Capitolo X L’audacia d’un carnivoro

L’indomani, il balon riprendeva la sua corsa verso il settentrione, filando fra due rive assai sinuose, coperte da una vegetazione meravigliosa e svariata, che serviva d’asilo a miriadi di uccelli ed a battaglioni di lucertole volanti.
Superbi banani dalle foglie immense formavano dei gruppi enormi e pittoreschi, crescendo accanto a macchie di mangostani, di artocarpi che si piegavano sotto il peso delle loro frutta rugose e grossissime, di durion altissimi, di tonki dalla cui corteccia i Siamesi ottengono un’ottima carta, di faang che somministrano una bellissima tintura rossa e di tek, i quali però non raggiungevano ancora le dimensioni straordinarie dei loro confratelli del settentrione. Di quando in quando apparivano delle risaie immense, tagliate con cura a quadri, oppure delle piantagioni di canne da zucchero; ma poco dopo la foresta riprendeva il suo impero.
Numerosi volatili svolazzavano fra albero ed albero od attraversavano velocemente il fiume, facendo brillare al sole le tinte vivaci delle loro penne. Erano piccioni rossi, più grossi e anche più squisiti dei nostri; caipha, chiamati, per la bellezza delle loro penne, galline del cielo; tortore, gru e aironi, ed altri ancora che il dottore non aveva mai veduto.
Di tanto in tanto, un baccano assordante rompeva improvvisamente il silenzio che regnava sulla grande fiumana: erano urla, strida, sghignazzamenti, fischi prolungati, poi latrati rauchi. Una banda di macachi nemestrini, disturbata nei suoi saccheggi dall’improvviso apparire del balon, si rifugiava precipitosamente sulla cima degli alberi costeggianti il fiume, e di là sfogava il suo malumore con grida discordi, con boccacce e con una tempesta di frutta, per sparire poco dopo nel folto della foresta, al primo colpo di fucile che sparava il dottore.
Il bravo giovane non perdeva inutilmente il suo tempo. Seduto a prua, a fianco di Len-Pra che era armata d’una leggera ed elegante carabina indiana, di quando in quando tirava qualche colpo contro gli aironi e le gru, che attraversavano il fiume e di rado li mancava, facendo stupire la figlia del generale colla precisione dei suoi tiri.
“Che cacciatore!” esclamava la leggiadra fanciulla con sincera ammirazione. “Io non potrò mai eguagliarvi.”
“Eppure anche poco fa mi avete dato un saggio della vostra valentia, Len-Pra,” rispondeva il dottore. “Avete fulminato, a ottanta metri, quella bella gru coronata che Feng sta spennacchiando.”
“Un caso, dottore.”
“E quell’airone che avete abbattuto poi, a cinquanta metri? Poche donne, credetelo, Len, saprebbero fare altrettanto.”
“Anche le europee?”
“Meno ancora.”
“La campagna contro gli Stienghi mi ha agguerrito,” rispose la fanciulla.
“E chi vi ha insegnato a colpire così bene?”
“Feng.”
“Un uomo di guerra?”
“Quei selvaggi non conoscono troppo le armi da fuoco e preferiscono l’arco. Ma, quando hanno una carabina fra le mani, non c’è nessuno che li eguaglia nell’esattezza del tiro, e mio padre lo ha esperimentato. Quante crudeli perdite ha subito laggiù, dopo l’introduzione delle armi che tuonano. I Siamesi che egli conduceva alla vittoria lo sanno.”
“E Feng?”
“È un tiratore meraviglioso,” rispose Len-Pra. “A cento metri attraversa una noce di cocco.”
“Vorrei fare qualcosa di simile anch’io,” disse il dottore.
“Fucilate le gru a cento metri: che cosa vorreste di più?”
“E fucilerei volentieri quella barca che va alla deriva,” disse Roberto, che si era improvvisamente alzato. “Devono vedere gli ombrelli, eppure non ci lasciano il passo libero.”
“Quella grossa scialuppa?”
“Si direbbe che voglia investirci.”
“Il battelliere si sarà addormentato.”
Feng fece echeggiare la campana sospesa sull’asta di poppa, ma nessuno rispose a quell’avviso.
Una grossa barca, coperta da una tettoia di foglie di banano e di areca che riparava forse qualche carico di riso o di frutta, era comparsa ad una svolta del fiume, e scendeva a casaccio, col pericolo d’investire le scialuppe che in quel momento salivano o scendevano la corrente essendovi un villaggio in vista.
Il generale, che stava masticando un po’ di betel sotto il baldacchino, avvertito del pericolo che minacciava il balon, si alzò, dirigendosi a prua.
“Si direbbe che quella scialuppa sia stata abbandonata dal suo equipaggio,” disse. “Se così non fosse, la vista degli ombrelli la farebbe deviare. Dottore, vedete nessuno a bordo?”
“No,” rispose Roberto, che teneva sempre la carabina in mano, in attesa di fare un buon colpo contro le gru e gli aironi.
“Nemmeno tu, Len?”
“No, padre,” rispose la fanciulla.
“Se nessuno la guida, finirà per spaccarsi contro la riva o contro qualche banco. Che il suo equipaggio si sia ubriacato di toddy?”
Feng, che già aveva molte difficoltà a mantenere il balon sulla buona via, a causa della violenza della corrente che si faceva sentire molto forte in quel luogo, si mise di nuovo a battere furiosamente la campana, e nemmeno questa volta ottenne risposta.
Anche gli equipaggi di altre due grosse barche che si erano staccate dalla riva, dove avevano caricato delle canne da zucchero, e che fiancheggiavano il balon, avevano suonato invano le loro campane.
“Quella barcaccia deve aver spezzato l’ormeggio mentre i battellieri erano a terra,” disse il dottore. “Se vi fosse qualcuno a bordo, anche se fosse addormentato con tutto questo fracasso si sveglierebbe.”
“Feng, disse il generale,” passa a babordo e accosta la riva più che puoi. Il fiume descrive una curva qui e la corrente si farà sentire più forte.”
“Vuoi accostare quella barca, padrone?”
“Se è possibile, sì,” rispose il generale. “Andremo a vedere se l’equipaggio è ubriaco o morto.”
La barca, che pareva fosse eccessivamente carica, non era che a duecento metri, e scendeva il fiume un po’ sbandata a tribordo.
Il dottore, che era salito sull’alta prua del balon per meglio osservarla, a un tratto mandò un grido d’orrore.
“Che cosa avete, signor Roberto?” chiese Len, vedendolo impallidire.
“Vi sono dei morti su quella scialuppa,” rispose l’italiano.
“Dei morti!” esclamò Lakon-tay, raggiungendolo.
“Vedo i cadaveri, orrendamente dilaniati, di tre fanciulle.”
“Che i pirati abbiano assalito quelle disgraziate per saccheggiare la scialuppa?”
“E che vedendoci comparire si siano nascosti nella stiva?” aggiunse Len.
“Feng, la mia carabina,” gridò il generale.
Lo Stiengo gliela aveva appena portata, quando una bestiaccia dal mantello giallastro variegato di nero balzò fuori con uno slancio immenso da un ammasso di canne da zucchero che occupavano la poppa della scialuppa abbandonata, saltando sulla tettoia.
I battellieri del balon, vedendola, abbandonarono precipitosamente i remi, rovesciandosi attraverso i banchi.
“L’ong-unap!” urlarono, pazzi di terrore. “In acqua!”
“Fermi tutti!” gridò il generale. “Chi fugge è uomo morto!”
La belva che era balzata sulla tettoia della scialuppa era una superba tigre reale, di dimensioni straordinarie.
Come si trovava su quella barca? Probabilmente, spinta dalla fame, vedendola passare a breve distanza dalla riva, fra le cui canne doveva tenersi imboscata, aveva spiccato un salto ed era piombata sulle tre fanciulle che stavano remando. Il caso veramente non era nuovo.
Il dottore, Lakon-tay e Len, quantunque fossero armati di carabine caricate con palle coniche di piombo indurito, erano rimasti così sorpresi da quella inaspettata comparsa, da dimenticarsi lì per lì di servirsene.
Quella breve esitazione fu una vera fortuna pel terribile carnivoro. Con uno scatto improvviso si slanciò sul balon che era distante soli pochi metri, cadendo sui banchi di mezzo, poco prima abbandonati dai battellieri; poi con un secondo salto, più lungo del primo, si slanciò su una delle due barche che seguivano a brevissima distanza quella del generale, radendo quasi la riva.
Con un colpo di zampa atterrò il timoniere, senza fargli troppo male, poi si scagliò senza fermarsi sulla seconda barca, e finalmente, con un ultimo e più agile salto toccò la riva, cadendo in mezzo alle macchie di canne che crescevano numerose in quel luogo.
Il dottore, Lakon-tay e Len, dopo il primo istante di stupore, d’altronde naturalissimo, scaricarono le loro carabine quasi macchinalmente, senza mirare, ma ormai la fortunata belva era scomparsa nella vicina foresta, mandando un rauco a-ugh.
“Scappata!” gridò il dottore, gettando via con dispetto il fucile.
I battellieri, rimessisi dal loro spavento, abbordarono la scialuppa abbandonata che stava per investire il balon.
Un orribile spettacolo si offerse ai loro sguardi.
Sui banchi di prua giacevano tre giovani donne Siamesi atrocemente mutilate dai denti e dalle unghie della sanguinaria belva. Una mancava del braccio destro, che doveva aver servito di pasto alla tigre affamata, un’altra aveva la testa stritolata e in parte rosicchiata, e la terza il petto squarciato da un tremendo colpo d’artiglio.
“Una vera strage,” disse il dottore, che era salito a bordo della barca. “Il medico più abile non potrebbe ormai fare più nulla per quelle disgraziate.”
“Ma è impossibile che fossero sole,” disse Lakon-tay. “Assieme a loro ci sarà stato qualche fratello o padre.”
“Che la tigre abbia divorato quel disgraziato?”
“No, io suppongo che quel povero uomo, vedendo piombare a bordo la tigre, si sia salvato a nuoto.”
“Senza tentare di difenderle!” esclamò Len.
“Sarà stato senz’armi,” rispose Lakon-tay. “Nulla avrebbe potuto fare contro una simile belva, che affronta coraggiosamente anche gli uomini meglio armati.”
“Lasceremo andare questa barca alla deriva?” chiese il dottore.
“La faremo rimorchiare fino a quel villaggio che sorge là, sul margine della foresta,” rispose Lakon-tay.
Gli altri due barconi erano giunti. Feng, per ordine del generale, incaricò gli equipaggi di condurre la scialuppa fino al villaggio e di fare delle ricerche sul suo proprietario.
Vedendo i due ombrelli che si rizzavano a fianco del baldacchino e soprattutto il cerchio d’oro che Lakon-tay portava sull’alto cappello conico, essi si guardarono bene dal rifiutarsi di eseguire l’ordine.
Legarono la scialuppa e ripresero lentamente la salita del fiume, mentre il balon si allontanava rapidamente sotto la spinta dei suoi numerosi remi.
“Un bel caso,” disse il dottore. “Non avrei mai creduto di trovare un simile animale così vicino alla capitale.”
“Non c’è da stupirsi,” rispose Lakon-tay. “Che cosa volete? Qui le tigri sono troppo rispettate, sicché invece di diminuire come nell’India, aumentano sempre.”
“Le tigri sono rispettate?” esclamò il dottore.
“E come! Trovatemi un contadino che osi affrontare la signora tigre che gli decima il bestiame! Anche se avesse a sua disposizione dieci carabine, non oserebbe farle fuoco addosso.”
“Che manchino di coraggio i vostri compatrioti, al punto di lasciarsi depredare e anche mangiare?”
“Tutt’altro, dottore, e ve lo dimostrerò subito con alcuni esempi. Gli è che rispettano troppo le tigri, forse per la loro forza e per la loro ferocia.
Vi stupirà forse, eppure qui da noi, come nella vicina Birmania e anche nel Tonchino e nella Cambogia, la gente invece di tentare di distruggere quei malefici animali, cerca di propiziarseli.”
“E in qual modo?”
“Parlando delle tigri con profondo rispetto e anche un po’ adorandole.
Entrate in una casa di contadini e troverete sempre l’immagine d’una tigre dipinta od appesa a qualche parete. Ma non è tutto: si fanno perfino, in suo onore, dei sacrifici propiziatori, e quando la si nomina non si manca mai di chiamarla “la signora tigre” per paura che altrimenti si offenda.”
“Se queste cose me le raccontasse un altro, parola d’onore che non vi presterei fede,” disse Roberto.
“Eppure è così, dottore.
“Sicché, se una tigre assale uno di quei poveri diavoli…”
“Non vi dirò che non si difendano, però cercano di fare alla belva il minor male possibile e poi di scusarsi.”
“Ah! generale!” esclamò Roberto.
“Non mi credete? Ora vi narrerò un fatto occorso nel paese degli Stienghi, quando combattevo contro quelle tribù selvagge e bellicose.
Un indigeno che aveva preso ai miei servizi, sapendo che io desideravo delle canne da zucchero, che non si trovavano nei dintorni, un giorno, avendone scorte alcune in una palude, lasciò il drappello che io guidavo per andare a raccoglierne.
Era uno Stiengo assai robusto e anche assai coraggioso, che aveva già dato molte prove di valore in parecchi scontri. Disgraziatamente quel giorno non aveva preso con sé la carabina, che io gli avevo regalato per ricompensarlo dei suoi preziosi servizi.
La palude era pessima e il fango così tenace, che gli riusciva assai penoso l’avanzarsi. Nondimeno aveva raggiunto il gruppo di canne da zucchero che cresceva su un minuscolo isolotto, quando tutto d’un tratto si vide piombare addosso una tigre enorme.
Come vi dissi, lo Stiengo era un valoroso. Se non aveva la carabina non si era però dimenticato di portare con sé uno di quei larghi coltellacci, a lama quadra, usati dai vicini Birmani.
Fece intrepidamente fronte al feroce carnivoro e si difese così bene, da troncargli una delle zampe anteriori e ferirlo gravemente al fianco destro. La belva, così mutilata, rotolò nel fango, dibattendosi disperatamente.
Un altro, vedendola in quelle condizioni, non avrebbe esitato a finirla! E invece, sapete che cosa fece lo Stiengo?”
“Le domandò perdono d’essere stato costretto a maltrattarla in quel modo,” disse il dottore, ridendo.
“Precisamente,” rispose il generale. “Invece di raccogliere le canne che aveva già tagliato e di lasciare prontamente la palude, quello stupido selvaggio si accostò alla belva, che ruggiva di dolore, dicendole:
“Perdonami di averti così mal conciata, ma la colpa non è mia. Perché volevi mangiarmi, mentre io ti ho sempre ricordato nelle mie preghiere e mai ti ho mancato di rispetto? Forse che nella mia capanna, sulla parete che fronteggia la porta d’ingresso, non vi è sempre appesa la tua immagine, e non t’ho io onorato con sacrifici ed offerte, secondo i vecchi usi del mio paese?”
E chissà quanto avrebbe continuato per discolparsi d’averla conciata in quel modo, quando la belva, che continuava a dibattersi in mezzo al fango, trovato un punto d’appoggio, con uno sforzo supremo ed uno scatto improvviso si slanciò sul suo feritore, lacerandogli orribilmente il braccio sinistro e tentando di stritolargli il capo fra le potenti mascelle.
Lo Stiengo, che infine non era così stupido da lasciarsi ammazzare solo per non attirarsi la collera delle altre tigri, perduta la pazienza le vibrò due altre coltellate, spaccandole il cranio.”
“E credo che fosse nel suo diritto,” disse il dottore.
“Guarì perfettamente bene delle sue ferite, ma visse in una continua angoscia, convinto che le sorelle della morta non avrebbero tardato a vendicarla,” disse Lakon-tay.
“E l’hanno mangiato davvero?”
“No, però due mesi dopo egli faceva l’incontro d’un’altra belva.
Una sera tornava dalle risaie per recarsi a casa. Era una sera oscura, pioveva a dirotto, e nella foresta che era costretto ad attraversare il vento ululava sinistramente, scuotendo fortemente i rami degli alberi.
Lo Stiengo cominciava a pentirsi di aver tardato tanto a far ritorno al suo villaggio, quando, giunto ad un certo punto del sentiero aperto nella foresta, vide coricata, proprio in mezzo a quel passaggio, una tigre.”
“M’immagino la paura che avrà provato quel pover’uomo,” disse Len, che ascoltava con vivo interesse quel racconto.
“Lo Stiengo quella sera era armato d’un fucile a due colpi; invece non aveva preso con sé la cartucciera. Non aveva quindi a sua disposizione che due sole palle, troppo poche, il più delle volte, per abbattere una tigre.
Nondimeno si fece coraggio e s’accostò alla tigre che non accennava ad andarsene, le fece un profondo inchino e le chiese umilmente il permesso di lasciarlo passare, aggiungendo che se la prima volta aveva ucciso la belva che lo aveva assalito nella palude, era stato costretto a farlo suo malgrado. La tigre lo ascoltò dimenando la coda e brontolando, senza però lasciare il sentiero.
Lo Stiengo invano ripeté la domanda, giurando su Budda d’aver sempre professato il massimo rispetto per la razza delle signore tigri, assicurando che si considerava come loro inferiore e servo umilissimo; ma senza ottenere miglior esito.
Lo Stiengo allora per la seconda volta perdette la pazienza. La notte diventava sempre più oscura e la pioggia scrosciava violentissima e, per giungere al villaggio, non vi era che quel sentiero aperto in mezzo a un caos di piante spinose.
Mise un ginocchio a terra, mirò attentamente per alcuni istanti, poi fece fuoco.
Quando, appena diradatasi la nuvoletta di fumo, vide la tigre sempre allo stesso posto, non osò sparare anche il secondo colpo e fuggì all’impazzata, tornando alla risaia, dove si costruì alla meglio un riparo con delle foglie d’areche. Allorché l’indomani, spuntato il sole, ritornò nella foresta, scoperse il cadavere della tigre.
La palla, per una fortunata combinazione, le aveva attraversato il cuore, e la feroce belva era stata fulminata sul posto.
Quel caso persuase il bravo Stiengo a non credere più alle storie che si narravano sulla invulnerabilità di quelle fiere. Stracciò l’immagine, non l’adorò più, soppresse i sacrifizi e… divenne il più temuto cacciatore di tigri della regione, tanto che il governatore dovette frenarlo, per timore che potesse servirsi dei baffi.”
“Dei baffi, avete detto!” esclamò il dottore, guardandolo con stupore.
“Sì, giacché quel funzionario trovava troppo pesante il suo servizio di controllore rigoroso dei baffi delle tigri,” rispose il generale.
“Quale storia mi narrate voi ora?”
“Ah! Voi non sapete dunque che il nostro codice e anche quello del vicino Tonchino puniscono severamente chi strappa un solo baffo ad una tigre?”
“No, non lo sapevo, e non saprei neanche trovare il motivo d’una simile proibizione.”
“Il governo vuole impedire ai sudditi di ricavarne il comcenop.”
“Che cos’è?”
“Un veleno potentissimo, tale anzi che basta versarne una porzione infinitesimale in una tazza d’acqua, per fulminare istantaneamente colui che la beve, e senza che resti alcuna traccia di avvelenamento.”
“E come si fa ad ottenerlo?”
“Si fa una incisione longitudinale in un bambù e vi si introduce un baffo strappato a una tigre, poi si chiude la fessura con una fasciatura ben stretta spalmata di cera, onde la pianta possa continuare a svilupparsi e anche a fiorire.
Si dice che quel pelo si trasformi ben presto in un verme, il quale vive benissimo nel cuore del bambù ingrossandosi.
Dopo qualche mese si taglia la pianta, si raccoglie con cura la defecazione del verme e questa serve a fornire il terribile veleno.”
“Credete voi a ciò?”
“Non so, dottore. Quello che posso dirvi è che nei nostri codici vi è un articolo che prescrive a tutti i cacciatori, sotto la comminatoria di pene severissime, di bruciare tutti i baffi delle tigri uccise; e vi dirò anche che, quando una di quelle belve viene sorpresa ed ammazzata, le autorità del cantone sono obbligate a recarsi sul posto per constatare se i baffi sono stati regolarmente arsi.
Ora credete quello che volete, mio caro dottore.”
In quel momento parecchi tocchi di tam-tam echeggiarono verso l’alto corso del fiume, seguiti da grida acutissime.
“Che cosa succede?” chiese il generale, alzandosi.
“Aspettate che abbiamo superato quella curva e lo sapremo, padrone,” disse Feng che si era accostato a loro, dopo aver ceduto il timone a un battelliere.

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