Capitolo XI Il parco dei gaviali

Il fiume, che era sempre larghissimo e che descriveva di frequente delle curve assai accentuate, in quel luogo formava un brusco angolo, impedendo così all’equipaggio del balon di poter scorgere ciò che succedeva dietro gli altissimi alberi che costeggiavano senza interruzione le rive.
Le grida erano quasi subito cessate; si udiva invece ancora, di quando in quando, un colpo di tam-tam che la brezza, soffiando dal settentrione, portava fino agli orecchi dell’equipaggio e dei passeggeri.
“Vi sarà qualche villaggio dietro quella punta,” disse Lakon-tay, che ascoltava attentamente. “Forse si sta celebrando qualche festa o qualche matrimonio.”
“È sicuro il fiume?” chiese il dottore.
“Fino ad Ajuthia non vi sono da temere cattivi incontri. Le cannoniere del re impediscono ai pirati d’acqua dolce, che non sono rari sull’alto corso e anche sul Nam-Sak, di scendere fin qui.”
“Sicché può darsi che più tardi facciamo l’incontro dei briganti.”
“Oh! Non sono molto temibili per gente come noi che ha delle buone carabine. Io che ho dovuto purgare le province settentrionali da quegli squali d’acqua dolce, so che sono pessimamente armati.”
“Che cos’è quell’immenso affare che sembra sommerso?” chiese in quel momento Len.
La punta era stata superata e, presso la riva sinistra, dinanzi ad un gruppetto di capanne e di tettoie, era apparsa una strana costruzione di dimensioni enormi, semiimmersa nel fiume e sormontata da un albero altissimo munito di numerose corde, che alcuni uomini seminudi stavano maneggiando tenendosi sulla spiaggia.
Sembrava un bacino, avente almeno duecentocinquanta metri quadrati di estensione, formato da grossissimi bambù piantati nel fondo del fiume, un po’ staccati l’uno dall’altro onde non impedire l’accesso all’acqua, e coperto da un tetto leggermente inclinato, fatto con panconi di legno di tek, con un’apertura nel centro, da dove si rizzava l’albero.
“Che cosa può essere?” chiese il dottore, che non riusciva a comprendere a quale scopo potesse servire quella strana costruzione.
“Non lo indovinate?”
“No, generale.”
“È semplicemente un parco di gaviali. Là dentro ve ne saranno probabilmente delle centinaia, e mi pare che quegli indigeni si preparino a issarne qualcuno.
Vi sarà molta richiesta sul mercato d’Ajuthia, e la coda è un manicaretto assai ricercato dai ghiottoni.”
“Un parco di gaviali!” esclamò il dottore.
“Sì, e non sarà certamente il primo né l’ultimo che troveremo, prima di giungere alla vecchia capitale. Gli allevatori fanno dei buoni guadagni, ve lo assicuro.”
“E si allevano quei ributtanti rettili per mangiarli!”
“Certo. E come vengono disputate le code sul mercato! Si pagano quasi a peso d’oro.”
“Puah! Carne profumata di muschio!”
“Ma non cattiva, credetemi, a parte il profumo che non a tutti forse può piacere,” rispose Lakon-tay. “Ne ho mangiato più volte anch’io nei pranzi offerti dai mandarini di Ajuthia e di Tschai-Nat e non l’ho trovata sgradevole, anzi.”
“E come fanno ad allevarli?”
“Come vedete, prima costruiscono quell’enorme bacino, impiegando del legname solidissimo, poi vi gettano dentro due o trecento piccoli gaviali, quei parenti prossimi dei coccodrilli.
Durante i due primi anni non si occupano di loro, bastando ai piccoli rettili le erbe che crescono in fondo al fiume; quando hanno raggiunto quell’età, si comincia a offrire loro qualcosa di più solido, affinché si sviluppino rapidamente.
Infatti dopo, il secondo anno il gaviale mette i denti. Da quel momento ingrossano e si allungano con una rapidità incredibile. Allora si gettano loro in pasto, la mattina e la sera, attraverso l’apertura del tetto, carogne d’animali, cesti d’immondizie ed avanzi d’ogni specie. Al terzo anno, quando hanno già raggiunto i quattro o i cinque metri di lunghezza, si comincia a pescarli.”
Il parco prospera prodigiosamente, tanto che è necessario, dopo qualche tempo, moltiplicare le pesche, per lasciare uno spazio sufficiente ai prigionieri.
Voi già sapete che le femmine dei gaviali e dei coccodrilli non depongono meno di venti e anche ventidue uova all’anno. Potete quindi immaginare come il numero dei rinchiusi aumenti rapidamente.”
“E mi dite che i proprietari fanno tanti guadagni?”
“Diventano rapidamente ricchi, poiché la carne del gaviale, come vi dissi, è sempre ricercata, specialmente dai Cinesi e dagli Annamiti, i quali la preferiscono a qualunque altra.”
“Ci terrei di più a mangiare una bistecca di bue,” disse il dottore.
“Questione di gusto, signor Roberto. Fermiamoci e assisteremo ad una pesca emozionante, ve lo assicuro.”
Il balon, guidato da Feng, si era accostato al parco, e ora vi girava intorno.
Attraverso i bambù, che distavano l’uno dall’altro alcuni pollici, si vedevano i terribili rettili contorcersi furiosamente e si udivano muggire, mentre dall’apertura del tetto apparivano di quando in quando delle mascelle formidabili, armate di denti acutissimi. Senza dubbio ce n’erano parecchie centinaia rinchiusi in quella gabbia; dovevano essere furiosi di trovarsi così stretti ed erano probabilmente assai affamati.
Di tanto in tanto i muggiti aumentavano improvvisamente, formando un baccano assordante, e si udiva il tetto rimbombare sotto i colpi di coda dei prigionieri.
Certo, delle violente risse dovevano scoppiare fra quei bruti, risse destinate a terminare colla morte di qualcuno che doveva servire di pasto ai vincitori.
“Se riuscissero a spezzare i bambù, che spaventevole assalto ci darebbero,” disse il dottore.
“Sono di una solidità a tutta prova,” rispose Lakon-tay. “Il governo permette l’erezione di parchi lungo il fiume, ma esige che siano robusti.”
Compiuto il giro dell’immenso bacino, approdarono dinanzi alle capanne, sulle cui pareti si vedevano stese numerose corazze di rettili, messe a seccare.
Una dozzina di indigeni, fra Siamesi, Cinesi e Tonchinesi, armati di coltellacci e di scuri, stavano facendo scorrere le funi collegate all’albero che sorgeva nel mezzo del parco, per fare abbassare una specie di gabbia di bambù.
Il loro capo, vedendo risplendere sul cappello di Lakon-tay i cerchi d’oro, s’accostò al balon a testa scoperta, dicendo:
“Che cosa desideri, mio signore? Posso esserti utile in qualche cosa?”
“I tuoi uomini si preparano a pescare qualche gaviale?” chiese Lakon-tay.
“Sì, mio signore. Vi è una barca che ne aspetta dieci per questa sera, essendo stati richiesti dai mercanti di Ajuthia.”
“Desideriamo vederne prendere qualcuno.”
“I miei uomini sono pronti e tu, mio signore, non avrai da attendere molto.”
La gabbia era stata tirata sulla riva, dove si ergeva una piattaforma alta alcuni metri da terra.
Un giovane vigoroso, che dal tipo sembrava un tonchinese e che, oltre ad essere armato di una catana dalla lama pesantissima e assai affilata, portava attorno al corpo un nodo scorsoio di pelle grossa e durissima, salì nella gabbia, gridando:
“Aoh!”
I suoi compagni manovrarono le corde, e la gabbia, sollevandosi sopra la piattaforma, andò a urtare contro l’albero, passando sopra il tetto del parco.
“Se quelle corde si spezzassero!” esclamò il dottore, che non aveva potuto frenare un brivido d’orrore.
“Quel pover’uomo non si salverebbe certo,” rispose Lakon-tay. “Saliamo sulla piattaforma; di lassù godremo meglio lo spettacolo.”
Scesero a terra, accompagnati da Feng, e salirono su quella specie di terrazza che dominava, per la sua elevazione, tutto il recinto. Vedendo l’uomo dondolarsi sopra l’apertura del tetto, venti o trenta teste erano emerse, spalancando le terribili mascelle.
I rettili, affamati, facevano sforzi disperati per balzare fuori, colla speranza di azzannare la gabbia, ma, pigiati com’erano in quello stretto spazio, appena appena potevano muoversi.
D’altronde, i compagni del tonchinese si erano affrettati ad innalzare la gabbia, arrestandola a cinque metri dall’apertura.
Il coraggioso pescatore sciolse allora il laccio, lo allargò, e dopo aver guardato per qualche po’ i rettili per scegliere il più grosso, lo lanciò. Fra i gaviali si manifestò per qualche istante una certa agitazione, specialmente quando videro l’uomo attaccare il laccio ad una carrucola, poi la gabbia allontanarsi nuovamente, tratta alla riva da quelli che erano rimasti sotto la piattaforma.
“Uno è già prigioniero,” disse Lakon-tay.
“Come faranno a levarlo dal parco?” chiese Len.
“Ora vedrai.”
I compagni del tonchinese, dopo aver tirato la gabbia, afferrarono un’altra fune comunicante colla carrucola, gridando:
“Oh! Alza!”
Alla seconda strappata, più vigorosa della prima, si vide un gaviale innalzarsi fuori dall’apertura. Era un mostro di dimensioni poco comuni, che misurava per lo meno cinque metri e che avrebbe somministrato carne in abbondanza ai ghiottoni di Ajuthia.
Il rettile, sentendosi strappare dal suo elemento e trascinare in alto, dapprima parve assai sorpreso e non cercò di dibattersi; ma quando si trovò a metà dell’albero e provò le prime strette del laccio, la sua rabbia scoppiò tremenda.
La corda gli era stata lanciata attorno alla gola, prendendo dentro anche una zampa, e sotto quel peso enorme si era stretta in modo tale, da produrre un solco profondissimo nella carne.
Sentendosi così preso ed intuendo il pericolo, il gaviale cominciò a dibattersi freneticamente, colla speranza di spezzare quella maledetta corda che lo strozzava. Si contorceva disperatamente, muggendo con furore, avventava contro l’albero colpi di coda violentissimi che scrosciavano come se sparassero dei piccoli pezzi d’artiglieria, poi cercava di azzannarlo staccando larghi pezzi di legno, quindi colle tre zampe rimastegli libere tentava di arrampicarsi, senza riuscire nel suo intento.
Sfinito da quegli sforzi, s’arrestava alcuni momenti colle mascelle spalancate, soffiando e sbuffando, gli occhi iniettati di sangue, poi tornava a balzare ed a contorcersi con maggior rabbia, non ottenendo altro scopo che quello di stringere sempre più il nodo che lo strangolava.
Lo spettacolo era spaventevole e prometteva di durare a lungo, giacché tutti i coccodrilli posseggono una vitalità che forse il solo pescecane supera.
L’albero, scosso da quei soprassalti, vibrava tutto, dalla base alla cima, e talvolta perfino si piegava; ma non v’era pericolo che si spezzasse, quantunque il rettile raddoppiasse i suoi contorcimenti.
“Ecco una scena che difficilmente si dimentica,” disse il dottore.
“È piuttosto ripugnante,” disse Len.
“Durerà assai?”
“Qualche volta devono aspettare un paio d’ore, prima di trarre alla riva questi animalacci,” disse Lakon-tay. “Hanno la pelle assai dura.”
I soprassalti continuavano, però a poco a poco diventavano sempre meno impetuosi. Le forze del mostro si esaurivano e l’asfissia cominciava a manifestarsi.
Le mascelle, sempre spalancate e ormai agitate da un tremito convulso, invano cercavano d’aspirare l’aria, e la coda non si contorceva che a lunghi intervalli. Anche le zampe pendevano quasi inerti.
Ad un tratto la bocca si chiuse e il tremito cessò; erano già trascorsi ben più di venti minuti.
I pescatori, per assicurarsi della sua morte, lo innalzarono fino alla cima dell’albero, poi allentarono bruscamente la corda facendolo precipitare fino quasi sul tetto del parco.
A quella scossa brutale che aveva per scopo di spezzargli completamente la spina dorsale e le vertebre, il rettile fece un ultimo soprassalto, aprì ancora una volta le mascelle con un crepitio strano ed insieme lugubre, poi l’enorme corpo rimase inerte, penzoloni lungo l’albero.
“Eccolo finito,” disse Lakon-tay. “Possiamo andarcene, o non potremo giungere questa sera ad Ajuthia.”
Gettarono al capo dei pescatori alcuni tical e tornarono al balon, rimettendosi in viaggio.
Il Menam, un po’ sopra quel minuscolo villaggio, cominciava a restringersi, mentre la corrente diventava più rapida.
Su entrambe le rive si rizzavano dei bellissimi alberi che lanciavano le loro cime a quaranta e perfino a cinquanta metri di altezza, dai tronchi slanciati e ricchi di un abbondante fogliame verde cupo. Erano dei cay-cay, alberi dai cui frutti, o meglio dal nocciolo di questi i Siamesi e anche gli altri popoli dell’Indocina ricavano una materia grassa che surroga benissimo la cera e dà una fiamma vivissima che non produce alcun odore sgradevole.
In mezzo a quei colossi, già tutti carichi di frutti che rassomigliavano a prugne, bande di scimmie appartenenti a varie specie si rincorrevano di ramo in ramo, mentre sulle cime volteggiavano dei grossi tucani rinoceronti, armati di becchi smisurati e muniti di una specie di cresta che rassomigliava ad una enorme virgola.
Di quando in quando, cominciavano ad apparire dei villaggi, per lo più miserabili, formati di poche capanne costruite su palizzate, per impedire alle tigri e alle pantere di forzare le porte nelle loro incursioni notturne, o di rovesciare le malferme pareti d’argilla e di rami malamente intrecciati.
Quei villaggi indicavano la vicinanza dell’antica capitale del regno, giacché i contadini Siamesi non amano allontanarsi troppo dai grossi centri, per timore dei pirati d’acqua dolce e più di tutto delle belve, contro le quali si sentono impotenti a lottare, mancando generalmente di audacia e anche di buone armi da fuoco, le sole ormai temute da quelle terribili predatrici.
Anche il fiume cominciava ad animarsi. Delle grosse barche cariche di derrate e munite di vele immense si staccavano dalle rive salendo verso il nord e anche delle piccole galere di forme eleganti e leggere, strette e lunghe, con un solo ponte e le ancore di legno di tek, avanzavano spinte da un numero considerevole di remi.
Vedendo il balon, che filava rapidissimo per giungere all’antica capitale prima che la notte scendesse, si affrettavano a trarsi da parte e salutavano i viaggiatori con un cortese: “Buona giornata, signori.” Poi facevano echeggiare il disco di bronzo sospeso all’albero poppiero.
Alle sei di sera, verso il nord, dopo che il balon ebbe superato una curva considerevole, sul nitido orizzonte apparvero improvvisamente le altissime guglie delle pagode d’Ajuthia, indorate dagli ultimi raggi del sole tramontante.
Le dorature delle cupole scintillavano vivamente, come tanti piccoli soli, mentre più all’est giganteggiava l’imponente piramide sacra innalzata a Sommona Kodom, una massa enorme che s’eleva a gradini, con statue numerose ed un Budda colossale verso la cima, e corridoi vastissimi che servono d’asilo tranquillo a milioni di pipistrelli.
“Ecco laggiù la porta benedetta col sangue umano,” disse Lakon-tay, indicando al dottore un bastione altissimo, in parte diroccato, sotto cui s’apriva un’arcata.
“Perché benedetta con sangue umano?” chiese Roberto.
“Ignorate dunque che, fino a pochi anni or sono, qui si usavano bagnare le nuove porte della città con sangue di uomini e anche di donne?”
“Ne avevo udito vagamente parlare, senza prestarvi fede.”
“Anch’io nella mia gioventù corsi il pericolo di venire schiacciato dalla trave fatale, e non sfuggii alla morte che per un miracolo, o meglio per la velocità delle mie gambe.
Avevano innalzato le mura attorno a Raeng, per renderla più sicura contro le frequenti invasioni dei Birmani, e si dovevano aprire due porte.
Per avere le vittime necessarie alla benedizione, si ricorre ad un crudele stratagemma. Si collocano presso le porte alcuni soldati i quali fingono, di quando in quando, di chiamare qualcuno.
Tutti quelli che passano senza voltarsi, non vengono importunati, ma i primi che guardano indietro, vengono subito afferrati e destinati al sacrificio.
Più nessuno può salvare quei disgraziati. Si destina il giorno della festa, si fanno banchettare sontuosamente i prigionieri, poi si conducono dinanzi alla porta che si deve benedire e si schiacciano sotto una trave pesantissima.
Quando sono tutti morti, i talapoini ed il governatore dànno loro l’incarico di vegliare affinché nessun nemico s’introduca di soppiatto in città.”
“Una ben feroce derisione,” disse il dottore.
“Ora invece, da un po’ di tempo, quelle crudeli cerimonie sono state abolite da Phra-Bard.”
Dei barriti formidabili interruppero in quel momento la loro conversazione. Sulla riva destra, fra i manghi ed i cay-cay, era improvvisamente comparsa una truppa di colossali elefanti.
Quei giganti erano una decina e si preparavano a scendere nel fiume per rinfrescarsi ed avvoltolarsi nel fango.
“Elefanti selvaggi?” chiese il dottore, che si era alzato per meglio ammirare quei superbi pachidermi.
“Semiselvaggi,” rispose Lakon-tay. “Là si estende il gran parco di Ajuthia. Ah! Se potessi farvi assistere a qualche battuta di quei colossi! Che spettacolo vedreste, dottore!
Siamo nella stagione delle battute e non è improbabile che ne vedremo qualcuna. Domani, o questa sera stessa, lo sapremo dal governatore della città che è mio amico. Feng, sii prudente! Entriamo nel canale, e lì di traffico ve ne sarà fin troppo.”
Avevano abbandonato il corso principale del fiume e imboccato un canale non troppo largo, che serviva di congiunzione al Nam-Sak.
L’avvertimento del generale giungeva a tempo. Quel corso d’acqua era ingombro d’un numero infinito di galere, di barconi, di balon più o meno adorni e di scialuppe d’ogni forma e d’ogni portata, che s’incrociavano in tutti i sensi, rendendo il passaggio difficilissimo.
A destra e a sinistra, trattenute alla riva da grosse gomene vegetali, si estendevano lunghe file di case galleggianti, sorrette da immense zattere, sulle quali si rincorrevano truppe di ragazzi e di ragazzine quasi nude, e dove numerosi pescatori mettevano ad asciugare delle lunghissime reti.
Si udivano chiacchiere di donne, canti di battellieri, scrosci di risa e numerosi alterchi.
Il balon filò con velocità moderata fra quelle case e quella moltitudine di barche e un quarto d’ora dopo si arrestò dinanzi al quai di legno della vecchia capitale siamese.
Ajuthia non ha la decima parte del movimento di Bangkok, quantunque sia sempre la seconda città del regno, ed ha una popolazione di gran lunga inferiore a quella della rivale, contando a malapena trentamila abitanti. Come però tutte le città antiche, ha avuto giorni di splendore, specialmente quando era capitale del regno e sede dei monarchi Siamesi.
Fondata verso il 1360 dal re U-Fong, sulle rovine d’un’altra antichissima città, sorse rapidamente mercé la munificenza dei monarchi, arricchendosi di pagode meravigliose che superano anche oggidì, per ricchezza, quelle di Bangkok; ma decadde anche presto.
Conserva ancora il suo palazzo reale, che, quantunque costruito tutto in legno di tek e bambù, ha resistito per tanti secoli alle intemperie; invece i suoi templi, che occupavano una superficie di molte miglia quadrate, sono quasi tutti in rovina.
Le male erbe ne hanno già coperto molti; tuttavia si possono ammirare ancora cupole superbe, arcate meravigliose, colonnati magnifici, guglie che sembrano coperte di trine d’oro, e una statua di Sommona Kodom alta ben diciotto metri, rivestita di lamine di rame, che vale dei tesori, perché s’impiegarono per la sua erezione ben 25.000 libbre di quel metallo, 2.000 d’argento e 400 d’oro.
La costruzione meglio conservata è la piramide di Puha-thon, che s’innalza in una pianura situata a nord-est della città, e fu eretta a ricordo di una strepitosa vittoria riportata sul re del Pegù; massiccia, è però bellissima, e lancia la sua punta a centoventi piedi.
Tutto il resto non è che una rovina, essendo crollati perfino i muri di cinta dei giardini reali e gli edifici dell’antico quartiere degli stranieri che pure erano in mattoni.
Tale d’altronde è il destino di tutte le città indocinesi quando vengono abbandonate dalla corte: si lasciano crollare senza che nessuno se ne preoccupi. Ecco il motivo per cui in quelle regioni si trovano così sovente, anche in mezzo ai boschi, delle rovine che un giorno dovevano aver appartenuto a città opulente e grandiose.
Essendo ormai calata la notte, Lakon-tay, il dottore e Len decisero di rimanere a bordo del balon, giacché vi era spazio sufficiente per dormire sotto il baldacchino e c’erano coperte di lana e di seta oltre ai soffici cuscini. Il generale però incaricò Feng di portare i suoi saluti al governatore, di cui era amico, avendo essi combattuto insieme contro i Birmani.

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