Capitolo V Il puram del re

L’ultimo dei S’hen-mheng era appena spirato e Lakon-tay era appena uscito per recare al re la triste notizia, quando un uomo, approfittando della commozione generale che regnava nella sala degli elefanti, usciva inosservato per una porticina che metteva dietro le mura della cinta reale.
Quell’uomo era uno dei servi incaricati di vegliare l’ultimo S’hen-mheng, e che nel momento in cui Lakon-tay manifestava al mahut favorito i suoi sospetti, si era trovato così vicino a loro da non perdere una sola parola.
Camminava rapidamente lungo la cinta, guardandosi di frequente alle spalle, come se temesse di essere seguito da qualcuno, e pareva in preda ad un profondo orgasmo.
I suoi occhi obliqui, che tradivano in lui un Cambogiano, scrutavano i viali, e la sua pelle giallastra diventava livida al minimo rumore.
Giunto presso una delle tante porte della cinta, trasse dalla sua larga fascia una chiave e l’aperse con precauzione.
Al di fuori un giovane dalla pelle scurissima pareva lo attendesse, tenendo per la briglia uno di quei piccoli e ardenti cavalli del paese, bardati all’orientale, con staffe corte e larghe e gualdrappa rossa e infioccata, trapunta in oro.
“È in casa il tuo padrone?” chiese il servo con precipitazione.
“Sì, e ti attende,” rispose il giovane.
Con un salto il servo fu in sella e raccolse le briglie, dicendo:
“Lascia andare”.
Il cavallo, sentendosi libero, partì di carriera, sollevando un nembo di polvere.
L’uomo seguì per qualche chilometro la cinta del palazzo reale, poi si slanciò fra le tortuose e fangose vie della vecchia città, atterrando tre o quattro passanti che non avevano avuto il tempo di evitarlo, finché sbucò sul gran viale costeggiante il Menam, fiancheggiato da bellissime phe colle verande illuminate da enormi lanterne cinesi, di carta oliata variopinta o coi vetri di talco.
Il Cambogiano lo lasciò galoppare per alcune centinaia di metri, poi con una violenta strappata lo arrestò dinanzi ad una phe grandiosa, d’architettura cinese, coi tetti arcuati ed irti di punte e di comignoletti scintillanti d’oro.
Alcuni servi, sfarzosamente vestiti di seta gialla a fiorami di vari colori, stavano chiacchierando e masticando del betel sulla gradinata marmorea della palazzina.
“Il vostro padrone?” chiese il Cambogiano, balzando a terra con un’agilità da cavallerizzo perfetto.
“È nel suo gabinetto,” rispose un valletto.
“Solo?”
“Solo: devo annunziarti?”
“Non occorre: ho troppa premura.”
Entrò, salendo una gradinata di legno di tek, coperta da tappeti di feltro variopinti e colle ringhiere di metallo dorato e, senza nemmeno bussare, aperse una porta di ebano con laminette d’argento.
In un elegante salotto, tappezzato tutto in seta cinese ricamata in rosso, un uomo stava sopra un immenso cuscino, fumando una pipa formata da una conchiglia, dal cui camino si sprigionavano nuvolette di fumo oleoso e punto profumato.
Era un uomo piuttosto obeso, interamente calvo, fra i quarantacinque ed i cinquant’anni, dalla fronte bassa, gli zigomi assai sporgenti, gli occhi obliqui come quelli dei Cinesi e la pelle giallastra.
In tutta la sua persona c’era un non so che di falso e di ripugnante, malgrado la ricchezza delle sue vesti di seta azzurra cosparse di rubini e di perle, le collane che dovevano costare dei tesori, ed il sorriso che non abbandonava mai le sue labbra.
Vedendo entrare il servo dell’elefante bianco, si levò di colpo, esclamando:
“Tu, Kopom!…”
“Io, signore.”
“Il S’hen-mheng?”
“Morto or ora.”
Un sorriso di gioia feroce comparve sulle labbra dell’uomo grasso.
“Sono finalmente vendicato!” esclamò con voce giuliva. “Ah! Lakon-tay ha osato respingere la mano di Mien-Ming, il possente puram del re! Mi conosceva troppo male quell’imbecille. Credeva di essere invulnerabile, ed è caduto come un colosso d’argilla.
Non si offende impunemente un uomo par mio, e Len-Pra un giorno, dovessi travolgere nella rovina tutto il Siam, sarà mia.
Folle! Sfidare la mia collera! Non basta il coraggio: ed ecco la sua fama compromessa, la sua popolarità perduta, il suo onore fatto a pezzi, mentre avrebbe potuto diventare potente quanto me.
L’offesa che m’ha fatto la pagherà cara e Len-Pra piangerà lacrime di sangue!
Come era, quando è uscito per recarsi dal re?”
“Irriconoscibile, mio signore,” rispose il Cambogiano.
“Che scoppio di collera da parte del re!” disse Mien-Ming, con un brutto sorriso. “Me la immagino la scena. Il mio veleno non doveva fallire nemmeno contro l’ultimo dei S’hen-mheng.”
“Un veleno terribile, signore.”
“Ho chiuso io stesso, entro un bambù del mio giardino, il più alto ed il più grosso, il baffo d’una tigre, ed ho spremuto colle mie dita il liquido del verme che era nato. Non mi sono però accontentato di questo, e vi ho unito una forte dose d’un veleno vegetale che avevo raccolto nei nostri boschi della Cambogia.
Nessuno avrà avuto alcun sospetto, è vero, Kopom?”
A quelle parole il viso del Cambogiano si rannuvolò, e il suo turbamento non sfuggì allo sguardo acuto del puram del re.
“Mi sembri inquieto,” gli disse il gran giustiziere, con voce aspra. “Che cos’hai?”
“Lakon-tay non mi parve convinto che la morte dei S’hen-mheng fosse naturale,” rispose Kopom, con voce esitante.
“Che cosa ti ha detto?” chiese il puram, aggrottando la fronte.
“A me, nulla, ma ha manifestato dei sospetti parlando col mahut dell’elefante bianco.”
“Sospetta di me?”
“Oh no, signore, del re di Birmania.”
Mien-Ming scoppiò in una risata.
“Che imbecille! Tutti i prodi sono bambini! Il re di Birmania! E a quale scopo avrebbe fatto avvelenare i S’hen-mheng del re del Siam?”
“Per gelosia.”
“Ciò è cosa che non ci riguarda, vero, Kopom? Sono fedeli i tuoi complici?”
“Sono tutti Cambogiani, e non credono alle trasmigrazioni di Sommona Kodom.”
Il puram del re s’avvicinò ad un pesante mobile in legno di tek, una specie di forziere tutto intagliato e laminato in oro, aperse uno sportello e ne estrasse un sacchetto di pelle, che pareva pesantissimo.
Levò quattro verghe d’oro e le porse al Cambogiano, i cui sguardi erano diventati ardenti, al veder scintillare nelle mani del puram il fulvo metallo.
“Ecco qui mille tical che dividerai coi tuoi complici,” disse. “A più tardi il resto, giacché la vostra impresa non è ancora terminata. Un giorno tu sarai mandarino.”
“Non vi sono più S’hen-mheng da uccidere, mio signore!” disse Kopom.
“Ma vi è Len-Pra da rapire,” rispose Mien-Ming. “Credi tu che io non voglia raccogliere i frutti della mia vendetta?”
“Dovremo uccidere il generale?”
“No, almeno per ora. Mi basta allontanarlo.”
“Che cosa devo fare?”
“Recarti alla pagoda di vot-baromanivet e avvertire Kodom di recarsi qui all’istante. Prenderai una lettiga con otto servi.
Faremo fare della strada a quel bravo talapoino, giacché ambisce di diventare il capo della comunità!
Fa’ presto: quell’uomo mi preme.”
Kopom mi mise nella cintura le verghe d’oro, fece al briccone un profondo inchino e uscì correndo.
Non erano trascorsi venti minuti, quando Mien-Ming, che si era ricoricato sul largo cuscino di seta, riaccendendo la sua pipa carica d’oppio e sorseggiando una tazza di tè bollente, udì il gong sospeso alla porta risuonare fragorosamente.
“Deve essere quel bravo talapoino,” mormorò. “Che gambe ha quel Kopom!”
Si alzò posando la pipa su una mensola d’argento e si diresse verso la porta, mormorando fra sé:
“Riceviamolo degnamente, quantunque lo ritenga un briccone mio pari.”
Un uomo magrissimo, col viso incartapecorito e rugoso, entrò, facendo un profondo inchino e dicendo con una voce fessa, punto piacevole:
“Che Sommona Kodom guardi il puram del re.”
Quell’uomo aveva il capo scoperto e privo di capelli, i piedi nudi; il suo corpo era avvolto in tre pezzi di seta gialla, il colore riservato al re: il primo gli avviluppava il braccio sinistro e metà del corpo fino alla cintura, lasciando nudo il braccio destro: il secondo dalla cintura gli scendeva fino ai polpacci delle gambe: il terzo invece gli avvolgeva le reni come una larga fascia e sosteneva una lunga corona formata di cento e otto globetti, di cui si servono tutti i talapoini per recitare le loro preghiere in lingua bali.
Oltre ad aver il capo rasato, aveva così anche la faccia e perfino le sopracciglia.
I talapoini sono monaci buddisti e, soprattutto nel Siam, formano delle corporazioni potentissime e assai rispettate non solo dal popolo e dai grandi, ma anche dallo stesso re: posseggono un numero infinito di val, ossia di conventi, che racchiudono dei tesori favolosi.
Ve ne sono di parecchi ordini, e tutti devono vivere di carità e mendicare ogni giorno alle porte dei ricchi e anche dei poveri; e non tornano mai ai loro monasteri a mani vuote, anzi sempre carichi come muli, giacché nessuno oserebbe rifiutare a così santi uomini una moneta o del riso od altro.
Ricevono poi offerte dai grandi e dallo stesso re, il quale anzi tutti i giorni accoglie i monaci della pagoda di Mong-kut, che formano fra i talapoini una specie di aristocrazia, e che devono venire nutriti a spese della corte.
Il talapoino che era entrato nel salotto di Mien-Ming non era un monaco qualunque, anzi per i suoi meriti e per le sue virtù era stato innalzato alla carica di sancrato, titolo che corrisponderebbe alla dignità di vescovo, e ne portava le insegne dorate sul talapa che teneva in mano, una specie di ventaglio di seta gialla, che quei religiosi portano sempre con sé, onde coprirsi il viso ogni volta che incontrano delle donne.
“Che cosa desideri da me, puram?” chiese il monaco, dopo essersi seduto su un seggiolone di bambù, offertogli premurosamente da Mien-Ming.
“Sai, sancrato, che il S’hen-mheng è morto?”
“L’ho appreso or ora e non puoi immaginarti, puram, il dolore immenso che mi ha cagionato quella notizia.”
“Ed a me del pari,” disse il puram sospirando, “e prevedo che gravi disgrazie colpiranno il nostro povero paese, se non si troverà qualche altro S’hen-mheng che incarni l’anima di Sommona Kodom.”
“Possibile che non ne esista più alcuno nelle folte foreste del settentrione? Che il nostro paese sia stato maledetto?”
“Tutte le spedizioni organizzate dal re sono tornate a mani vuote, e temo anch’io che qualche possente stregone o qualche genio malvagio abbia gettato la jettatura sul regno.”
“Qualche naghar?”4
“O una di quelle terribili garude5 di cui parlano le nostre storie e i nostri libri sacri; a meno che…”
“Parla, puram,” disse il talapoino.
“La notte di ieri io l’ho trascorsa pregando dinanzi alla statua di Sommona Kodom, nella pagoda di vat-scetuphon, affinché il dio m’indicasse il luogo dove potessi trovare un altro S’hen-mheng e salvare così il regno dai disastri che non tarderanno a colpirlo.”
“E te lo ha indicato?” chiese il talapoino, con ansietà.
“Tornando a casa verso l’alba, mi sono sentito cogliere da un sonno irresistibile e poco dopo m’è apparso in sogno Sommona Kodom.”
“Il dio?”
“Sì.”
“E ti ha parlato?”
“Mi ha parlato,” rispose il puram imperturbabile. “Egli montava una gigantesca garude dalle penne d’oro, col rostro e gli artigli di rubini e gli occhi di fuoco.
M’invitò a salirvi, dicendomi:
“Ti voglio condurre, giacché mi hai tanto pregato, in un luogo ove tu troverai il driving-hook6 che io ho sepolto prima di abbandonare la terra, e senza il quale non si potrà trovare alcun elefante bianco”.
Poi l’aquila riprese il volo con rapidità prodigiosa; seguendo il corso del Menam, finché si librò sopra una città semidiroccata, con alte cupole e porticati immensi, popolata solamente da pipistrelli.”
“Ecco dove si trova il driving-hook”, mi disse allora il dio. “Cercalo, perché senza quello il Siam non avrà mai alcun S’hen-mheng.”
Poi scomparve, senz’altro aggiungere.”
Mien-Ming tacque un momento, poi, volgendosi verso il monaco, che pareva lo ascoltasse ancora, gli chiese:
“Tu che sei fra tutti i sancrati il più istruito e che conosci tutti i libri antichi hai mai udito parlare di una città simile?”
“Sì, i libri fanno menzione di quattro grandi città, cadute in rovina da secoli e secoli, e che sarebbero state popolate un giorno da un popolo immenso, e narrano che in una di esse sarebbe stato veramente sepolto il driving-hook di Sommona Kodom, dopo la sua ultima trasformazione.”
“Anch’io ho udito, nella mia gioventù (quando non ero ancora sceso nel Siam, perché sono Cambogiano), parlare di rovine imponenti e soprattutto d’una immensa città, che si dice fosse stata eretta da un re lebbroso.”
“Dove si troverebbe quella città?” chiese il monaco.
“Ho udito parlare del lago misterioso di Tuli-Sap,” disse il Cambogiano.
“Se Sommona Kodom ti ha ispirato, tu devi parlare subito al re, onde si organizzi una spedizione che vada a cercare nella città del re lebbroso il driving-hook.”
Il puram scosse la testa, poi fissando sul monaco, che lo guardava con stupore, i suoi occhi obliqui dal lampo giallastro, gli disse:
“Tu che sei uomo di religione, credi che Sommona Kodom mi sia apparso in sogno per indicarmi veramente il modo con cui il Siam potrà riavere i S’hen-mheng?”
“Sì, giacché tu lo avevi pregato una notte intera.”
“Ebbene, io dò a te l’incarico di recarti dal re e di dirgli che Sommona Kodom ti è comparso in sogno. Tu, ministro della religione, sarai meglio creduto di me.”
“Ma tu, puram, rinunci agli onori che ti spetterebbero se il driving-hook si trovasse.”
“Li cedo a te, quegli onori; io ne ho avuti abbastanza.”
Il monaco cadde in ginocchio dinanzi al puram, esclamando:
“Tu sei l’uomo più generoso che io abbia conosciuto sulla terra. Che cosa potrò fare per te?”
“Salvare Lakon-tay e stornare dal suo capo la collera del re. Non voglio che quel prode cada in disgrazia,” disse il Cambogiano, fingendo una profonda commozione.
“In qual modo?”
“Consigliare il re a mandare Lakon-tay in cerca del driving-hook. Se egli lo trova, come spero, perché anch’io non dubito che Sommona Kodom m’abbia indicato il luogo dove è sepolto, la sua riabilitazione sarà completa.”
“Oh, uomo generoso! Tu sei il più leale e il più cavalleresco puram del regno!” esclamò il talapoino.
“Va’, un palanchino t’aspetta alla porta della mia casa ed il re a quest’ora non deve essersi ancora coricato. Conto su di te e sulla tua segretezza, sancrato.”

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