Il villaggio dei Negritos

Il combattimento era ormai finito e molto probabilmente non doveva venir ripreso.
I dayaki, completamente sbaragliati dai colpi di spingarda, dalle scariche incessanti delle carabine e dall’ultima carica guidata da Sandokan, avevano ormai rinunciato a tentare dei contrattacchi contro i demoni di Mòmpracem e i montanari che Yanez aveva condotti dall’India, gente non meno solida degli altri, malgrado il loro aspetto magrissimo e non molto guerresco.
Le due colonne, dopo essersi ben assicurate che fra i cespugli non vi erano che dei cadaveri, avevano battuto sollecitamente in ritirata per aiutare gli uomini addetti al servizio delle spingarde.
La salita della collina fu compiuta senza che nessuna freccia avvelenata partisse dalla fronte dell’immensa foresta.
I dayaki, dovevano aver abbandonato, per il momento almeno, definitivamente l’impresa, troppo superiore alle loro forze, e anche al loro coraggio.
Quando Sandokan giunse al foro, dal quale uscivano già fitte nuvole di fumo appestante, trovò Yanez in piedi su un’alta roccia, colle mani sprofondate nelle tasche e la sigaretta in bocca.
«Che suonata!…» disse il portoghese, dopo d’aver gettato in aria una boccata di fumo. «Mi sono divertito assai a vederli scappare quei furfanti di dayaki. Si battono meravigliosamente anche i miei assamesi e gareggiano benissimo coi tuoi malesi. Surama sarà contenta, quando le dirò che i suoi sudditi hanno fatto furori anche fra i boschi del Borneo».
«Demonio d’un uomo» rispose Sandokan ridendo. «Sei appena sfuggito alla morte, ed eccoti già lì pronto a scherzare!…» «Non mi rammento più di essere stato dentro a quella bolgia infernale, fratellino mio. Il fumo di questa eccellente sigaretta, perfettamente seccata da quel calore spaventevole, mi ha fatto dimenticare tutto. E così, che se ne siano proprio andati i dayaki?» «Credo che per ora non abbiano alcuna intenzione di ritornare. Ci sono più di cinquanta morti fra i cespugli e tutti bene imbottiti di chiodi e di pallettoni. Colle nostre quattro spingarde noi faremo delle meraviglie sulle rive del Kinibalu».
«E il greco?» «Nessuno lo ha veduto».
«Eppure doveva essere con loro».
«Lo sapremo subito. Vi è una persona che ce lo dirà».
«Chi?» «Nasumbata».
«Il traditore che era scomparso col mio chitmudyar?» chiese Yanez con profondo stupore. «Non era saltato insieme al mio yacht?» «Pare di no, poiché l’ho pescato ancora vivo in mezzo a un cespuglio» rispose Sandokan.
«Ah!… Furfante maledetto!… É qui?…» «Lo porteranno a momenti».
«Ha ancora la gamba rotta?» «Se l’avesse avuta sana non sarebbe rimasto indietro per farsi prendere.
Eccolo che giunge!… Ora ci divertiremo!…» I malesi e gli assamesi avevano ormai occupata la collina, mettendo in batteria le quattro spingarde e spingendo delle piccole avanguardie lungo i fianchi della caverna ardente.
Primo loro atto era stato quello di ostruire il canale che dal bacino di nafta metteva al foro aperto dai dayaki, affinché la volta della grande caverna non si calcinasse completamente e finisse per franare sotto i loro piedi; poi i malesi, maestri in fatto di piccole e leggère costruzioni, avevano innalzato con foglie, frasche e bastoni una dozzina di comodi attap per riparare i loro compagni d’armi ed i loro capi dagli implacabili raggi del sole.
Quattro uomini avevano intanto trasportato Nasumbata, dopo di averlo solidamente legato, perché, anche se aveva la gamba ancora ferita, non si fidavano più di quel briccone.
«Ah!… Ecco l’amico!…» disse Yanez, vedendolo. «Come va la tua gamba, vecchio malandrino?» Il traditore non rispose. Aveva i lineamenti sconvolti da un terrore impossibile a descriversi, gli occhi dilatati e i capelli irti.
Un tremito fortissimo scuoteva di quando in quando le sue membra, facendo sussultare le corde vegetali che gliele stringevano.
Tremal-Naik e Kammamuri si erano pure avvicinati.
«A questa canaglia noi dobbiamo la nostra mezza cottura» disse il primo.
«Ma invece lo faremo cucinare completamente lui» disse il secondo.
«M’incarico di precipitarlo in mezzo allo zolfo bollente. Faremo un superbo arrosto».
Nasumbata guardò con ispavento il feroce maharatto e fece stridere sinistramente i suoi denti. Sandokan si volse verso i quattro malesi che avevano trasportato lassù la barella, dicendo: «Andiamo sotto un attap. Di caldo ne abbiamo avuto abbastanza, per provare ora i morsi del sole».
«Infatti!» disse Yanez. «Preferirei una vasca da bagno piena d’acqua gelata.
Peccato che non sia ancora nel mio palazzo di rajah!» I malesi ripresero la lettiga e trasportarono il traditore sotto un’ampia e arieggiata tettoia, improvvisata con pochi bastoni e un bel numero d’immense foglie di bambù, che non misuravano meno di sei metri di lunghezza su uno di larghezza. Sandokan e i suoi compagni li avevano seguiti, sedendosi intorno alla barella, su un fitto strato di foglie freschissime e profumate.
«Ora, amico, discorriamo, giacché ho avuto la fortuna di riprenderti» disse a Nasumbata. «Era molto tempo che desideravo scambiare quattro chiacchiere con te».
Si levò dalla fascia il magnifico scibouk, si assicurò con tutta flemma che il tabacco fosse bene asciutto, lo caricò e aspirò alcune boccate di fumo senza perdere di vista, un solo istante, il viso sparuto del traditore, come se provasse una gioia immensa del suo indescrivibile terrore.
Yanez lo aveva subito imitato, accendendo la sua seconda sigaretta.
«Ascoltami bene, Nasumbata» disse Sandokan. «Tu potrai forse salvare ancora la pelle, ma devi rispondere a tutte le mie domande. Se esiti un istante, o se mi accorgo che cerchi ancora d’ingannarmi, ti faccio gettare entro la caverna ardente e ti assicuro che di là non uscirai più vivo».
«Quando avrò parlato, tu mi ucciderai egualmente» disse il dayako.
«D’altronde non voglio negarti questo diritto».
«Canaglia!…» urlò Sandokan. «Quand’è che la Tigre della Malesia ha mentito?» «Intèrrogami».
«Chi guidava i dayaki?» «Un uomo bianco».
«Conosci il suo nome?» «L’ho udito chiamare Teo… Teo…» «Teotokris; non è vero?» «Sì».
«Da chi?» «Da un indiano che era a bordo dell’yacht».
«Dal mio chitmudyar!…» gridò Yanez.
«Non so che cosa tu voglia dire. So soltanto che quei due uomini, l’indiano e il bianco, erano amici e che se la intendevano benissimo fra di loro».
Sandokan guardò Yanez, il quale pareva fosse rimasto come fulminato da quella inaspettata rivelazione.
«Eh, eh!… Fratellino mio» gli disse con una leggera punta d’ironia. «Pare che tu abbia dei sudditi poco fedeli».
«Per Giove!… Gli strapperò la pelle!…» «Corri troppo».
«Un giorno lo ritroverò, te lo assicuro».
«Come mai tu, che sei sempre stato così astuto e così prudente, sei andato a sceglierti per chitmudyar un amico del greco o dell’ex rajah dell’Assam? Questo mi stupisce assai».
«Noi non conosciamo a fondo che due soli indiani» rispose Yanez.
«Tremal-Naik e il fedelissimo Kammamuri».
«Grazie della tua buona opinione» disse l’ex “Cacciatore della Jungla Nera”, ridendo.
«Riprendiamo la nostra interessantissima conversazione» disse Sandokan, rivolgendosi a Nasumbata. «L’uomo bianco dunque guidava i dayaki?» «Sì».
«Com’è che non si è fatto vedere?» «Si teneva sempre alla retroguardia».
«Perché?» «Aveva paura di voi, una grande paura».
«Ah!… Birbante! Non osava affrontarci a viso aperto. Ed è stato lui che ha fatto accendere quel bacino?» «Sì».
«E aprire il buco?» «Anche».
«Voleva proprio finirci?» «Bruciarvi dentro la caverna».
«Pezzo d’animale!» disse Yanez. «Sono terribili quei greci nelle loro vendette. Vi è una cosa però che tu non hai ancora chiarita, mio bravissimo zoppo. Com’è che tu sei scappato e che il mio yacht è saltato in aria?» «É l’uomo bianco che l’ha fatto scoppiare come una bomba».
«Ma dov’era quel furfante? Com’è giunto qui?» «Col vostro yacht».
«Si trovava nel mio yacht!…» gridò Yanez.
«Era nascosto sotto il quadro di poppa».
«Per Giove!… Chi te lo ha detto?» «L’uomo bianco e anche l’indiano suo amico».
«Eri in buona compagnia, Yanez» disse Sandokan. «Io al posto di Teotokris avrei dato fuoco alle polveri e avrei fatto saltare l’yacht, prima che giungesse nella baia».
«Si vede che i greci sono più furbi di te, fratellino» rispose il portoghese.
«Non si sentiva abbastanza forte da resistere a una esplosione. Se saltavo io, doveva ben saltare anche lui e più alto di me, trovandosi più vicino alla santabarbara».
«É vero», rispose Sandokan.
«Dimmi ora un po’, Nasumbata, dove è andato a finire il mio chitmudyar, ossia l’indiano che accompagnava l’uomo bianco?» «Si è recato presso il rajah del lago, accompagnato da un grande capo dayako».
«A fare che cosa?» chiese Sandokan.
«Per avvertirlo che un uomo bianco assumeva il comando delle sue truppe combattenti alle frontiere».
«Ah!… Miserabile!… L’hai più riveduto?» «No: il lago è lontano».
«I dayaki però obbediscono all’uomo bianco?» «Gli uomini che hanno il viso pallido esercitano sempre una grande autorità sugli uomini di colore» rispose Nasumbata.
«E i dayaki lo hanno nominato subito loro capo?» «Subito».
«Tu sei stato altre volte al lago. Non lo negare».
«Non lo nego».
«Ha molti guerrieri il rajah?» «Così si dice».
«Possiede molte armi da fuoco?» «Molti kampilang e molte sumpitam».
«E mirim o lila?» «Non ho mai vedute di quelle grosse armi da fuoco».
«Ah!… Allora la vedremo!…» rispose Sandokan.
Aspirò altre tre o quattro boccate, poi disse: «Io credo, Nasumbata, che tu sia nato veramente sotto una buona stella. Un altro uomo al tuo posto, stretto fra le mie mani, non sarebbe più vivo. Io avevo ormai deciso di scaraventarti in mezzo allo zolfo che consuma la caverna e ora invece ti dono la vita. Bada, però, Nasumbata, che io non sono uomo da regalarla due volte e tu lo sai. La Tigre della Malesia ha talvolta fatto spreco di vite umane quando i suoi guerrieri non meritavano di vivere. Tu hai veduto il rajah?» «Sì, sei mesi or sono».
«Un buon dayako non s’inganna mai sulla via da tenere?» «Lo credo».
«Tu mi condurrai al lago: solo a questo prezzo ti lascio vivere. Se ti rifiuti, ti faccio scaraventare dentro la caverna, e fra un minuto non rimarrà, della tua carcassa, nemmeno un osso intatto».
«Io farò quello che vorrai, signore. Ho avuto torto di lasciarmi illudere dalle promesse di quei due uomini bianchi e dell’indiano».
«Basta così. Credi tu che i dayaki ci tendano un altro agguato?» «So che il rajah del lago ha dato ordine a tutti i suoi guerrieri d’impugnare le armi e di contrastarti il passo, dando loro ad intendere che tu sei il più famoso cacciatore di teste che esista in tutta l’isola. Nella tua avanzata troverai certamente delle poco gradite sorprese».
«A quelle ci penso io» osservò Sandokan.
Aveva girato gli sguardi verso un angolo dell’attap e aveva scorto il negrito, il quale aveva assistito, completamente dimenticato, al colloquio.
«Avànzati, brav’uomo» gli disse. «Dove si trova il tuo villaggio?» «Sulla via che conduce al lago, orang» rispose il pigmeo.
«Mi hanno detto che tu sei un capo».
«Comandavo una piccola tribù».
«É lontana?» Il negrito pensò un momento, si guardò le dita, contò e ricontò, poi fece un gesto d’impazienza.
«Non lo so» disse poi. «Arriveremo però presto».
«Conosci la via?» «Noi sappiamo sempre dove andare».
«Ci condurrai al tuo villaggio?» «Sì, orang».
Yanez chiamò uno dei quattro malesi che avevano condotto Nasumbata fino all’attap e che erano rimasti fuori di guardia.
«Avete salvato la scorta delle armi?» gli chiese.
«Sì, capitano. Abbiamo due casse d’armi da fuoco».
«Bene, dammi la tua carabina».
Avutala, Sandokan la porse al negrito, dicendogli: «Ecco un’arma che vale meglio di tutte le sumpitam dei dayaki, perché uccide a lunga distanza. I miei uomini t’insegneranno ad adoperarla. Tu sei un valoroso e te lo dice un tuan-uropa».
«Tu sei grande, orang» rispose il negrito con voce commossa. «Quando vorrai prenderti la mia testa, non opporrò alcuna resistenza».
«Non so che cosa farne io delle teste» disse Yanez scoppiando in una risata.
«Non sono già un collezionista arrabbiato come quei birbanti di dayaki.
Conservala sul tuo collo più che puoi».
Era mezzodì, l’ora della colazione.
Sapagar, che conosceva benissimo le abitudini del suo terribile padrone, aveva inviato alcuni malesi nelle vicine foreste, appoggiati da una forte scorta di assamesi, e aveva fatto fare un’ampia raccolta di frutta, non potendo a quell’ora così calda contare sulla selvaggina.
Sandokan, Yanez e i loro due compagni, già per natura molto sobri, fecero buon viso ai durion, ai pombo, alle banane ed ai manghi, poi, dopo aver scambiate quattro chiacchiere ed aver raccomandato ai malesi di quarto di non perdere di vista un solo istante Nasumbata, si sdraiarono sui soffici e profumati strati di foglie, avendo ormai deciso di non mettersi in marcia che dopo il calare del sole, anche per essere al sicuro da un ritorno offensivo da parte dei dayaki, che non era improbabile, essendo guidati dal vendicativo greco.
La giornata passò invece senza il menomo allarme.
I selvaggi cacciatori di teste, pienamente sconfitti, dovevano aver preso il largo, per preparare forse nella sterminata foresta qualche nuovo agguato.
Appena tramontato il sole, malesi ed assamesi sgombrarono la collina per cominciare l’avanzata verso il lago.
La grande caverna bruciava ancora con furia spaventosa, disseccando rapidamente le erbe e le piante che crescevano sulla collina.
Dai due fori e dalla spaccatura che serviva d’entrata, masse di vapore pestilenziali sfuggivano, sibilando sinistramente.
Nell’interno si udivano, di quando in quando, dei rombi formidabili come se le pareti, calcinate dallo zolfo, precipitassero.
Sapagar aveva organizzata una forte avanguardia, formata da una ventina d’uomini fra malesi e assamesi, appoggiata da due spingarde, ormai particolarmente temute dai dayaki, per gli uragani di chiodi che scaraventavano.
Il negrito, che aveva assicurato di conoscere perfettamente la grande foresta, era con loro.
Gli altri seguivano in due file indiane, portando le munizioni, le armi di ricambio, le due altre spingarde e Nasumbata, la cui gamba non era ancora guarita.
Sandokan e i suoi amici precedevano le due colonne, dietro l’avanguardia, fumando tranquillamente e chiacchierando allegramente.
Rotti a tutte le avventure, avevano ormai dimenticato il terribile momento passato nella caverna ardente.
La foresta si presentava foltissima e quanto mai intricata. Erano sopratutto i rotang e le altre piante parassite che, unite alle smisurate radici sorgenti dal suolo, rendevano la marcia difficilissima. I venti parang dell’avanguardia non rimanevano un solo istante inattivi e tagliavano rabbiosamente tutti quegli ostacoli i quali potevano anche offrire delle magnifiche imboscate ai dayaki, più abituati a queste che a combattere in campo aperto.
A mezzanotte, quando la luna illuminava maestosamente la grande foresta, la colonna fece una sosta in mezzo a una piccola radura, dopo aver spinto delle sentinelle in varie direzioni, per garantirsi da qualche improvviso attacco.
Il riposo però non fu turbato né da parte dei nemici, né da parte delle belve, quantunque si fossero uditi a non molta distanza gli impressionanti “ha-hug” delle tigri malesi, non meno pericolose e non meno astute di quelle indiane, e i rauchi brontolii di qualche pantera nera.
«Questa calma m’inquieta più d’una scarica di carabine» disse Yanez a Sandokan nel momento in cui la colonna si riordinava per riprendere la marcia.
«Mi pare impossibile che il greco abbia rinunciato così presto a tormentarci e che i dayaki, che sono così amanti delle imboscate, abbiano abbandonato definitivamente la grande foresta».
«Io sono sicurissimo che ci seguono» rispose la Tigre della Malesia. «Vedrai che prima o poi li incontreremo. Il rajah del lago ha tutto l’interesse ad arrestarci, prima che noi giungiamo alle frontiere del suo regno. Forse non tutte le tribù gli sono fedeli, e qualcuna o molte potrebbero rammentarsi di mio padre, del loro vecchio rajah, e di me».
«Tu speri in una insurrezione?» «Io per ora non conto che sui nostri uomini e sulle nostre armi e non faccio assegnamento su nessuno. Vedremo che cosa accadrà, però, quando io griderò sul viso dei dayaki del lago: “Venite a combattere contro il figlio di Kaidangan, se osate”. Io spero che non abbiano ancora dimenticato il nome di mio padre».
«Che succeda ciò che è successo nell’Assam?» «Lo spero» rispose Sandokan con voce sorda. «Io peraltro sarò meno generoso di te e di Surama, perché non lascerò fissa sulle sue spalle la testa dell’uomo che ha distrutto la mia famiglia e che mi rubò il regno».
«Non vorrei trovarmi nei panni di quel povero rajah».
«Tu sai che qui le vendette sono terribili».
«Sfido io!… Siamo nel paese dei tagliatori di teste!…» La colonna si era rimessa in cammino, aprendosi un solco profondo attraverso l’interminabile foresta.
Procedeva sempre nel medesimo ordine: venti uomini dinanzi, appoggiati da due spingarde e gli altri dietro, su due file, colle carabine montate, pronti a rispondere a qualsiasi attacco e a mitragliare uomini e alberi insieme.
La foresta pareva che si fosse improvvisamente ridestata. Mille strani rumori si propagavano sotto le volte di verzura.
Degli animali, che non si potevano ben distinguere, essendo ormai la luna tramontata, fuggivano follemente dinanzi all’avanguardia, spezzando rumorosamente dei rami; più lontano rane e ranocchi cantavano a squarciagola o risuonavano i lugubri e paurosi “ha-hug” delle tigri in cerca di preda o i fischi stridenti dei rinoceronti.
Ma la colonna però continuava tranquillamente la sua marcia, senza impressionarsi della presenza di tutte quelle bestie.
Solamente i dayaki la impressionavano un po’, potendo darsi benissimo il caso che avessero preparato qualche agguato, per arrestarla. Quei timori non erano d’altronde infondati. Camminava da due ore, sempre abbattendo piante, quando il negrito che la guidava si arrestò bruscamente, gridando: «Fermi tutti!… Che nessuno faccia un passo innanzi!…» Yanez e Sandokan, vedendo fermarsi l’avanguardia, si erano subito spinti innanzi.
«Che cosa c’è dunque?» chiese il primo.
«I dayaki sono passati per di qua e hanno scavata una trappola» rispose il figlio delle foreste.
«Una trappola!…» «Non mettere il piede su questo pezzo di terreno, orang. Sotto vi è il vuoto».
«Come lo sai tu?» Il negrito, invece di rispondere, prese un grosso ramo che si trovava accanto a lui, schiantato probabilmente da qualche impetuoso colpo di vento, e lo scagliò a terra.
Nel suolo si manifestò subito uno strappo, e il ramo scomparve entro una profonda escavazione.
«Hai veduto, orang?» chiese il negrito, con un sorriso di trionfo.
«Quella era una bocca di lupo» disse Yanez. «Credi che sia stata scavata per noi o per farvi cadere dentro qualche bufalo o qualche rinoceronte?» Il negrito si curvò, strappò alcune canne che erano state gettate sopra la buca, affinché mascherassero la trappola e ne addentò una, senza nemmeno pulirla dalla terra che in parte l’avvolgeva.
«Canna fresca» disse poi. «Questa trappola è stata preparata poco fa. E certo l’hanno preparata i dayaki».
«Che quei bricconi abbiano indovinata la nostra direzione?» si chiese Sandokan, il quale appariva non poco preoccupato.
«Sei ben sicuro, amico», domandò Yanez, «che questa trappola sia stata preparata dai dayaki per farci cadere dentro?» «Mi sarebbe necessaria una torcia» rispose il negrito.
«Sapagar!…» gridò Sandokan. «Cercaci un ramo resinoso e accendilo. Ne abbiamo bisogno».
Il luogotenente lanciò dieci o dodici uomini a destra e a sinistra, e dopo qualche minuto accorse, portando una fiaccola vegetale la quale bruciava forse meglio d’una torcia a vento.
«Eccola, capitano» disse.
Il negrito la prese, strisciò con precauzione fino all’orlo della trappola, tastando con una mano il terreno per paura che vi fossero nascoste delle punte di freccia avvelenate coll’upas o col cetting, poi guardò il fondo.
«Dunque?» chiese Yanez.
«Non vi è che un palo piantato» rispose il negrito.
«E vuol dire?» «Che questa è una trappola preparata per la grossa selvaggina e non già per gli uomini. Non devono essere stati i dayaki quelli che l’hanno scavata».
«E chi?» «Forse i miei compatrioti» disse il negrito. «Siamo già a non molta distanza dal villaggio».
«Allora possiamo ripartire» disse Sandokan.
«Sì, orang».
«Quando potremo giungere al tuo villaggio?» Il negrito guardò le stelle, pensò qualche momento, poi rispose: «Prima che il sole sorga».
«Avanti!…» comandò la Tigre della Malesia ai suoi uomini, i quali sorvegliavano attentamente i due margini della foresta, tenendo un dito sul grilletto delle carabine.
Per la terza volta la colonna riprese le mosse, sempre nel medesimo ordine.
Sandokan e Yanez si erano messi questa volta alla testa della colonna, malgrado le ardenti rimostranze di Sapagar, il quale temeva di veder giungere addosso ai due capi una volata di frecce avvelenate.
Ma vi era il negrito che vegliava, un uomo che, abituato a vivere nelle foreste e sempre all’erta, valeva più d’un cane da guardia.
Cominciavano a diffondersi in cielo i primi riflessi dell’alba, quando il figlio delle foreste si fermò bruscamente, imboccò l’angilung che non aveva mai abbandonato e lanciò nello spazio alcune note acutissime.
«Che cosa fai?» gli chiese Yanez, sempre sospettoso.
«Siamo giunti al mio villaggio, orang», rispose il piccolo uomo «e sveglio i miei sudditi. Guarda lassù, su quegli alberi, li vedi?»

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