi perdite. Quando questa comica avventura finirà, andremo a raggiungerli e riprenderemo la nostra marcia».
«Attraverso le selve?» chiese Tremal-Naik.
«Per mio conto sono più sicure dei fiumi» rispose il portoghese il quale, anche nelle più difficili circostanze, manteneva il suo inalterabile buon umore.
«E poi non abbiamo una riserva verso la costa? Sambigliong ha una trentina d’uomini e una fortezza in sua mano, è vero, Sandokan?»   «Per Sambigliong non temo nulla» rispose la Tigre della Malesia. «La kotta è solidissima ed ha con sé trenta malesi d’un coraggio provato».
«Allora tutto va bene» concluse Yanez. «Regaliamo qualche chicca a questi bestioni, tanto per calmare un po’ la loro fame. Se sarà un po’ indigesta, tanto peggio per loro».
Piantò solidamente i piedi sulla tromba d’aria, s’appoggiò alla ciminiera, si tolse la carabina a due colpi che portava a bandoliera, e dopo essersi assicurato che le capsule erano a posto, mirò attentamente il più grosso gaviale.
«Se non lo ammazzo, m’incarico di mangiarlo vivo ed intero» disse.
«Allora sarai tu che farai una colossale indigestione» rispose Tremal-Naik, il quale si preparava pure a far fuoco.
«Un rajah dell’Assam non può soffrire indigestioni» disse Sandokan seriamente.
«E allora nemmeno il mio padrone che è il suo primo ministro» aggiunse Kammamuri.
«State zitti, chiacchieroni!…» esclamò Yanez. «Finché mi fate ridere io non potrò mirare il mio bestione».
«Sfondagli l’occhio, e la chicca gli entrerà nel cervello» disse la Tigre della Malesia.
«Niente affatto, preferisco fargli mangiare la mia palla conica. Vedrai che salto gli farò fare. Toh!… Mi guarda come se già pregustasse le mie bistecche.
A te, canaglia!…»   Il capo dei sauriani, un mostro più lungo di cinque metri e probabilmente più affamato degli altri, data la sua mole, si era avvicinato alla tromba d’aria sulla quale il portoghese si teneva quasi ritto, mostrando le sue enormi mascelle e lanciando, di quando in quando, dei rauchi nitriti.
«Come sei brutto!» esclamò Yanez. «Tu non hai il diritto di vivere».
Abbassò la carabina e lo mirò fra le fauci spalancate.
Una detonazione secca risuonò, seguita da un “evviva”.
Il gaviale, colpito in piena bocca, si rizzò di colpo sulla sua coda mostruosa giungendo quasi a livello della bocca d’aria, spalancando spaventosamente le formidabili mascelle irte di denti, poi si abbatté sulla tolda della barcaccia, come se fosse stato fulminato da una scarica elettrica. Non era però morto, poiché quelle bestiacce, al pari dei coccodrilli, dei caimani e anche dei pescicani, godono di una vitalità straordinaria.
Rimase qualche minuto come intontito e stupefatto di quell’insolito cibo, poi si rizzò quasi verticalmente sulla coda e si mise a fare una serie di salti stravaganti da far scoppiare dalle risa anche l’uomo più grave e più serio dell’orbe terracqueo.
Ora stramazzava sulla tolda, spalancando le sue enormi mascelle, ora si risollevava, contorcendosi come un mostruoso pitone, poi tornava a ricadere, rimanendo per qualche minuto ancora immobile. Non era però ancora spirato, poiché dopo un istante di riposo eccolo di nuovo sobbalzare, come se fosse stato morso da una tarantola, e riprendere i suoi ridicoli contorcimenti.
«Per Giove!…» esclamò Yanez, il quale rideva a crepapelle, malgrado la gravità della situazione. «Non è capace di digerire quel maledetto pezzo di piombo che io gli ho regalato. Se avessi un po’ di bicarbonato di soda glielo regalerei volentieri, tanto mi fa pena vederlo smaniare a quel modo.
Disgraziatamente i dayaki mancano assolutamente di farmacisti».
«Proviamo se quell’altro che gli sta presso e che lo guarda come trasognato, ha lo stomaco più robusto» disse Tremal-Naik. «Sarà un esperimento interessantissimo».
«Voi scherzate e non pensate che se la barcaccia affonda da un momento all’altro, quei bestioni proveranno i loro denti sulle nostre carni anziché sul piombo» disse Sandokan, il quale era il solo che non rideva, preoccupato più degli altri della sorte dei suoi uomini.
«Finché galleggia tutto va bene» rispose il portoghese. «Che cosa vorresti di più, uomo incontentabile?»   «Se le casse ed i barili si sfasciano, questa massa di ferro andrà a picco, e qui il fiume dev’essere profondo».
«Non si sono ancora sfasciati, fratellino. A te, Tremal-Naik. Poi farà la prova Kammamuri».
L’indiano puntò a sua volta la carabina, una splendida arma del Pendgiab, a due colpi, con incrostazioni di madreperla sul calcio, e mirò attentamente il sauriano che Yanez gli indicava e che stava osservando, come inebetito e spaventato, i soprassalti indiavolati del suo compagno, domandando forse al suo ottuso cervello la spiegazione di quei sorprendenti contorcimenti.
Anche quello teneva le mascelle spalancate, in attesa di qualche preda.
Due spari rintronarono quasi nel medesimo tempo e due palle coniche si cacciarono nella gola del sauriano, insieme agli stoppacci ardenti.
Il mostro chiuse d’un colpo solo le mascelle, agitò furiosamente la coda, parve rimpicciolirsi, poi rimase immobile.
«Ecco un bel colpo» disse Sandokan. «L’hai fulminato sul posto, mio caro Tremal-Naik».
«Io ed i coccodrilli ci conosciamo» rispose l’indiano. «Così li trattavo quando ero il “Cacciatore della Jungla Nera”. Una palla nella gola e una nel palato, in modo da farla penetrare nel cervello, e l’affare è finito».
«Dopo un colpo così meraviglioso, noi dobbiamo offrirti una grande carica» disse Yanez.
«Quale? Quella di uccisore di gaviali? Rinuncio fin d’ora» rispose Tremal-Naik, ridendo.
«Sono buoni pei dayaki forse, ma non per noi».
«E allora?» «Ti nominiamo grande cacciatore della nostra carovana».
«Accettato».
In quell’istante la barcaccia subì un nuovo urto e fece un altro giro su se stessa.
«Ohe!…» gridò Yanez. «Affondiamo?» «Non pare» rispose Tremal-Naik.
«Eppure sarebbe il buon momento per fermarci» disse Sandokan. «Siamo già anche troppo lontani dai nostri uomini. Sono quattro ore che scendiamo il fiume».
«Con una passeggiata attraverso i boschi sapremo raggiungerli» disse Yanez.
La barcaccia tornava a girare e rigirare su se stessa, ondulando paurosamente in causa anche dei soprassalti dei gaviali.
Le maledette bestie pareva che fossero impazzite. Correvano per la tolda, rovesciandosi tutte d’un colpo solo, ora a babordo ed ora a tribordo, squilibrando improvvisamente il galleggiante.
«Questi birbanti vogliono mandarci a fondo» disse Yanez. «Ehi, Kammamuri, spreca anche tu qualche cartuccia».
«Subito, capitano».
«E anche tu, Sandokan. In questo momento sono più pericolosi questi gaviali che tutti i dayaki del Borneo, siano di terra che di mare».
«Se ciò può farti piacere, sono pronto».
«Piacere!… Si tratta di salvare le nostre bistecche, amico mio. Su, apriamo il fuoco, prima che la barcaccia si sfasci ed affondi e che noi cadiamo fra le mascelle eternamente spalancate di quei bestioni».
La barcaccia, dopo aver urtato contro qualche banco nascosto sotto le acque, aveva ripresa la sua marcia, molto lenta però, poiché la corrente doveva subire ormai l’influenza dell’alta marea, la quale sovente si fa sentire perfino a qualche centinaio di miglia, se non di più, dalla foce dei corsi d’acqua, specialmente nelle regioni equatoriali.
Oscillava sempre spaventosamente, in causa dei formidabili soprassalti dei gaviali, i quali parevano spaventati di trovarsi rinserrati fra le murate del galleggiante.
Essendo quasi completamente privi d’intelligenza come i loro confratelli d’Africa e d’America, quantunque corressero intorno alla ciminiera ed alle bocche d’aria, pure, come quando erano saliti a bordo, non riuscivano a scoprire i due passaggi aperti fra le murate di babordo e di tribordo.
Sandokan, Yanez e i loro compagni, impazienti di sbarazzarsi di quei pericolosi vicini, i quali potevano, nel momento del naufragio, che non poteva tardare a succedere, gettarsi su di loro e divorarli, avevano aperto un fuoco formidabile.
Tutte le palle però non producevano ferite mortali, poiché sovente rimbalzavano sulle piastre ossee, perdendosi altrove.
La palma rimaneva sempre a Tremal-Naik, il famoso “Cacciatore di tigri della Jungla Nera”. Aspettava pazientemente che le bestiacce spalancassero le mascelle e con una doppia scarica le fulminava sul posto.
Già altri quattro sauriani erano andati a tenere compagnia ai due primi ed a bordo non ne rimanevano che tre, quando la barcaccia che rasentava quasi la riva sinistra, si rovesciò bruscamente sul tribordo con un fracasso assordante, fermandosi di colpo.
«Si è sventrata contro una roccia!…» gridò Yanez, il quale aveva avuto appena il tempo di aggrapparsi al margine superiore della ciminiera.
«E sta per affondare» aggiunse Sandokan. «Fortunatamente l’acqua non mi pare profonda».
«Ma i gaviali ci aspettano».
«Ci sono anch’io, però!» disse Tremal-Naik. «Non sono che tre. Resiste la barcaccia?» «Affonda lentamente» rispose Yanez. «Non hai che un minuto di tempo».
«Mi basterà».
Un gaviale si sforzava di issarsi su una bocca d’aria, a gran colpi di coda, scivolando però continuamente sul ferro, il quale non offriva presa alcuna alle sue zampacce.
Tremal-Naik gli fece inghiottire d’un colpo solo le due palle della sua carabina, gli stoppacci, le fiamme ed il fumo.
Il povero bestione si rovesciò due o tre volte sul dorso, mandando una specie di rauco nitrito, poi non si mosse più.
«A te, padrone: è carica!…» gridò Kammamuri, porgendogli l’arma che teneva in mano.
L’ex “Cacciatore della Jungla Nera” fece fuoco sul secondo gaviale, fulminandolo, poi presa la carabina che gli porgeva Yanez sparò sul terzo con eguale fortuna.
«Ecco sbrigata la faccenda» esclamò poi. «Possiamo discendere».
«Sei un cacciatore meraviglioso» gli disse Yanez. «Con te la nostra carovana avrà da mangiare a crepapelle».
«Saltate!…» gridò in quel momento Sandokan. «La barcaccia è stanca di galleggiare».

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