Otto giorni dopo, malesi, assamesi e negritos abbandonavano il villaggio aereo e l’accampamento per riprendere la loro marcia verso il Kinibalu.
La colonna era superbamente organizzata, poiché Kammamuri, a furia di urla e di legnate, era riuscito, cosa incredibile, a trasformare i quaranta guerrieri del capo in veri soldati, che avrebbero potuto non fare cattiva figura di fronte al primo reggimento dei fucilieri del Bengala, con grande stupore di Yanez, di Sandokan e di Tremal-Naik.
Decisamente anche quel fedelissimo servo dell’ex “Cacciatore della Jungla Nera” era nato… generale degli Stati Maharatti, o per lo meno un eccellente sergente istruttore.
Una trentina di donne ed altrettanti ragazzi seguivano la colonna, portando valorosamente provviste da brocca e da guerra, ben guardate da una forte retroguardia comandata da Sapagar.
Dei dayaki fino allora nessuno aveva visto traccia, tuttavia tutti sentivano per istinto che quei feroci cacciatori di teste non dovevano aver lasciata la grande foresta e che la sorvegliavano da lontano.
Già più volte, la sera, i negritos che vegliavano intorno al campo, avevano notato delle ombre umane scivolare attraverso i grandi alberi ed i rotang, e scomparire con velocità fulminea senza lasciare quasi alcuna traccia. Il vendicativo greco certamente non aveva abbandonata la sua sorveglianza.
La colonna, però, fornita di quasi un centinaio di bocche da fuoco e appoggiata dalle quattro spingarde, aveva, almeno per il momento, ben poco da temere, quantunque i negritos non fossero che dei cattivi coscritti, che chiudevano gli occhi ogni volta che sparavano le carabine.
Per quattro giorni la colonna continuò tranquillamente la sua marcia, facendo le sue tappe senza essere disturbata e permettendosi anche il lusso di fare qualche battuta per provvedersi di selvaggina; ma verso il tramonto del quinto, quando già in lontananza cominciavano a delinearsi nettamente, sull’orizzonte infuocato, le alte cime del Kaidangan, una catena che sorge quasi a metà della distanza fra la baia di Maludu e Kinibalu, un avvenimento, non inaspettato però, l’arrestò bruscamente.
La colonna stava per accamparsi in mezzo ad una piccola radura, aperta forse da qualche corsa di elefanti, poiché giacevano al suolo innumerevoli tronchi d’albero che pareva fossero stati violentemente schiantati, quando il negrito, che guidava sempre l’avanguardia e che osservava attentamente tutto, si avvicinò a Kammamuri, pel quale manifestava sempre una particolare affezione, dicendogli colla sua voce gutturale: «Il nemico!…» «Dove?» chiese il maharatto stupito, poiché fino allora non aveva notato alcunché di allarmante.
«Scende dal Kaidangan».
«Hai due telescopi fissati dinanzi agli occhi? Io non vedo nulla».
«Io non conosco quelle bestie» rispose ingenuamente il figlio delle selve.
«Non è necessario che in questo momento ti spieghi che bestie sono. Sarà per un’altra volta. Dov’è questo nemico che io non vedo?» «Scende la montagna, ti ho detto, orang».
«Da quale parte?» «Non vedi quei punti luminosi, lassù, correre sui fianchi del Kaidangan?» «Sono lucciole».
«T’inganni, orang».
«Che cosa credi che siano allora?» «Bestie grosse».
«Che portano in bocca delle torce!» Il selvaggio fece un moto d’impazienza.
«Non scherzare, orang» disse con voce grave. «Fra poco saranno qui e spazzeranno il nostro accampamento. I tagliatori di teste sono dietro a quelle grosse bestie».
«Che Siva mi anneghi nel mar di latte del grande serpente, se io capisco quest’uomo» disse Kammamuri. «Forse la Tigre della Malesia, che conosce questo paese meglio di me e che comprende più di me la lingua di questi uomini, capirà meglio».
Piantò il negrito, il quale guardava sempre, con una certa ansietà, i pendii boscosi del Kaidangan, e andò ad informare i capi della spedizione di quanto aveva udito. Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, che marciavano col grosso della colonna, giungevano in quel momento nella radura, in mezzo alla quale i malesi, aiutati dagli assamesi dell’avanguardia, avevano già rapidamente costruiti diversi attap per ripararsi dall’umidità della notte, la quale sovente cagiona la cosiddetta febbre dei boschi o febbre nera, che in ventiquattro ore, e anche meno, manda all’altro mondo l’uomo più robusto.
«Se il negrito non è tranquillo, vuol dire che qualche pericolo ci minaccia» disse Sandokan, dopo aver ascoltato attentamente Kammamuri. «Io conosco questi figli delle selve e so che il loro istinto non li inganna mai. Dove sono questi fuochi?» «Scendono le montagne».
«E tu credi che siano lucciole?» «A me sembrano tali».
«Siamo a un paio di miglia dalla base del Kaidangan. Come vorresti tu, mio bravo Kammamuri, distinguere un insetto fosforescente a tanta distanza?» «Che i tuoi occhi siano diventati, ad un tratto, cannocchiali di marina?» chiese Yanez. «É vero che Brahma, Siva e Visnù fanno talvolta dei miracoli stupefacenti».
«Ai quali io non ho mai creduto» aggiunse Tremal-Naik.
«Andiamo a vedere questi fuochi misteriosi» concluse Sandokan.
Il negrito si era arrampicato su un betel, il quale lanciava il suo esile tronco a quindici o venti metri d’altezza, ed aggrappato alle lunghissime foglie, scrutava attentamente la pianura che si estendeva al di là dalla foresta, fino alla base della montagna.
«Che cosa vedi dunque?» gli chiese Sandokan.
«Sempre i fuochi».
«Che cosa sono?» «Non lo so ancora, orang» rispose il figlio delle selve. «Ora corrono attraverso la pianura con velocità inaudita».
«Non sono lucciole?» «No, orang: sono bestie grosse».
«Io non ho mai veduto delle bestie grosse che siano luminose».
«Aspetta, orang».
«Ci capisci qualche cosa tu, Yanez, in tutta questa faccenda?» chiese Sandokan, rivolgendosi al portoghese, il quale stava mangiando tranquillamente una superba banana offertagli da Sapagar.
«Niente affatto, fratellino».
«Eppure questo negrito non può ingannarsi».
«Sarà come dici tu».
«Pare che t’interessi più la banana, del pericolo che ci minaccia» disse Sandokan.
«Per il momento sì: è veramente deliziosa. Non ne ho mai mangiate di così squisite, nemmeno quando ero alla corte di Surama».
«Concludi qualche cosa».
«Aspettiamo».
«Ma che cosa credi che siano quei fuochi?» «Saranno stelle cadenti».
In quel momento rintronò uno sparo, seguito da un grido.
«Sapagar, chi ha fatto fuoco?» gridò Sandokan.
Parecchi malesi e non pochi assamesi si precipitarono verso un folto cespuglio che si allargava verso uno dei quattro angoli dell’accampamento.
Delle voci echeggiavano fra le tenebre.
«Bel colpo!» «Una palla in fronte!…» «I furfanti ci sono intorno!…» «No, era una spia!…» «Ben colpito».
Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati a loro volta verso il cespuglio.
«Che cosa avete ucciso, dunque?» chiese il primo, facendosi largo.
«Uno di quei maledetti dayaki, padrone» rispose Sapagar, il quale era stato uno dei primi ad accorrere. «Quel cane ci spiava e forse attendeva il buon momento per scagliarci addosso qualche dozzina di frecce avvelenate».
«Gettalo alle tigri o alle pantere!» «All’armi!…» gridò in quello stesso momento il negrito.
«Toh!…» esclamò Yanez. «Questa notte non si può dormire, né fumare una sigaretta. É vero che le nostre carabine minacciano di arrugginirsi. Ehi, Kammamuri, tu che sei stato il sergente istruttore di questi selvaggi, fa’ formare un quadrato più o meno regolare. Io m’incarico dei miei assamesi».
«No!…» gridò Sandokan. «Ho ormai capito di che cosa si tratta. É un vecchio strattagemma dei dayaki di queste regioni. Lesti!… Occupate i rami degli alberi più grossi e tenetevi pronti a far fuoco. Prima i bambini e le donne».
«Che cosa ci scagliano addosso dunque quelle canaglie?» chiese Yanez, il quale conservava la sua calma abituale e non pareva che avesse molta premura di mettersi in salvo.
«Non perdere tempo, fratello» rispose la Tigre della Malesia. «Seguimi lassù, fra i rami di quel magnifico pombo. Resisterà agli urti di quei bruti».
«Di quali bruti? Diventi misterioso».
Sandokan, invece di rispondere, si slanciò verso il gigantesco albero, si aggrappò ai festoni di rotang e di nepentes e si issò rapidamente, subito seguito da Tremal-Naik e da Sapagar, il quale aiutava Nasumbata.
Anche tutti gli altri salivano precipitosamente sulle piante più robuste, fra le urla delle donne e gli strilli dei fanciulli.
Yanez, vedendosi solo, credette opportuno di imitare quella manovra da quadrumani e raggiunse lestamente Sandokan.
«Ora mi spiegherai quale spaventevole cataclisma sta per rovesciarsi su di noi» disse il pirata, quando si fu ben accomodato sulla biforcazione d’un grossissimo ramo.
«Non odi?» «Sì, un rombo lontano che pare prodotto dal galoppo sfrenato di un numero considerevole di pesanti animali e che noi abbiamo già udito quando abbiamo assistito all’emigrazione dei bufali».
«Ma questa volta non si tratta di animali cornuti; ma d’animali molto ben nasuti invece».
«Nasuti!…» esclamò il portoghese guardandolo con stupore. «Che siano degli elefanti?» «No, dei rinoceronti; e sono sicurissimo di non ingannarmi».
«Sono allevatori di questi bestioni i dayaki del tuo paese? Ecco una cosa che non avevo mai saputo».
«Se ne servono per la guerra, e quanti ne catturano nelle trappole li serbano per rovesciarli contro i nemici. Capirai benissimo, Yanez, che difficilmente si può resistere a simili cariche, specialmente se avvengono in una pianura».
«E come li aizzano e li dirigono?» «Col fuoco. Ora li vedrai all’opera i conduttori di quelle bestiacce. I rinoceronti sono già entrati nella foresta e si dirigono verso di noi».
«Io me ne infischio di loro».
«Già, perché sei al sicuro su un albero che resisterebbe anche all’urto di dieci elefanti!» «Può darsi, Sandokan» rispose Yanez.
A breve distanza si udivano degli urti tremendi e dei fischi acutissimi, che suonavano come dei “niff-niff” potentissimi.
I rinoceronti correvano all’impazzata, resi furiosi dagli uomini che li guidavano.
«Pronte le armi!…» gridò Sandokan ai suoi uomini, i quali si trovavano aggrappati, in un disordine pittoresco, fra i grossi rami degli altissimi alberi.
«E non dimenticate soprattutto di procurarvi un’abbondante colazione» aggiunse Yanez. «La carne dei rinoceronti non è poi tanto cattiva quanto si dice».
Il fragore aumentava di momento in momento con un crescendo impressionante.
Sotto gli alberi si vedevano come delle linee di fuoco incrociarsi, disperdersi e poi nuovamente radunarsi.
«Ehi, Sandokan», disse Yanez, il quale non stava mai zitto più di dieci minuti «tu che conosci, come ho capito, il modo di guerreggiare di questi dannati cacciatori di teste, non potresti spiegarmi la presenza di quei fuochi?» «Sono appunto quelli, amico, che rendono terribili i rinoceronti».
«E come?» «Tutte quelle bestiacce hanno infilzato nel corno un fastello di bambù secchi».
«Ho capito. Correndo, la fiamma si ravviva, e i poveri bestioni si bruciano il naso e anche la fronte».
«E si accecano».
«Furbi quei selvaggi!» «Eccoli».
«Siamo pronti a riceverli».
I rinoceronti erano ormai giunti a brevissima distanza e si precipitavano attraverso la foresta con impeto irresistibile, collegati fra di loro da solide catene di acciaio naturale.
I disgraziati animali portavano, infilati nel corno, dei fastelli di legna spalmata di resina, ed erano seguiti e fiancheggiati da una cinquantina di dayaki i quali li punzecchiavano spietatamente con delle lunghe lance per dirigerli. I giovani alberi e i cespugli, falciati dalle catene, cadevano di colpo. Quando però la truppa s’imbatteva in un grosso albero, che nemmeno gli elefanti avrebbero potuto atterrare, gli animali andavano a gambe all’aria mandando clamori assordanti, poiché quelle cadute provocavano piogge di scintille, le quali non dovevano mancare di produrre delle bruciature dolorosissime.
Era quello il momento più difficile pei dayaki, eppure quei bricconi, a colpi di lancia, riuscivano a rimettere in carreggiata i pesanti animalacci e a far loro riprendere la rotta che desideravano.
La truppa che stava per spazzare la radura si componeva solamente d’una quindicina di rinoceronti. Guai però se quelle masse avessero sorpresi i malesi, gli assamesi e i negritos sotto gli attap! Sarebbero passati sui loro corpi e certo un bel numero ne avrebbero sventrati o scaraventati in aria, furiosi come erano.
Fortunatamente il negrito aveva dato l’allarme per tempo, e Sandokan aveva subito indovinato il pericolo.
I rinoceronti, dopo aver fatto un altro capitombolo dinanzi a un gruppo di durion e di casnarine, i cui fortissimi e grossissimi tronchi non avevano ceduto né alle masse, né alle catene, si scagliarono all’impazzata attraverso l’accampamento, spazzando via, d’un colpo solo, le leggère tettoie costruite dai malesi, ma andarono a urtare contro un altro gruppo di grosse piante.
Si vide allora uno spettacolo spaventevole. I poveri animali, i quali ormai dovevano aver perduta la vista, a cagione della incessante pioggia di scintille che cadeva dai fastelli di bambù infissi nel loro lungo corno nasale e che non si erano ancora spenti, arrestati bruscamente nella loro pazza corsa, s’inalberarono come se fossero improvvisamente impazziti, poi si rovesciarono gli uni addosso agli altri, in una confusione indescrivibile bruciacchiandosi reciprocamente.
I dayaki incaricati di guidarli stavano per precipitarsi contro di loro per costringerli a riprendere la corsa, quando la voce squillante, metallica, di Sandokan echeggiò, coprendo per un istante i clamori spaventevoli dei colossi.
«Fuoco sugli uomini!…» Una scarica, poi una seconda, indi una terza rintronarono.
Malesi, assamesi e negritos sparavano furiosamente.
I dayaki, spaventati da quel continuo rimbombo e dai fischi dei proiettili, lasciarono i rinoceronti a sbrigarsela da loro, e scapparono con velocità fulminea, lasciando sul terreno una decina di cadaveri.
«Pensate alla colazione!…» gridò Yanez, il quale non si era nemmeno degnato di sprecare una palla.
I rinoceronti si erano finalmente rialzati e quasi tutti liberi, avendo spezzate le catene che li trattenevano in quest’ultimo e più formidabile urto.
Uno però era rimasto disteso contro il colossale tronco d’un durion. Nella carica disperata si era spaccato il cranio e il suo muso si arrostiva, spandendo intorno un nauseante odore di carne bruciata.
Bastarono pochi colpi di fucile per mettere in fuga gli altri e sbarazzare l’accampamento, ridotto però ormai in tristissime condizioni, poiché nemmeno un at tap rimaneva in piedi.
«Ecco la festa finita» disse Yanez, facendosi dare da Tremal-Naik una sigaretta. «Vorrei vedere in questo momento il viso di quel cane di greco. Non sarà certo troppo contento della pessima riuscita di questa carica di nuovo genere. Possiamo scendere, Sandokan».
«Credo che ormai non vi sia più alcun pericolo ad accamparsi. Suppongo che i dayaki non avranno un’altra banda di rinoceronti a loro disposizione. Per il momento ci lasceranno tranquilli, quantunque m’attenda da parte loro ben altre sorprese. Il rajah del lago ci disputerà accanitamente il terreno».
Si aggrapparono ai rotang e ai calamus e si lasciarono scivolare fino a terra.
I malesi, gli assamesi e i negritos li avevano già preceduti e si erano scagliati sul rinoceronte coi parang in pugno, lavorando accanitamente per farlo a pezzi, impresa meno facile di quello che si possa credere, poiché quei bestioni hanno una pellaccia così resistente, da sfidare impunemente le palle dei vecchi fucili, e delle costole così salde, da metter a dura prova le migliori scuri.
Alcuni malesi però si erano prontamente occupati della ricostruzione degli attap, lavoro molto più facile che quello dello squartamento del colosso.
«Ehi, Sandokan» disse Yanez sempre di buonumore. «Non torneranno i rinoceronti? Se sono ciechi, è probabile che ci tornino fra i piedi».
«Non escludo questo pericolo» rispose la Tigre della Malesia. «Ma speriamo che siano fuggiti ben lontano e che non vengano più a seccarci».
«D’altronde noi saremo pronti a riceverli» aggiunse Tremal-Naik, il quale si era tranquillamente sdraiato sotto il primo attap ricostruito.
«E che ci lascino cenare senza disturbarci» disse Yanez. «Toh! E i dayaki?» «Non ti occupare di loro» rispose Sandokan. «Devono avere una paura indiavolata di noi, e per ora, avendo veduto inutile il loro tentativo di distruggerci d’un colpo solo, ci lasceranno tranquilli. Li ritroveremo più innanzi. Ehi, Sapagar, ti raccomando la cena. Non sarà troppo delicata, ma la godremo egualmente. Siamo abituati alla grossa selvaggina».
I negritos aiutati dalle loro donne, avevano già fatto delle abbondanti raccolte di legna e avevano accesi sette od otto falò, sufficienti per arrostire una dozzina di bufali selvatici.
Enormi pezzi di carne, strappati alla carcassa del povero rinoceronte arrostivano già, scoppiettando allegramente.
I ragazzi, quantunque nei dintorni vi potessero essere ancora dei dayaki, raccoglievano dei manghi, dei pombo, delle banane e dei durion, inerpicandosi, coll’agilità di vere scimmie, sugli alberi più alti.
Sapagar invece si occupava ad arrostire pei suoi padroni delle larghe fette di frutti d’alberi del pane, che se non rassomigliavano per gusto a della vera mollica di frumento impastato, potevano passare per fette di zucca cucinate al forno con un leggero sapore di carciofi.
La serata si annunciava splendida. La luna era sorta e inondava, coi suoi raggi azzurrini la radura, e dalle non lontane montagne scendevano, di quando in quando, delle leggère folate d’aria fresca e profumata. Nella grande foresta regnava un silenzio profondo, rotto solo dal lieve stormire delle fronde.
«Ecco una notte deliziosa, che ci ricorda quelle tiepide e profumate dell’Assam, è vero, Tremal-Naik?» disse Yanez.
«Io veramente sono occupato a fiutare il profumo dell’arrosto» rispose l’indiano. «Ne ho vedute troppe nella Jungla Nera ed erano appunto le più belle che di solito erano le più pericolose».
«Tu diventi un uccellaccio di malaugurio» disse il portoghese. «Quando questi indiani non vedono più il Gange, diventano funebri».
«Non è ancora spuntato il sole».
«Se fosse in mio potere, gli manderei un messo per dirgli di mostrare il suo faccione dopo le nove. Ah!… Ecco Sapagar!… Chi direbbe che la carnaccia d’un rinoceronte esali, quand’è ben arrostita, un odore così appetitoso?» «Io, che ne ho mangiato spesso, quando ero ancora quasi ragazzo» disse Sandokan.
«Tu eri allora un mezzo selvaggio e non avevi il diritto di giudicare. Qui vi è un uomo civile, un tuan-uropa, come chiamano noi europei i malesi, e spetta a me solo dare un giudizio esatto. Per Giove!… Che i rinoceronti siano veramente succulenti? Se è vero darò ordine ai miei grandi cacciatori dell’Assam di catturarne almeno uno per settimana, e al mio primo cuoco di arrostirlo intero, e perfettamente, se vorrà rimanere lungamente alla corte di Surama, la moglie del principe consorte».
«E rajah in parte» disse Tremal-Naik.
«Maharajah, anzi» aggiunse Sandokan.
Sapagar, seguito da quattro o cinque donne negrite, aveva fatta la sua entrata sotto l’attap, portando trionfalmente sopra una doppia foglia di banano un arrosto colossale, capace di servire a venti persone, mentre le sue aiutanti recavano, pure su foglie di banani, larghe fette del frutto dell’albero del pane bene arrostite e delle piramidi di pombo e di banane.
«Ma questo è un vero banchetto!» esclamò Yanez. «Si potrebbe avere anche, signor maggiordomo o capocuoco, un po’ di vino?» «Abbiamo scoperta, signore, un’arenga saccarifera, e i miei uomini stanno spillandola».
«Se un giorno ti deciderai a venire alla corte dell’Assam, ti farò nominare primo cuoco di corte».
«Preferisco lavorare col parang, signore» rispose il malese, ridendo. «Dà maggiori emozioni».
«Carnefice e bandito!… Rinunci a una posizione onorata per conservarti pirata».
«Come se tu non lo fossi mai stato» disse Sandokan scherzando.
«Allora difendevamo Mòmpracem contro i leopardi inglesi che volevano divorarcela».
Udendo nominare la sua isola, un’ombra offuscò la fronte di Sandokan.
«Eccolo commosso» disse Yanez, il quale se n’era accorto.
«Sai che darei per un pezzo solo di quella terra tutto il regno dei miei avi!» «Contèntati di conquistare quello, per ora».
«Sì, per ora».
«E di dare un buon colpo di dente a questo arrosto. Avremo sempre tempo di riparlare di quell’affare, che anche a me sta tanto a cuore».
Si fece dare da Tremal-Naik il tarwar e si mise a tagliare, a larghe fette, il pezzo di rinoceronte.
Si erano messi a mangiare con buon appetito, accompagnando la carne, un po’ coriacea, è vero, però molto gustosa, colle frutta dell’albero del pane e con qualche banana, quando un fischio stridente echeggiò a breve distanza dall’attap, seguito da uno schianto fragoroso di rami e d’alberi.
«I rinoceronti che tornano!…» gridò Yanez, balzando presso la sua carabina.
«Ecco una buona cena guastata!»
L’assalto dei rinoceronti
7 Luglio 2015 Di Leave a Comment
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