Capitolo XIII La scimmia che ride

A mezzodì, dopo aver fatto una succulenta colazione, offerta loro dal governatore, che aveva una grande stima per il vecchio generale, tornarono ad Ajuthia sul medesimo elefante che li aveva condotti al parco.
Avevano fretta di riprendere il viaggio e di condurlo a termine, prima che cominciasse la stagione delle grandi piogge, che è pericolosissima in quei paesi giacché trasforma le foreste in pantani e sviluppa quella terribile malattia, chiamata con una frase energica la febbre dei boschi, che quasi mai perdona alla persona che ne è rimasta colpita.
Rinnovate rapidamente le loro provviste, poiché non potevano assolutamente contare sui villaggi, che sono rari sul Nam-Sak, il quale scorre in una regione deserta, presero posto sotto il baldacchino e diedero il segnale della partenza.
Il balon attraversò la parte settentrionale della città, seguendo sempre il canale, e alle tre pomeridiane giunse alla confluenza del Menam col Nam-Sak.
Questo secondo fiume è uno dei maggiori affluenti del Menam, non essendo superato che dal Me-Ping, ed è ricco d’acqua, profondo assai e anche molto largo.
Mentre il Menam scende quasi direttamente, con poche curve, il Sak invece si allontana assai verso oriente; nondimeno nel suo corso superiore si riunisce ancora al primo, mediante un canale naturale che ha una lunghezza ragguardevole.
Il balon s’inoltrava in una regione affatto selvaggia e disabitata. Non più barche, non più villaggi, non più pagode dalle guglie scintillanti. Invece facevano la loro comparsa i primi tek, quegli alberi così preziosi e tanto ricercati dai costruttori marittimi europei per il loro legno incorruttibile che sfida i secoli anche se sommerso nell’acqua salsa.
Tutte le regioni settentrionali dell’Indocina hanno foreste immense di tek, che le scuri dei boscaioli hanno appena intaccato, malgrado l’enorme quantità di tronchi che vengono annualmente trasportati in Europa e in America, tanto sono vaste.
Sono belle piante, dal tronco diritto, che ha spesso un diametro di un metro e mezzo e raggiunge altezze prodigiose, conservando press’a poco la forma cilindrica della base.
Essendo le sue fibre imbevute d’un olio resinoso, il legno del tek è inattaccabile dai vermi e resiste meravigliosamente all’azione dissolvente dell’acqua salata; e se si ha prima la precauzione di lasciarlo bene seccare, indurisce anche se sommerso.
Il Siam specialmente possiede i migliori tek finora conosciuti, avendo lungo l’alto corso dei suoi fiumi delle foreste sterminate, che non sono forse state ancora assalite dalle scuri dei boscaioli per le difficoltà dei trasporti.
I tek che crescevano lungo le due rive del Nam-Sak non erano però i soli esemplari della meravigliosa flora siamese. Negli spazi lasciati fra quegli alberi, spazi considerevoli, giacché essi non crescevano mai gli uni accanto agli altri, si vedevano macchioni di alberi di cocco, di superbi tamarindi, di mimose, cassie, lauri dalla scorza aromatica, fichi baniani, borassi flabelliformi dalle magnifiche foglie distese a ventaglio e coripha dai tronchi alti più di venti metri, incoronati da un ampio fascio di foglie disposte a parasole.
Un numero infinito di uccelli, specialmente di tucani e di palombe tubava, cinguettava e fischiava fra tutte quelle piante, mentre sulle rive bande di cormorani dalle penne oscure, grossi come oche, pescavano ingollando dei pesci di rispettabile lunghezza.
“Questo è il paradiso dei cacciatori,” disse il dottore, che pensava di procurarsi una buona cena. “Len-Pra, se non vi rincresce, tiriamo qualche colpo su tutti questi volatili.
Il cormorano non è cattivo, quantunque si nutra di pesce. Ah! Se vi fossero qui dei Cinesi e dei Giapponesi, come saprebbero utilizzare questi infaticabili e abilissimi pescatori! Guardate con quanta celerità si tuffano e come non tornano mai a galla senza avere qualcosa nel becco.”
“Che cosa ne farebbero i Cinesi di questi volatili, dottore?” chiese la giovine.
“Li ammaestrerebbero, e con poca fatica. Il cormorano è come l’elefante e si adatta facilmente alla schiavitù.”
“E li usano per la pesca?”
“Sì, Len.”
“E i cormorani non mangiano i pesci presi invece di portarli al loro padrone?”
“Oh! Lo farebbero ben volentieri, essendo voracissimi, ma i Cinesi ed i Giapponesi, per impedire loro di inghiottire la preda, mettono al loro collo un anello strettissimo.”
“Come sono ingegnosi quei popoli!”
“Dell’ingegno ne hanno da vendere anche agli Europei. Orsù, qualche buon colpo, Len. I cormorani non mancano qui.”
Avevano già preso le carabine, quando un grido stridente, partito dalla sponda che in quel momento costeggiavano, li trattenne dal far fuoco. Lakon-tay, udendolo, abbandonò il cup, sotto cui stava masticando il suo betel, e raggiunse il dottore e Len che si trovavano a prua.
“Il grido della scimmia che ride!” esclamò.
“Una scimmia che ride?” chiese il dottore.
“Sì, un lu-huoi.”
“Che cosa volete dire, generale?”
“Non la conoscete?”
“Non l’ho mai veduta.”
Lakon-tay fece segno ai rematori di rallentare la battuta e di accostarsi alla riva.
Il grido stridente si ripeté, seguito poco dopo da un fragoroso scoppio di risa.
“Non mi sono ingannato,” disse Lakon-tay. “Guardate, dottore: la scorgete? Se potesse prendervi per i polsi, vi farebbe passare un brutto quarto d’ora.”
“Che bestia è dunque?”
“Una scimmia, vi ho detto. La scorgete fra quei due tek? Ci invita a sbarcare.”
Un quadrumane era infatti apparso sulla riva, fra due colossali alberi, e guardava il balon ridendo a crepapelle. Era una scimmia che sotto certi aspetti somigliava, se non ad un gorilla, ad un mias del Borneo, giacché aveva una statura straordinaria che superava i cinque piedi, ossia un metro e sessanta centimetri.
Aveva la faccia quasi nera, con due occhietti iniettati di sangue, una bocca larghissima che andava da un orecchio all’altro, armata di denti formidabili, e il pelo rossastro e assai lungo.
Si teneva il ventre con ambo le mani e rideva, rideva, mostrando la sua terribile rastrelliera, bianca al pari di quella dei gaviali e dei pescecani.
“Che brutta bestia!” esclamò il dottore, che la osservava con curiosità. “Io ho veduto gli urang-outang del Borneo, che sono il terrore dei Dayachi, ma non ho riscontrato in loro né una bocca così enorme, né dei denti così lunghi. Sono pericolosi questi lu-huoi, come voi li chiamate?”
“Terribili, dottore, quantunque i nostri Siamesi sappiano cavarsela a meraviglia se attaccati, senza lasciarsi sventrare da quei ferocissimi scimmioni.”
“Se provassimo a dargli la caccia?” chiese il dottore. “Il tramonto non è lontano e quella riva si presta benissimo per un accampamento. Che ne dite, Len?”
La giovane approvò con un cenno del capo.
“Fate fuoco dal balon,” disse il generale.
“La vostra carabina è carica a palla, Len?” chiese il dottore.
“Sì, signor Roberto.”
“Fate accostare il balon adagio adagio, generale.”
“Lasciate fare a me.”
L’enorme scimmia, dopo aver riso a crepapelle, dimenandosi comicamente, con uno slancio improvviso si aggrappò a un ramo d’un immenso fico baniano che cresceva un po’ lontano, formando da solo una piccola foresta, e scomparve fra il fitto fogliame.
Quasi subito un altro grido stridente, meno acuto però, echeggiò verso il bosco.
“Sono due i lu-huoi,” disse il generale. “Devono essere maschio e femmina.”
“Sì, padrone,” disse Feng, che nelle natie foreste aveva incontrato sovente quei pericolosi quadrumani.
Il primo, che doveva essere il maschio, continuava a far udire violentissimi scoppi di risa, tenendosi sempre nascosto nel fitto fogliame del fico baniano.
“A terra,” disse il dottore. “Non lo si può scorgere da qui.”
“Badate,” disse Lakon-tay.
“Non temete, sono sicuro dei miei colpi.”
Il balon con pochi colpi di remo raggiunse la riva, la quale formava in quel luogo una piccola e pittoresca caletta, circondata da superbi alberi.
Il dottore aiutò Len-Pra a scendere, poi balzò a sua volta a terra seguito dal generale e da Feng, i quali si erano pure armati di carabine rigate, di buon calibro e di lunghissima portata.
Il dottore guardò Len. La fanciulla era tranquilla, come se si trattasse di affrontare un capriolo, anziché una terribile scimmia da tutti temuta.
“Vi ammiro, Len-Pra,” diss’egli.
“Perché, dottore?” chiese la giovane sorridendo.
“Per il vostro coraggio.”
“Mio padre mi ha abituato, fin da fanciulla, a sfidare i pericoli, e poi, non sono armata?”
“Andiamo allora, Len-Pra.”
Il lu-huoi non aveva lasciato il fico baniano. Rideva sempre e di quando in quando scuoteva poderosamente i rami, facendo cadere al suolo una pioggia di frutta. Eppure da lassù doveva aver veduto gli uomini sbarcare.
La sua compagna, che si trovava nel bosco a non molta distanza, di tanto in tanto rispondeva con un grido stridente che finiva in un fischio acutissimo.
“Circondiamo l’albero,” disse Lakon-tay, che non era meno appassionato cacciatore di Roberto. “Non allontaniamoci però troppo, perché non ci manchi il tempo di soccorrerci a vicenda.”
“Len-Pra, rimanete presso di me,” disse il dottore.
“Sì, signor Roberto,” rispose la fanciulla colla sua solita voce calma.
Tenendosi nascosti dietro i cespugli, che crescevano abbondantemente negli intervalli fra i tek, i cacciatori si trovarono ben presto sotto il fico baniano.
Come abbiamo detto, quella pianta formava da sola una piccola foresta, costituita non già da un solo tronco, bensì da due o trecento. Quegli strani vegetali si dilatano enormemente e con rapidità, mercé le loro radici aeree che scendono dai rami e che, appena toccato il suolo, si affondano formando un nuovo tronco.
Il quadrumane, accortosi senza dubbio del pericolo che lo minacciava, si era ritirato verso il centro della pianta, in prossimità del tronco principale, dove il fogliame era più folto, e continuava a sghignazzare.
Il dottore, dopo aver osservato la posizione che occupava, si cacciò risolutamente fra i tronchi, seguito da Len-Pra, mentre Feng e Lakon-tay si portavano dalla parte opposta, per impedire alla scimmia di guadagnare la foresta e di unirsi alla sua compagna.
Cogli occhi fissi sui rami e il dito sul grilletto del fucile, il dottore avanzava cautamente, cercando di scoprire l’animale.
Quel furbo lu-huoi però aveva improvvisamente cessato di ridere e non scuoteva più i rami. Si preparava a tentare un colpo disperato o, spaventato, cercava di nascondersi?
A un tratto il dottore, che era già giunto in vicinanza del tronco centrale grossissimo a paragone degli altri, si arrestò, alzando la carabina.
“Lo vedete?” chiese Len che gli stava dietro.
“Mi sembra che stia disteso su uno dei più grossi rami.”
“Non fate fuoco se non a colpo sicuro.”
“Non sprecherò inutilmente la mia cartuccia.”
Guardò attentamente il grosso ramo su cui supponeva si tenesse il lu-huoi, e dovette ben presto convincersi d’essersi ingannato.
Il quadrumane, vedendosi scoperto, era scivolato silenziosamente su un altro ramo, o si trovava invece già altrove?
Invano il dottore scrutava il fogliame che era fittissimo verso le parti centrali del fico; non riusciva a scorgere nulla.
Ai clamorosi scoppi di risa di poco prima era successo un profondo silenzio. Anche la compagna del quadrumane non faceva più udire il suo grido stridente.
“Che sia fuggito senza che noi ce ne siamo accorti?” si chiese il dottore.
A un tratto uno sparo rimbombò dalla parte opposta, seguito subito dopo da un secondo e da un urlo rauco.
“L’hanno colpito!” gridò il dottore, slanciandosi innanzi. “Venite, Len-Pra!”
Si misero a correre verso il luogo dov’erano echeggiati i due colpi di carabina.
Il dottore, che era più lesto, aveva già attraversato buona parte dei tronchi, quando udì in alto un crepitio di rami ed un violento stormire di foglie, poi si sentì precipitare addosso una massa che lo atterrò. Avendo il dito sul grilletto del fucile, nel cadere fece partire il colpo, e rimase avvolto in una nube di fumo.
Quasi contemporaneamente udì dietro di sé uno sparo, poi un grido di spavento e di dolore.
“A me… dottore!”
Roberto, che non si sentiva più gravitare addosso quella massa che lo aveva atterrato, si levò prontamente. Un grido d’orrore gli sfuggì.
L’enorme scimmia, grondante sangue, teneva pei polsi Len-Pra, sghignazzando e contorcendosi.
La povera giovane, che si sentiva stritolare i polsi dalle mani di ferro del mostro, mandava grida strazianti e tentava invano di sottrarsi a quella stretta brutale.
Quantunque ferito e forse gravemente, il lu-huoi si divertiva immensamente, vedendo i tentativi che faceva la sua vittima per sfuggirgli. La sua bocca si apriva smisuratamente con un ghigno spaventevole e gli scoppi di risa si succedevano ininterrottamente.
Roberto aveva l’arma scarica e non aveva il tempo di mettervi dentro una nuova cartuccia. La carabina era però pesante, di una solidità a tutta prova, col calcio rinforzato da una grossa lamina d’ottone.
L’afferrò per la canna e si slanciò risolutamente addosso al mostro. Questi non si era nemmeno occupato del secondo nemico. Il riso d’altronde lo paralizzava.
Il dottore gli piombò alle spalle e gli menò in mezzo al cranio una tale mazzata, da convertire gli scoppi di risa in un urlo di dolore. Il lu-huoi si piegò sotto quel formidabile colpo e abbandonò i polsi della fanciulla.
Quantunque nuovamente ferito, poiché la punta di metallo del calcio gli aveva spaccato la testa, si voltò, allungando le mani che erano munite di solide unghie.
Non rideva più: digrignava invece i denti ed i suoi occhi mandavano sinistri lampi, mentre il suo pelame, sotto l’accesso di collera, si arruffava.
“Fuggite, dottore!” gridò Len, che quantunque avesse i polsi indolenziti, cercava di ricaricare la sua carabina.
Ma Roberto non poteva più fuggire, poiché il lu-huoi con un balzo improvviso l’aveva già investito, cercando di afferrarlo.
Il coraggioso giovane non si smarrì d’animo. Tenendo sempre la carabina per la canna, tirava colpi all’impazzata, percuotendo il mostro ora sul muso, ora sul petto ed ora sulle braccia. Balzava a destra ed a sinistra per sfuggire alle strette del formidabile animale ed indietreggiava verso Len per coprirla.
A un tratto un grido gli sfuggì. Aveva incespicato contro una radice ed era caduto, lasciandosi sfuggire la carabina.
Il lu-huoi stava per rovinargli addosso e farlo a brani coi denti e colle unghie, quando due colpi di fucile rimbombarono a breve distanza. Lakon-tay e Feng, allarmati dagli spari, erano accorsi ed avevano fatto nuovamente fuoco sul quadrumane, che avevano già ferito pochi minuti prima.
Il lu-huoi non era ancora caduto, quantunque avesse nel corpo tre o quattro proiettili. Vedendo comparire quei nuovi nemici tentò, con uno sforzo disperato, di riguadagnare ancora il fico baniano e di cercare un rifugio fra il fogliame.
Aveva fatto troppo calcolo sulle sue forze, ormai stremate dalla perdita del sangue. Era riuscito nondimeno ad aggrapparsi a un ramo basso ed anche ad issarvisi, quando ad un tratto fu veduto arrestarsi, portare ambo le mani al petto foracchiato dai proiettili, poi distendere bruscamente le braccia e abbandonarsi nel vuoto.
Piombò al suolo con sordo rumore, colla testa in giù, si rotolò due o tre volte fra le radici e le foglie secche, agitando convulsivamente le gambe e rantolando, poi s’irrigidì.
Tutti accorsero, dopo aver ricaricato, per maggior precauzione, le armi.
“È morto,” disse Lakon-tay.
“Che resistenza hanno questi animali!” disse il dottore.
“Signor Roberto,” disse Len, avvicinandoglisi e porgendogli la sua piccola mano, mentre un lampo di riconoscenza le brillava nei dolcissimi occhi. “Grazie.”
“E anche da parte mia, dottore,” aggiunse il generale con voce un po’ commossa. “Da lungi ho veduto tutto, e se non foste intervenuto con tanto coraggio, non so se avrei ancora mia figlia.”
“Un altro al mio posto avrebbe fatto altrettanto,” rispose Roberto.
“O sarebbe invece fuggito,” disse Lakon-tay. “Queste scimmie fanno troppa paura, quando montano in furore.”
“Questo è vero, generale. Era spaventevole lo scimmione, e vi confesso che, per un momento, mi sono sentito gelare il sangue nelle vene e venir meno il coraggio di assalirlo.
Vi fanno male i polsi, Len?”
“Solamente un po’, signor Roberto. La scimmia aveva solo cominciato a stringere.”
“Se il soccorso tardava, te li stritolava, prima di farti a pezzi,” disse Lakon-tay.
“Afferrano sempre le loro vittime per i polsi?” chiese il dottore.
“Sempre, e, come vi dissi, i nostri montanari hanno trovato un mezzo ingegnosissimo per corbellare questi mostruosi quadrumani.
Conoscendo la loro abitudine, quando si recano a cacciare nelle foreste che sanno essere frequentate dai lu-huoi, portano con sé dei tubi di bambù, lunghi un piede e grossi quanto basta per passarvi il braccio.
Allorquando si trovano dinanzi a qualche lu-huoi, si coprono i polsi con quei tubi. La scimmia appena li vede corre loro addosso, li afferra e comincia a ridere pazzamente.
I montanari la lasciano fare senza opporre resistenza, e quando s’accorgono che l’animale, invasato dalla gioia, chiude gli occhi, lesti se la dànno a gambe lasciando nelle sue mani i due tubi.”
“E non se ne accorge il lu-huoi?”
“Pare che quello scoppio convulso d’ilarità lo renda cieco e anche stupido. Ben si avvede più tardi di non stringere che due tubi anziché due polsi, ma ormai l’uomo che aveva afferrato è lontano.
Vi sono anzi certi coraggiosi che approfittano dell’ilarità del quadrumane per piantargli nel petto un bel coltellaccio.”
“E se l’uomo non avesse quei tubi, che cosa accadrebbe?”
“Il quadrumane, appena calmata la sua ilarità, si scaglia sulla vittima e la fa a pezzi,” rispose il generale. “Guardatevi da quelle cattive bestie, dottore; sono le peggiori che esistano nelle nostre foreste.”
“Porterò con me la pelle di questo quadrumane, che non è ancora conosciuto in Europa.”
“S’incaricherà Feng di scuoiarlo. Andiamo a cenare; le tende sono state già piantate.”
“E raddoppiamo la guardia questa notte,” disse Feng. “Vi è la femmina del morto.”
“Non oserà avvicinarsi al fuoco,” rispose il generale. “D’altronde siamo in buon numero e le armi non mancano.”

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