La presa della capitale

Tutta la notte la flottiglia vogò lentamente sul lago cogli equipaggi ridotti, non avendo Sandokan nessuna premura di assalire la capitale.
Voleva lasciar tempo al greco e ai figli del rajah di ricondurre le orde dayake nel grosso villaggio per sorprenderli tutti insieme e finire con un colpo solo la campagna.
Il rajah doveva però prepararsi a una estrema difesa e raccogliere a sua volta dei rinforzi. E infatti, quando il vento girava al settentrione portava agli orecchi dei conquistatori i fragorosi suoni dei gong.
In tutti i villaggi costieri si dava l’allarme, e forse si assoldavano guerrieri per condurli alla capitale, ormai gravemente minacciata dopo che Sandokan si era impadronito di sorpresa della flottiglia.
Prima dell’alba le trenta barche si allontanavano nuovamente dalle sponde per non farsi scorgere. Fortunatamente il lago continuava a mantenersi tranquillo e nessuna nube si mostrava sul tersissimo cielo, quindi non vi era da temere, almeno per il momento, nessuna tempesta, e i conquistatori potevano tenersi tranquillamente lontani da tutti i porti di rifugio.
La seconda notte però la flottiglia prese risolutamente la corsa verso ponente, sotto la direzione del capo della kot ta, il quale ormai pareva si fosse intensamente affezionato al figlio di Kaidangan, ossia alla Tigre della Malesia.
La capitale del rajah del lago non era lontana più di una quarantina di miglia, e Sandokan, sicuro ormai che il greco e le sue bande l’avessero raggiunta, aveva deciso di sorprenderla allo spuntare dell’alba.
«Daremo un cozzo terribile e chiuderemo quei furfanti fra due fuochi» aveva detto a Yanez. «Assaliremo dalla parte di terra e dalla parte del lago per impedire al rajah e a Teotokris ogni scampo. Là dovranno finire la loro esistenza».
«Io m’incarico del greco» aveva risposto Yanez.
«E io del rajah».
«Allora siamo d’accordo. Stiamo solamente attenti che non ci sfuggano».
«Di questo rispondo io».
Verso le due del mattino i piloti della flottiglia, che non aveva cessato di avanzarsi nella direzione indicata dal capo della kotta, segnalarono diversi fuochi che ardevano verso levante.
Sandokan e Yanez, i quali stavano prendendo un po’ di riposo sotto il ponte insieme a Tremal-Naik, prontamente avvertiti, erano accorsi in coperta.
«Un accampamento?» aveva chiesto il primo al capo della kotta.
«No, orang» aveva risposto il dayako. «Nella capitale del rajah del lago si veglia. Guarda come quei fuochi sono alti sulle acque. Bruciano sulle alte piattaforme. A te: odi?» Sandokan e Yanez tesero gli orecchi e parve loro di udire echeggiare in lontananza parecchi gong.
«Che la flottiglia sia stata segnalata?» chiese il portoghese.
«Non è possibile» rispose la Tigre della Malesia. «Abbiamo avuto la precauzione di navigare sempre lontani dalle rive e non abbiamo mai accesi i fanali. Che si aspettino però da un momento all’altro un assalto, questo è possibile».
«Continueremo la rotta?» «E perché no? Il greco ha avuto tutto il tempo di giungere alla capitale e non trovo alcun motivo per differire ancora l’urto fatale che rovescerà per sempre il rajah del lago. Io credo che noi siamo ormai padroni della situazione, poiché dipende solamente da noi di dare o di rifiutare la battaglia».
«Questo è vero» rispose Yanez.
«Che ora abbiamo?» «Mancano venti minuti alle tre».
«L’alba non spunterà che dopo le quattro. Abbiamo quindi il tempo necessario per investire la capitale come m’intendo io».
Guardò il capo della kotta, il quale pareva che aspettasse i suoi ordini.
«Quanto credi che sia lontana la città del lago?» gli chiese.
«Non più di due miglia».
«Raddoppia i rematori e conduci la flottiglia a grande velocità».
«Come vuoi, orang».
L’ordine fu gridato anche alle altre barche, e pochi minuti dopo la piccola squadra s’avanzava velocissima, tenendo le prore verso quei punti luminosi che brillavano sempre verso levante come altrettanti fari.
La profonda oscurità che regnava sul lago proteggeva i conquistatori. Prima del tramonto, dei densi vapori avevano invaso il cielo, coprendo gli astri ed intercettando completamente i raggi della luna.
Su tutte le barche ferveva un lavoro febbrile. Si caricavano le spingarde, si aprivano le casse delle munizioni, si disponevano le carabine e le cerbottane lungo le murate per essere più pronti a servirsene.
I negritos invece portavano in coperta dei grandi vasi ricolmi di materia resinosa ed enormi fasci di lunghissime frecce, le quali avevano, verso la punta, dei larghi fiocchi di quella specie di cotone prodotto dalle arenghe saccarifere, già ben inzuppati di quel liquido infiammabilissimo, per lanciarle contro le capanne della capitale e provocare incendi spaventevoli. In lontananza i gong non cessavano di sonare.
«Kammamuri!…» gridò Sandokan.
Il maharatto fu lesto ad accorrere.
«Eccomi, capitano» disse.
«Tu, mio colonnello senza galloni, per ora, poiché non li avrai se non quando tornerai nell’Assam, prenderai trecento uomini e assalirai la capitale dal lato di terra. Sapagar ti aiuterà. Troverai due kotte: urtale di fronte o di fianco, non importa. Quello che mi preme è che tu mantenga un fuoco non interrotto.
Lascio a te una parte dei tuoi negritos, i dayaki della costa e quelli del capo della kotta, i quali ormai ci sono fedelissimi. I loro parang, se avverrà uno scontro all’arma bianca, faranno miracoli».
«E se tu riuscirai a impedire al greco e al rajah e ai figli di questo di fuggire, ti nominerò generale» aggiunse Yanez.
«Mi pesa già la carica di colonnello, Altezza» rispose il maharatto.
«Non ti peserà la paga».
«Mi hai ben capito?» chiese Sandokan.
«Sì, capitano».
«Appena le barche toccheranno la riva, forma la tua colonna. Vai a intenderti con Sapagar e con Sambigliong».
I fuochi ingrandivano a vista d’occhio, riflettendosi vivamente nelle cupe acque del lago. Bruciavano certamente su dei focolari formati con lastre di pietra e con massi situati sulle ampie piattaforme del villaggio.
Cosa strana, che dà un po’ da pensare: i malesi, i dayaki e perfino i papuasi della Nuova Guinea, hanno, al pari dei caribbi del lago Maracaybo del Venezuela americano, l’abitudine di costruire i loro villaggi sull’acqua, quando si trovano nelle vicinanze d’un bacino salato al riparo dai venti, o d’uno stagno più o meno ampio.
Come i rossi figli dell’America del Sud, piantano nel fango un numero infinito di pali, costruiscono con dei robusti bambù delle spaziose terrazze e v’innalzano delle gigantesche capanne, le quali servono d’asilo a molte famiglie. In tal modo si mettono al sicuro dalle sorprese da parte degli animali feroci che abitano le foreste ed anche dei loro nemici di terraferma.
Quei villaggi hanno talvolta delle estensioni considerevoli e possono servire d’asilo a parecchie centinaia di abitanti.
La capitale del rajah del lago era costruita in questo modo. Dal lato di terra però era pure difesa da due cinte formate da robusti pali per poter meglio resistere a un assedio.
Le trenta barche, sempre guidate dalla nave ammiraglia, mezz’ora prima che la luce si diffondesse nel cielo, approdavano silenziosamente a mille passi dalla capitale, senza essere state segnalate, poiché avevano avuta la precauzione di tenersi ben lontane dalla luce proiettata dai fuochi.
La città era abbastanza visibile, brillando sempre, in molti luoghi numerosissimi falò. Era tutta costruita sul lago, su altissimi pali e si prolungava per parecchie centinaia di tese, senza dubbio, attraverso a dei bassifondi.
Immense piattaforme si stendevano sopra, coperte da gigantesche capanne, costruite in legno e foglie.
Una di quelle abitazioni aveva colpito subito Sandokan. Era un capannone, situato più in alto, su una piattaforma di dimensioni gigantesche, sorretta da un numero infinito di enormi bambù che dovevano avere una lunghezza di quindici o venti metri.
«Che sia la reggia dell’assassino della mia famiglia?» si era chiesto.
Chiamò il capo della kotta, il quale si adoperava, insieme a Kammamuri e a Sapagar a sbarcare la colonna che doveva operare contro le due piccole fortezze che si ergevano sulla riva del lago, per difendere da quella parte il villaggio.
«Che cos’è quella?» gli chiese, indicandogliela. «Un magazzino per viveri o un’abitazione?» «É la casa del rajah del lago» rispose il dayako.
«Armata di pezzi da guerra?» «Ho veduto un giorno lassù due lila».
«Mi basta. É finito lo sbarco?» «Fra qualche minuto trecento uomini saranno a terra, orang».
«Affrettatevi: fra poco il sole farà la sua comparsa».
Non vi era proprio bisogno d’incitare i guerrieri dell’ardita spedizione.
I trecento uomini erano già sulla spiaggia con quattro spingarde e si preparavano a chiudere il passo agli abitanti della capitale, se avessero tentato di fuggire verso le foreste.
«Sono tutti pronti?» chiese Sandokan a Yanez il quale, insieme a Tremal-Naik, aveva regolato lo sbarco.
«Sì, amico» rispose il portoghese.
«Allora possiamo muoverci anche noi».
«Hai ben notato dove si trova la casa del rajah?» «A metà delle piattaforme».
«Stringiamoci allora verso terra per impedirgli di rifugiarsi nelle kotte e distruggiamo subito i ponti».
«Ci avevo già pensato. Lo stringeremo in un cerchio di fuoco. É poi necessario che noi ci dividiamo. Tu assumerai il comando d’una decina di barche e batterai il villaggio dalla parte di levante, al di là dei ponti».
«E tu?» «Io con altrettante spazzerò le piattaforme di ponente, oltre il capannone reale».
«E le altre?» «Ne assuma il comando Tremal-Naik per investire la fronte del villaggio che guarda il lago. Vi possono essere delle scialuppe nascoste in mezzo a quella selva di palafitte, e il rajah, i suoi figli e il greco potrebbero approfittarne per fuggire; e questo non lo voglio assolutamente, m’intendi, Yanez?» «Per Giove!… Non sono ancora diventato sordo» rispose il sempre allegro portoghese.
«Porta i miei ordini».
«Fra un minuto tu sarai accontentato, fratellino. Non voglio tornarmene nell’Assam senza vederti rajah».
Un momento dopo, i comandi si succedevano ai comandi a bordo della flottiglia e le barche si spostavano rapidamente, disponendosi su tre colonne.
«Date dentro ai remi!…» gridò finalmente Sandokan, il quale dalla murata poppiera dell’ammiraglia sorvegliava attentamente tutte quelle mosse.
«Ognuno al suo posto di combattimento!» Le tre piccole divisioni, già ordinate, si staccarono dalla spiaggia, muovendo rapidamente verso la capitale del rajah.
Le tenebre cominciavano a scomparire, dileguandosi sotto l’invasione delle prime luci dell’alba.
Le acque del lago, poco prima nere come se fossero d’inchiostro, si colorivano di tinte indefinibili. A levante qualche scintillio appariva di già.
Immense bande d’uccelli acquatici salutavano l’aurora e il ritorno dell’astro diurno con grida festose e passavano, rapide come folgori, al di sopra della flottiglia, come se volessero augurarle la vittoria.
Sulle gigantesche piattaforme del villaggio i fuochi a poco a poco si estinguevano, lanciando in aria le ultime faville.
Anche sull’alta terrazza, ove s’innalzava la vasta capanna del rajah, i falò morivano.
Sandokan, curvo sulla prora, colle braccia appoggiate al piccolo bompresso, guardava ferocemente la casa reale, cogli occhi iniettati di sangue. Era pur sempre, anche invecchiata, la terribile Tigre della Malesia, che dalle rive di Mòmpracem aveva fatto tremare, coi suoi invincibili prahos ed i suoi Tigrotti, tutte le popolazioni costiere del selvaggio Borneo.
Si sarebbe detto che colla potenza del suo sguardo d’aquila cercava di attrarre fuori della sua dimora l’usurpatore del suo regno e l’assassino della sua famiglia.
Un colpo di spingarda, sparato verso la costa, lo fece sobbalzare.
Erano Kammamuri e Sapagar che assalivano di già le due kotte erette a difesa dei ponti.
Si alzò di scatto, tendendo gli orecchi.
Un secondo colpo rimbombò, salutando quasi il sole che in quel momento si alzava radioso sull’orizzonte.
«Le mie spingarde!…» gridò. «Forza ai remi!… Sotto! Sotto!…» Le tre squadriglie si erano ormai separate, prendendo diverse direzioni.
Quella di Yanez, più leggera, era già passata dinanzi all’ultima piattaforma del villaggio, mentre quella di Tremal-Naik si era arrestata dinanzi, pronta a mitragliare i fuggiaschi.
Urla spaventevoli echeggiavano sulle ampie terrazze, e ondate di guerrieri passavano sopra i ponti, agitando forsennatamente i parang e i kampilang lucentissimi.
Già nuvole di frecce cadevano in tutte le direzioni, senza ferire alcuno, poiché le barche non erano ancora a buona portata.
A un tratto l’altra piattaforma, che reggeva la capanna reale, si coprì pure di difensori e parecchi colpi di fucile echeggiarono.
Era la guardia del rajah che faceva fuoco contro la squadriglia di Sandokan e di Yanez, essendo queste due le più vicine.
Ma non erano che una ventina di pessimi fucili che tuonavano, facendo più fracasso che danno.
Il rajah però disponeva di qualche cosa di meglio. E infatti, subito dopo le prime scariche, si vide una gran nuvola di fumo alzarsi sulla piattaforma e poco dopo rombare la grossa voce del cannone.
Era un lila (un pezzo d’artiglieria di ottone, che lancia ordinariamente palle da due a tre libbre) che aveva fatto fuoco contro la nave ammiraglia, fracassandole due madieri ad un metro sopra la linea d’immersione.
La voce della Tigre della Malesia, quella voce che galvanizzava i Tigrotti di Mòmpracem fino al delirio, echeggiò potente fra lo strepitare della fucileria: «Che le spingarde spazzino le terrazze ed il mirim faccia fuoco sulla capanna del rajah e risponda colpo per colpo!… Le carabine facciano il loro dovere!…» La battaglia assumeva proporzioni gigantesche. La flottiglia, guidata da Yanez, infuriava a levante; quella di Sandokan, a ponente; quella di Tremal-Naik batteva poderosamente la fronte del villaggio stendentesi sul lago per poter giungere a portata di freccia e permettere ai negritos di lanciare le loro frecce incendiarie.
Anche verso la costa si combatteva con accanimento, poiché si udivano le spingarde rombare e le scariche secche delle carabine. Kammamuri, Sambigliong e Sapagar conducevano certamente all’assalto delle kotte i loro trecento uomini.
La battaglia durava ferocissima da un quarto d’ora, quando una colonna di dayaki si slanciò, a corsa furiosa, attraverso le terrazze, balzando di traversa in traversa, essendo formate quelle costruzioni come grate, con larghe aperture di tratto in tratto per permettere agli abitanti di scendere nei canotti legati alle palizzate.
Li guidavano due uomini che indossavano dei costumi indiani.
Un grido era sfuggito a Sandokan, il quale proprio in quel momento aveva ricaricata la sua splendida carabina a due colpi.
«Il greco e il chitmudyar di Yanez!… Siete morti!…» Puntò l’arma e scaricò i due colpi.
Il greco s’arrestò un momento, allargando le braccia, poi cadde attraverso una delle aperture, piombando nel lago. Il chitmudyar un momento dopo precipitava egualmente, sollevando un altissimo spruzzo di spuma.
«Chi ha una spingarda carica?» gridò Sandokan gettando la carabina.
«Ecco la mia, Tigre della Malesia» rispose un malese.
Sandokan balzò sulla bocca da fuoco, l’abbassò a fior d’acqua e scatenò un turbine di mitraglia là dove il greco e il maggiordomo del portoghese erano caduti.
«Spero che questa volta, cane d’un Teotokris, non risusciterai più» disse poi.
«E ora, all’attacco!…» La flottiglia lentamente si avvicinava al villaggio acquatico sparando furiosamente. Gruppi di dayaki, colpiti dalle palle delle carabine o dalla mitraglia, cadevano continuamente nel lago per non tornare mai più a galla.
Anche le squadriglie di Tremal-Naik e di Yanez continuavano a stringere per rinserrare la capitale del rajah del lago in un cerchio di ferro e di fuoco.
I dayaki però opponevano una resistenza disperata.
Il lila non cessava di far fuoco, maltrattando ora le barche di Sandokan e ora quelle dei suoi due compagni. Già più d’una, colpita alla linea d’immersione, era colata a fondo.
Probabilmente era lo stesso rajah o i suoi figli che lo usavano, a giudicarlo dall’esattezza dei colpi, essendo in generale i dayaki pessimi tiratori, quando non si servono delle loro cerbottane.
I malesi dell’ammiraglia, non potendo usare le spingarde per la troppa altezza della piattaforma, rispondevano però colpo per colpo col mirim, e non fallivano il bersaglio, essendo ottimi puntatori.
Ogni volta che il pezzo tuonava, degli uomini capitombolavano, fracassandosi sui ponti sottostanti, oppure un pezzo del capannone cadeva insieme a qualche trave.
La resistenza dei dayaki non poteva durare a lungo. Già avevano subìto delle perdite enormi e sulle terrazze prospicienti il lago vi erano dei veri cumuli di cadaveri.
Sulle acque, numerosi corpi umani galleggiavano e rotolavano insieme alla risacca.
La carabina ancora una volta aveva vinto la freccia avvelenata, non avendo questa la portata del proiettile di piombo.
Tuttavia la battaglia continuava accanitissima e già Sandokan, impaziente di finirla, stava per dare il comando di espugnare a viva forza il villaggio, quando delle fiamme brillarono sopra le capanne che si ergevano verso le ultime piattaforme sul lago.
Le barche di Tremal-Naik, respinti i difensori con terribili scariche di fucili, erano giunte a buon tiro e i negritos avevano lanciate le prime frecce incendiarie sopra i tetti infiammabilissimi delle abitazioni.
L’agonia della capitale del rajah del lago cominciava.
Alimentate dal vento che soffiava da ponente, le fiamme divampavano rapidamente, propagandosi di capanna in capanna e comunicandosi alle piattaforme.
Ormai enormi colonne di fumo avvolgevano tutto il villaggio, nascondendo talvolta perfino l’alta terrazza, dove la guardia del rajah continuava a far fuoco coi suoi vecchi archibugi e col lila.
Le tre flottiglie vi stringevano da vicino ferocemente, implacabilmente, spazzando i ponti con veri uragani di proiettili. Erano soprattutto le spingarde che facevano strage: chiodi e pallettoni atterravano ad ogni scarica gruppi d’uomini.
Le fiamme intanto avanzavano. I negritos non cessavano di scagliare frecce incendiarie, provocando nuovi fuochi a levante ed a ponente del villaggio.
Tremal-Naik guidava meravigliosamente la sua squadra e si avvicinava a poco a poco a Sandokan e a Yanez, continuando la sua opera di distruzione.
Tutto ormai avvampava. I dayaki, decimati dalle carabine e dalle spingarde, accecati dal fumo, investiti dal fuoco, si gettavano a dozzine nel lago, rinunciando ormai a ogni resistenza.
Solamente la guardia del rajah teneva ancora testa ai conquistatori, sparando furiosamente contro le tre squadre che demolivano inesorabilmente le sue piattaforme e facevano cadere, pezzo a pezzo, la capanna reale.
Il fuoco intanto si avanzava sempre con furia incredibile. Capanne, terrazze, ponti, palizzate, tutto precipitava nel lago, con sibili stridenti.
Lassù però, in alto, avvolta fra turbini di fumo, resisteva sempre ferocemente la capanna reale ed il lila tuonava sempre con un crescendo spaventoso. A un tratto una voce ben nota, squillante come una tromba di guerra, echeggiò fra tutti quei colpi di fucile: «Cessate il fuoco!…» Era Sandokan.
Fece colle mani portavoce e gridò: «Arrenditi, rajah del lago! Sei nelle mie mani, assassino della mia famiglia!…» Fra le nuvole di fumo e le fiamme, che ormai avvolgevano la capanna reale, una voce rauca, rispose: «Ecco la risposta!…» Seguì un istante di silenzio angoscioso per tutti, poi una vampa immensa squarciò l’aria con un fragore assordante che si ripercosse lungamente sul lago.
Il rajah aveva dato fuoco alle polveri, ed era saltato in aria insieme ai suoi figli e alla sua guardia!…
E il villaggio bruciava, bruciava!… La capitale scompariva a vista d’occhio!

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