Un morto che risuscita

La barcaccia era partita da soli pochi minuti, quando Sidar, il maggiordomo di Yanez, dopo aver ordinato all’equipaggio dell’yacht di scendere a terra per intraprendere la costruzione di altre capanne, scese nel quadro.
Una strana fiamma brillava negli occhi dell’indiano, mentre dal suo volto traspariva una profonda preoccupazione.
Si fermò un momento nel salotto, bevette un bicchierino di liquore che era rimasto ancora nella bottiglia, poi aprì la porta d’una delle cabine laterali, mandando un sibilo acuto, simile a quello che lancia il cobra-capello, il terribile serpente delle jungle indiane, quand’è in collera.
Un sibilo eguale, che pareva provenisse dal di sotto dell’impiantito, vi rispose subito.
«Non dorme» mormorò Sidar. «Allora deve aver ascoltato tutto. Ciò mi risparmierà una spiegazione di più».
Prese una caviglia di ferro, la introdusse in un buco, e con un piccolo sforzo fece scorrere una tavola del pavimento, scoprendo una botola di un mezzo metro quadrato.
«Sahib, puoi uscire» disse allora l’indiano. «Siamo finalmente soli».
«Era tempo» rispose una voce che veniva di sotto l’impiantito. «Non ne potevo più».
«Ti credo, sahib. Un fakiro non avrebbe potuto resistere di più».
«Mentre io non sono un fakiro».
Una testa apparve, poi un corpo umano ed un uomo balzò fuori con un’agilità più che straordinaria.
Non era un indiano, bensì un europeo di statura alta dalla pelle bianchissima, che risaltava più vivacemente in causa d’una lunga barba nerissima che gli incorniciava il viso.
Aveva i lineamenti regolarissimi, il naso aquilino, gli occhi neri ed ardenti ma che avevano tuttavia un non so che di duro e di crudele.
Come tutti gli europei che abitano le regioni caldissime dell’Asia meridionale, era vestito di leggerissima flanella bianca. Sul capo, però, invece del guscio di midollo di bambù, portava una calotta rossa, con grosso fiocco di lana azzurra, simile a quelle che usano portare i greci ed i levantini del Mediterraneo. Appena uscito da quell’apertura, si stiracchiò le membra, socchiudendo parecchie volte gli occhi, come se le sue pupille non potessero affrontare di colpo l’intensa luce che entrava dal sabordo spalancato, poi disse: «Ecco delle vendette che costano care!… Ventidue giorni di prigionia e sempre immerso nell’oscurità!… Solamente un greco come me può resistere ad una simile prova».
«Che cosa posso offrirti, sahib?» chiese Sidar, il quale lo contemplava estatico.
«Berrèi volentieri uno di quei caffè che sanno preparare a Smirne ed a Costantinopoli, ma tu non sai nemmeno che cosa sia. Portami qualche liquido infernale che mi galvanizzi. Il tuo padrone avrà delle bottiglie, suppongo. Un rajah non si mette mai in viaggio se non si è prima ben provvisto».
«Del gin?» «Vada per il gin!» L’indiano aprì un piccolo armadio e presentò all’europeo una tazza e una bottiglia quasi piena.
«Dove sono andati?» chiese, dopo aver vuotato un paio di tazze.
«Da un certo sultano di Labuk» rispose Sidar.
«Chi è costui?» «Pare che sia l’amico del terribile uomo che comanda i pirati malesi».
«Non verrà nessuno a disturbarci?» «No, perché ho mandato tutto l’equipaggio a terra e ho ritirato la scala.
Siamo soli, sahib».
«Non hanno avuto alcun sospetto sulla mia presenza a bordo di questo yacht?» «E come, sahib? Quando m’hanno mandato a Rangoon ad acquistare questo legno, io ti ho fatto preparare segretamente il nascondiglio e nessuno ha saputo nulla. Tu potresti rimanere a bordo anche degli anni interi con piena tranquillità».
«Bella galera che mi offri, chitmudyar!…» gridò l’europeo, il quale pareva esasperato. «Io non sono già un topo per vivere nel fondo d’una stiva!… Dunque mi si crede proprio morto alla corte d’Assam?» «Nessuno ha più parlato di te».
«Imbecilli!… Non si sono occupati di far ricercare il mio corpo?» «Non l’avrebbero trovato, poiché, appena ti ho veduto cadere, approfittando della confusione che regnava in quel momento nel palazzo, ti ho subito portato via».
«Stupidi!… Ci voleva ben altro che due o tre palle per uccidere il favorito del rajah!… I greci hanno la pelle dura, e quella di Teotokris è più dura di quella di tutti i greci dell’Arcipelago e del Levante. Ah!… Mi si crede morto!… Mio caro signor Yanez, principe consorte di Surama, vi farò un giorno vedere come sono ancora vivo! Per tutte le furie dell’inferno!… Darò colpo su colpo, e vendicherò quel disgraziato ex rajah dell’Assam, che si spegne lentamente, sognando sempre di essere lo sposo di Surama. Quando io avrò abbattuti questi uomini, non sarà che un giuoco per me strappare a quella donna il trono. Ah!… Ah!… Non si conosce ancora chi sia Teotokris il greco!…
Sidar, dammi un sigaro. Sono ventitré giorni che non ne fumo uno».
Il chitmudyar prese dall’armadio una scatola di lacca piena di sigarette di diverse specie e di sigari. Il greco prese un rokok, un sigaro piccolissimo arrotolato in una foglia di nipa, molto delizioso, poi si sdraiò su una comoda sedia di bambù mettendo una gamba sopra l’altra.
«Ora discorriamo dei nostri affari, Sidar» disse, dopo aver lanciato in aria tre o quattro getti di fumo profumato.
«Sono ai tuoi ordini, sahib» rispose l’indiano. «Hai udito ciò che ha narrato poco fa la Tigre della Malesia?» «Non mi è sfuggita una parola» rispose il greco. «Si direbbe che questi uomini siano conquistatori di troni».
«Che cosa pensi di tutto ciò?» «Che mai mi si è offerta un’occasione migliore per vendicarmi di questi avventurieri e soprattutto di quel Yanez. Sei riuscito a sapere chi è il loro avversario?» «Il mio padrone non ha segreti per me, e perciò nulla può sfuggirmi. Essi vanno molto lontano, a quanto pare, verso un lago che si chiama Kinibalu, che io, prima d’ora, non avevo mai udito nominare».
«Tu sei uno stupido, Sidar. Il Borneo non è né l’India, né l’Assam. Nemmeno io so dove si trovi, ma, se lo ignoriamo noi, non sarà sconosciuto ai selvaggi che abitano quest’isola. Si tratta di abboccarsi con qualcuno di loro, di conquistare la sua fiducia con regali o con denaro e farmi condurre da quel rajah bianco, che questi furfanti, a torto od a ragione, vorrebbero detronizzare come quel povero Sindhia».
«Io potrei averlo sottomano quell’uomo» disse Sidar.
«Tu!…» «Sì, sahib. Io ho saputo che questi pirati hanno fatto prigioniero un dayako il quale era stato incaricato, a quanto ho potuto capire, di spiarli per incarico del rajah del lago».
«Sei ben certo di quello che tu dici?» «Ero presente quando la Tigre della Malesia raccontò questo al mio padrone».
«L’hai veduto quel dayako?» «Sì, sahib».
«Che tipo è?» «Mi parve un uomo molto scaltro e molto intelligente».
«Per tutte le furie dell’inferno!… Avrei io tanta fortuna? Come potrei vedere quell’uomo?» «É una cosa semplicissima» rispose Sidar. «Quando il mio padrone è assente, sono io che comando. Chi mi impedisce di dire ai malesi che lo vegliano, di condurlo a bordo dell’yacht per maggior sicurezza?» «E quando tornerà Yanez?» «Io non sarò certamente più qui, padrone. Se tu parti, io ti seguirò. Tu mi hai promesso di vendicare l’ex rajah dell’Assam che fu sempre largo di favori, a me come a te: uccidi l’usurpatore, e il mio corpo e la mia anima sono tuoi, sahib».
«Chi veglia su quell’uomo?» «Vi sono due malesi nella capanna» rispose Sidar.
«Vorranno salire anche essi a bordo».
«E per questo?» «Ci saranno d’impiccio».
L’indiano si staccò da un orecchio un anello piuttosto grosso e toccò una piccola tacca mostrando un forellino.
«Qui ve n’è abbastanza per addormentare dieci uomini» disse poi.
«Riuscirà a comprenderci quel prigioniero?» chiese il greco.
«Tutti gli uomini della Tigre della Malesia parlano la lingua inglese» rispose l’indiano. «Se quel prigioniero, come ho udito narrare, ha fatto parte delle bande del pirata, bene o male lo comprenderà anche lui, m’immagino».
«É una carta pericolosa quella che tu mi proponi» disse il greco. «Si potrebbe perdere d’un colpo solo la partita».
Prese un altro rokok, lo accese, e per qualche minuto fumò in silenzio, aggrottando di quando in quando la fronte ed agitando nervosamente la gamba che poggiava sull’altra.
«Quando torneranno?» chiese ad un tratto all’indiano, che stava sempre dinanzi a lui in un’attitudine rispettosissima.
«Domani sera, sahib».
«Sei tu certo di poter far tradurre qui il dayako?» «Supponi che il mio padrone insieme con la Tigre della Malesia mi avesse dato quest’ordine prima di partire. Chi lo metterebbe in dubbio?» «Sei furbo come i levantini» disse il greco.
«Non so chi siano».
«Persone che non t’interessano affatto in questo momento. Che ora è?» «Sono le tre, sahib».
«Va’ a tentare il colpo».
«Sei deciso, sahib?» «Senza quell’uomo non potrei far nulla, e senza una guida sicura e fedele non so se riuscirei a raggiungere il rajah del lago e bisogna che lo veda a qualunque costo. É là che l’usurpatore del trono dell’Assam farà i conti con me».
«Devo avvertirti, sahib, che quell’uomo ha una gamba spezzata e che non so come farà a guidarti nell’interno di questa immensa terra».
«Chi gliel’ha spezzata?!» «La Tigre della Malesia».
«Assolderemo gente e lo faremo trasportare. Avremo tempo a pensare a questo. Chiudi la porta con due giri di chiave, fa’ portare quell’uomo in una cabina qui vicino e lascia pensare a me pel resto. Lascia qui la bottiglia e anche i sigari e torna presto».
Mentre l’indiano s’affrettava ad uscire, chiudendo la porta a doppia mandata, il greco accese un terzo rokok e abbassò la tenda di seta rossa del sabordo, per non esporsi al pericolo di essere scorto da qualche uomo dell’equipaggio, e si mise a passeggiare per la stretta cabina.
«Era tempo di sgranchire le gambe» mormorò. «Ventitré giorni, quasi sempre immobile e sempre all’oscuro come una talpa!… É vero che le vendette bisogna pagarle talvolta assai care!… Mio caro signor Yanez, voi credevate che io fossi morto e che io non vi dessi più alcuna noia!… Non conoscete i greci dell’Arcipelago, signor mio! Io ho perduto la terribile partita che avevamo impegnata nell’Assam, quella partita che a me ha tolto i favori di quel povero rajah e che a voi ha dato la corona, ma ora noi la giocheremo qui. Sarò un avversario implacabile e doppiamente pericoloso, perché voi ignorate da quale parte piomberà il pericolo. Strano destino!… Nato pescatore di spugne, finisco la mia esistenza fra principi più o meno selvaggi».
Il greco si lisciò la lunga barba nera con visibile soddisfazione e riaccese la terza o quarta sigaretta, socchiudendo gli occhi come se avesse l’intenzione di schiacciare un sonnellino.
Era trascorsa una mezz’ora, quando un urto violento contro il fasciame dell’yacht lo fece balzare in piedi. Pareva che una scialuppa avesse abbordato il legno. Gettò via il rokok ormai spento, s’accostò silenziosamente al sabordo, alzò la tenda di seta e lanciò al di fuori un rapido sguardo.
Non si era ingannato. Una baleniera aveva urtato l’yacht in vicinanza della scala che era rimasta abbassata.
Conteneva solamente quattro uomini: l’indiano, due malesi muniti di remi ed un selvaggio dal colorito giallo bronzeo, il quale stava coricato su una specie di palanchino appoggiato sui due banchi di mezzo.
«Quel Sidar è più furbo e più risoluto di quello che credevo» mormorò Teotokris. «Andate a studiare questi indiani!… Vi sembrano impassibili statue di bronzo, mentre hanno nelle vene sangue non peggiore dei levantini. Lo tengo in pugno e farò di lui quello che io vorrò».
Si ritrasse lentamente, lasciando ricadere con precauzione la tenda e tornò a sedersi, dicendo: «Aspettiamo».
Udì scorrere delle carrucole, poi delle persone camminare sul ponte, quindi dei passi che scendevano la scala del quadro e la voce di Sidar, che diceva: «Qui, in questa cabina… sarà più sicuro che a terra. É un uomo troppo prezioso e il mio padrone ci tiene ad averlo in sua mano. E poi qui vi sono due pezzi d’artiglieria e, se i suoi amici cercheranno di portarcelo via, avranno da fare i conti colla mitraglia».
«Un vero furbo!» mormorò il greco. «Se quel povero Sindhia avesse avuto dieci di questi uomini, molto probabilmente non avrebbe perduto così stupidamente la corona dell’Assam».
Udì ancora uno sbattere di porte, poi la chiave che girava nella toppa.
«Sei tu?» chiese sottovoce.
«Sì, sahib» rispose Sidar, pure a mezza voce.
«Entra».
La porta si aprì silenziosamente, e Sidar comparve dicendo: «É fatto, padrone».
«Ti hanno fatta nessuna osservazione?» «No, sahib; anzi, hanno pienamente approvato il mio provvedimento».
«Imbecilli!… É debole il ferito?» «Si direbbe che sta meglio di me e di te» rispose Sidar. «Questi selvaggi posseggono una forza d’animo eccezionale».
«Hai provato a parlargli in inglese?» «Sì; e mi ha perfettamente capito».
Il greco respirò come se gli avessero tolto un macigno postogli sul petto.
«Lì stava il mio dubbio» mormorò. «Ora a noi due, principe consorte dell’Assam! Vedremo come attraverserai le grandi foreste che conducono a quel lago misterioso».
Poi, rivolgendosi a Sidar, chiese: «Che cosa fanno i due malesi che sorvegliano il prigioniero?» «Bevono» rispose l’indiano strizzando gli occhi.
«La morte o il sonno?» «Il sonno».
«Fa lo stesso» mormorò il greco. «Quanto tempo occorrerà prima che si addormentino?» «Appena una mezz’ora».
«Riempimi il bicchiere e dammi un’altra sigaretta».
Portò, senza far rumore, la sedia dinanzi al sabordo, alzò un po’ la tenda di seta, accese il rokok che Sidar gli porgeva e parve che s’immergesse in profondi pensieri, guardando distrattamente la sconfinata distesa del mare scintillante di luce.
Sidar si era collocato dietro di lui, sempre in attesa di ordini. Si capiva che il greco esercitava sull’indiano una influenza illimitata.
Era appena trascorsa mezz’ora, quando entrambi furono strappati alle loro meditazioni da un colpo sordo che pareva prodotto dalla caduta d’un corpo umano sul pavimento della vicina cabina.
Il greco si era alzato di colpo.
«Uno è stramazzato» disse.
«Aspettiamo l’altro, sahib» rispose Sidar.
«Non darà l’allarme?» «Non sarà in grado nemmeno d’alzarsi. Il narcotico che io posseggo agisce rapidamente, toglie non solo le forze, ma anche la voce. Toh!… Ecco l’altro che è caduto. Vieni, sahib: ormai siamo sicuri di non avere degli incomodi testimoni».
Aprì la porta, salì la scala spingendosi fino sulla tolda per accertarsi che nessuno era giunto a bordo, poi ridiscese rapidamente ed entrò nella cabina vicina.
Il greco l’aveva prontamente seguito, tenendo in mano, per precauzione, un lungo ed affilatissimo pugnale.
Su una branda, strettamente legato, giaceva Nasumbata. A terra, l’uno presso l’altro, colle mani strette attorno a due bottiglie ormai completamente vuote, si trovavano i due malesi di guardia.
Il narcotico doveva essere stato ben potente, poiché avevano entrambi la rigidità dei cadaveri.
«Non si sveglieranno anche se udranno parlare?» chiese Teotokris a Sidar.
«Ne avranno per ventiquattro o forse trenta ore» rispose l’indiano. «Potresti cantare, danzare e fare anche echeggiare il tam tam».
Il greco guardò Nasumbata, il quale sembrava non poco impressionato da quella visita inaspettata e per la caduta dei due malesi di guardia.
«Comprendi la lingua inglese?» gli chiese.
«Abbastanza» rispose il dayako.
«Noi sappiamo chi tu sei».
Nasumbata sgranò gli occhi, manifestando un vivo stupore.
«E noi ti abbiamo fatto condurre qui per liberarti», continuò il greco «perché noi siamo nemici degli uomini che ti hanno arrestato».
«Voi!…» esclamò il selvaggio.
«Noi sappiamo che tu sei l’uomo incaricato di avvertire il rajah del lago della spedizione che sta organizzando la Tigre della Malesia ai suoi danni».
«Chi te l’ha detto, signore?» «Non occupartene: lo sappiamo e basta. Vuoi tu essere libero e riprendere la tua marcia verso il misterioso lago?» «E me lo chiedi? É la mia vita che tu salvi, poiché sono più che certo che la Tigre della Malesia non perdonerà il mio tradimento».
«Metto però delle condizioni».
«Parla, signore».
«Tu conosci quel rajah?» «Sì: sono stato uno dei suoi guerrieri».
«É vero che è un uomo bianco?» «É un inglese».
«Sapresti tu condurmi da lui?» «La via dei grandi boschi non è ignota a Nasumbata».
«Se tu mi prometti di farmi avere un abboccamento col rajah del lago, questa notte tu sarai libero».
«Lo giuro su Datara».
«Chi è?» «Il mio Dio».
«Vada per il signor Datara» disse il greco, ironicamente. «Tu però sei ferito!» «La Tigre della Malesia mi ha spezzato una gamba».
«Come potremo noi trasportarti attraverso le foreste?» Nasumbata sorrise.
«Tutti i dayaki della costa mi conoscono» disse. «Fammi condurre nel villaggio che io ti dirò, signore, e dove ho parecchi parenti, e organizzeremo una piccola carovana di portatori».
«Si potranno assoldare anche dei guerrieri?» «Il dayako è nato per la guerra» sentenziò Nasumbata.
«Vuoi dire che pagando potrò ottenere una scorta?» «E numerosa quanto vorrai, specialmente col mio appoggio».
«Allora faremo sudare a freddo i nemici del rajah del lago. Sappi intanto che io, in un paese molto lontano e che forse avrai udito nominare, nell’India, sono stato un grande guerriero».
«Basta vederti per crederti, senza alcuna prova» rispose il dayako. «E poi tutti gli uomini bianchi sono grandi guerrieri».
«Allora tu accetti la mia proposta?» chiese il greco.
«Chi rifiuterebbe la libertà che salva la vita, signore?» «É lontano quel tuo villaggio?» «Appena due ore».
«Sapresti calarti in una scialuppa?» «A me bastano le braccia».
«Aspettiamo che il sole tramonti e che le tenebre avvolgano il mare. Puoi riposarti fino a quel momento».
«Grazie, signore. E questi due malesi? Non si sveglieranno?» «Fa’ conto che siano morti. Ci rivedremo più tardi».
Il greco uscì, seguito da Sidar, il quale non aveva pronunciato una sola parola, e ritornò nella sua cabina.
Rialzò un momento la tenda e guardò verso la spiaggia. I malesi e l’equipaggio dell’yacht stavano terminando la costruzione delle capanne, senza occuparsi dei velieri che danzavano dolcemente sulle loro àncore a meno di quaranta metri dall’approdo.
«Tutto va bene» mormorò.
Passeggiò per qualche minuto intorno alla cabina col viso rabbuiato, poi fermandosi bruscamente dinanzi a Sidar, gli chiese: «L’yacht ha un piccolo deposito di polveri, è vero?» «Sì, sahib» rispose l’indiano. «Perché mi fai questa domanda?» «Dove si trova?» domandò invece il greco.
«Sotto il quadro».
«Chi ha la chiave?» «Io».
«Fammelo vedere».
«Che cosa vuoi fare, sahib?» «Lasciare al principe consorte della rhani dell’Assam un brutto ricordo della mia fuga. Che diamine!… Credevi tu che io me ne andassi come un ladro senza bottino? Voi altri indiani talvolta siete dei veri stupidi; eppure vi piccate di esser furbi. Dovreste prendere qualche lezione dai greci dell’Arcipelago. Orsù, mostrami il deposito delle polveri».
Sidar s’inchinò senza rispondere; trasse dal piccolo armadio una chiave e fece cenno al greco di seguirlo.
Uscirono dal quadro, passarono nella stiva spostando una tavola e scesero nella sala poppiera, la quale era illuminata da una lanterna affinché l’equipaggio, nel caso d’un improvviso ritorno dei dayaki che li avevano assaliti nella baia di Kudat, potesse provvedersi prontamente di munizioni pei due pezzi d’artiglieria.
«É qui» disse Sidar indicando una porta.
«Apri» rispose il greco staccando la lanterna.
L’indiano obbedì e si trovarono tosto in una oscura cabina che era ingombra di barilotti cerchiati di ferro e di casse semipiene di proiettili e di mitraglia.
«Vi sono delle micce qui?» disse Teotokris.
Sidar gli indicò un bariletto il quale era quasi pieno.
Il greco prese una delle più lunghe, depose la lanterna onde non correre il pericolo di saltare in aria, e percosse colle nocche delle dita parecchi recipienti.
«Questo!» disse. «Vi devono essere qui dentro almeno trenta libbre di polvere da cannone. Che bella fiammata!…» Tolse con precauzione la vite inferiore e lasciò uscire una mezza libbra del terribile esplosivo.
«Che cosa fai, sahib?» chiese Sidar, spaventato.
«Preparo la mia mina» rispose il greco, seppellendo nel mucchio una estremità della miccia. «Vedrai che spettacolo! Lo vedremo però da lontano».
«La nave salterà?» «É quello che desidero».
«E quei due malesi?» «Che il diavolo se li porti all’inferno. Io non ho tempo di occuparmi di loro».
Misurò attentamente la miccia servendosi delle dita.
«Durerà cinque o sei minuti» disse poi. «Quando l’yacht farà un salto in aria, noi saremo ben lontani, e questo sarà il mio primo saluto che darò a quei briganti che mi hanno fatto perdere una posizione invidiabile presso il rajah dell’Assam».
Fece udire un riso stridulo, beffardo, e uscì dalla santabarbara, tornando nella sua cabina. Sidar l’aveva seguito.
«Cerca se vi è qualche cosa da mangiare» disse Teotokris. «Non contare sulla riserva dei miei viveri. Sono quasi tutti guasti».
L’indiano uscì e poco dopo ritornò portando in un canestro un superbo prosciutto salato, dei biscotti e una bottiglia di vino.
Il greco sedette dinanzi a un tavolino, prese un coltello e si mise a tagliarsi delle larghe fette, disponendole a strati su alcune gallette che aveva trovato in fondo al canestro.
Si mise a mangiare senza fretta, innaffiando la cena con bicchieri di vino di Spagna. Quand’ebbe terminato, il sole era già scomparso e le tenebre erano piombate sul mare e sulla costa bornese.
«Vuoi altro, sahib?» chiese l’indiano.
«Un rokok ancora, poi va’ a preparare la scialuppa».
«É pronta».
«Fissa un grosso gherlino alla grua di cappone di tribordo perché il prigioniero possa scendere».
«E poi?» «Metti delle armi nella scialuppa, quante ne puoi trovare».
«L’armeria è ben fornita».
«Ed un barile di polvere ed un sacco o due di palle. Nei grandi boschi ci saranno necessarie l’una e le altre».
«I tuoi ordini saranno eseguiti».
Il greco lo congedò con un gesto, poi tornò a rovesciarsi sulla poltrona di bambù, assaporando il sigaro.
Dal sabordo spalancato entravano buffi d’aria fresca, profumata. In lontananza i malesi e gli indiani dell’yacht canticchiavano, mescolando le loro voci al rumoreggiare della risacca.
Strani scintillii, che ora diventavano più intensi e che ora svanivano bruscamente, apparivano sul mare.
Meduse e nottiluche salivano a galla a miriadi e miriadi, rischiarando le acque diventate ormai color dell’inchiostro.
Il greco continuava a fumare, respirando di quando in quando, a pieni polmoni, l’aria notturna.
A un tratto si alzò.
In lontananza una luce scialba appariva, cambiando la tinta delle acque: era il primo quarto di luna che saliva dolcemente sull’orizzonte.
«Sidar!…» chiamò.
L’indiano, il quale probabilmente stava seduto presso la porta della cabina, entrò.
«É tutto pronto?» chiese.
«Sì, sahib».
«Andiamo a prendere il ferito».
«Seguimi».
Entrarono nella cabina attigua.
Nasumbata era sveglio e si agitava, impaziente di prendere il largo.
Il greco gli tagliò i legami, lo prese fra le braccia e lo portò sulla tolda, colla stessa facilità, colla quale avrebbe portato un fanciullo.
«Scendi prima tu, Sidar» disse Teotokris. «Vi sono le armi nella scialuppa?» «Nulla vi manca».
«Prepara tre carabine. Potremmo averne bisogno».
Poi adagiò il dayako sulla murata, dicendogli: «Aggràppati alla fune e làsciati scivolare. Bada di non mandare nessun grido».
«Dovessi perdere la gamba ferita, io non parlerò».
«E tu, sahib?» chiese Sidar.
«Non ti domando che un mezzo minuto» rispose il greco. «La miccia mi aspetta da un paio d’ore».
«Bada, sahib, di non saltare anche tu».
«So che cosa sono le micce» rispose il greco.
Ridiscese rapidamente nel quadro, entrò nel piccolo magazzino delle polveri, aprì la lanterna che aveva presa passando, e diede quindi fuoco alla miccia.
Quando la vide scintillare e la udì crepitare, mandando in aria qualche punto luminoso, s’alzò, spense la lanterna e si slanciò a precipizio su per la scala.
Nasumbata e Sidar erano già scesi nella scialuppa.
Il greco s’aggrappò al gherlino ed in un baleno li raggiunse.
«Ai remi, Sidar, e voga forte!» disse. «L’esplosione sarà certamente violentissima».
La baleniera prese rapidamente il largo, dirigendosi verso levante.
Sulla spiaggia malesi e indiani cantavano attorno a dei falò, di nulla sospettando. Avevano terminata la cena, e probabilmente si preparavano a qualche danza notturna.
La baleniera, spinta da due paia di remi energicamente manovrati, era già lontana tre o quattro gòmene, quando un lampo abbagliante squarciò improvvisamente le tenebre, seguito da un rombo spaventevole.
Un’immensa nuvola di fumo s’alzò verso il cielo, poi s’abbatté sul mare sotto un colpo di vento.
L’yacht di Yanez era saltato!

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