Capitolo XIV I cercatori d’olio

Il luogo per l’accampamento non poteva essere più pittoresco. A destra ed a sinistra della piccola cala sorgevano dei superbi banani, e dietro di essi s’innalzavano dei tek immensi, che lanciavano le loro cime a quaranta ed anche a cinquanta metri.
Fra i banani e quelle piante colossali si stendeva una piccola radura, su cui i battellieri avevano rizzato le tende ed acceso i fuochi per la cena.
Il loro capo aveva messo già ad arrostire per i padroni due grossi cormorani, ed a bollire una gigantesca marmitta piena di riso, cibo ordinario e assolutamente indispensabile ai Siamesi di bassa condizione, che condito con un orribile intruglio di pesci marci e di erbe aromatiche costituisce il piatto forte del popolo, chiamato balakang, apprezzato anche dai nobili del regno.
Vi avevano aggiunto molte frutta deliziose, che avevano raccolto nei dintorni: dei soai-ooi o manghi elefanti assai grossi, con polpa abbondante, gialla e succosa, priva di quello sgradito profumo di resina che rende sgradevoli gli altri, dei soai-nger’a o manghi cavalli dalla polpa bianca, e un enorme grappolo di banane ben mature.
I cacciatori, a cui l’appetito certo non mancava, si sedettero intorno ad una bella stuoia variopinta che serviva da tovaglia, e fecero largamente onore ai due cormorani e alle frutta veramente squisite, lasciando il balakang ai battellieri.
Avevano appena finito e stavano accendendo le sigarette in attesa del tè e preparando il betel, quando fra i rami degli alberi vicini udirono uno strano gracidio, che non doveva essere emesso da alcun batrace. Si udiva in alto, in basso, fra gli alberi d’alto fusto e fra i cespugli.
Il dottore guardò il generale, la cui fronte si era improvvisamente oscurata.
“Chi gracida in questo modo? Delle rane o dei rospi no di certo, non essendovi qui paludi.”
Lakon-tay non rispose. Ascoltava attentamente, guardando le piante.
“No,” disse dopo qualche istante. “Non sono spaventate le than-thay. Griderebbero diversamente.”
“Che cosa sono queste than-thay?” chiese il dottore, che non comprendeva il senso di quelle parole.
“Delle graziose lucertole cantanti,” rispose Lakon-tay, sorridendo.
“Ne ho udito parlare,” rispose il dottore, “ma non ne ho mai vedute.”
“Feng ne prenderà qualcuna e ve la mostrerà.”
“Mi direte ora perché, udendo quelle lucertole cantare, il vostro viso si era oscurato?”
“Perché quando le than-thay gridano precipitosamente, con un certo tono lugubre, annunciano un imminente terremoto.
Voi già sapete che il Siam e anche la Birmania sono di frequente, anzi troppo di frequente, devastati da quel tremendo fenomeno, che in pochi minuti distrugge delle città intere.”
“E quelle lucertole lo annunziano?” chiese il dottore.
“Pochi minuti prima che avvenga, gridando con maggior forza. Quando gli abitanti le odono, fuggono a precipizio, prima che le case crollino.”
“Frequentano anche le abitazioni, quelle lucertole?”
“Sì, dottore, specialmente quelle vecchie.
“Sono inoffensive?”
“Sì, quantunque i nostri montanari e anche i Malesi della penisola di Malacca ritengano che le feci delle than-thay siano velenosissime e se ne servano per intingervi le punte delle lance e quelle dei loro pugnali.”
“Sicché saranno tenute in molta considerazione, se è vero che annunziano i terremoti!”
“Migliaia e migliaia di persone devono loro la vita.”
“Eccone una, signore,” disse in quel momento Feng, che si era inoltrato fra i cespugli per catturarne qualcuna.
In una mano teneva una graziosa lucertola, di circa venti centimetri di lunghezza, sottilissima, colla testa assai voluminosa in proporzione del corpo, gli occhi neri e mobilissimi e la pelle grigiastra con macchie nere, gialle, rosse e verdi.
Il dottore la prese, osservandola con vivo interesse.
“Ecco l’organo vocale,” spiegò Lakon-tay, indicando sotto la gola del piccolo rettile un fanone assai sviluppato.
“Come è trasparente il corpo di questa lucertola,” disse il dottore, esponendola contro la luce proiettata dal fuoco che ardeva a breve distanza. “Si vedono distintamente tutte le vene e gli organi interni.”
“Ed è anche delicatissimo,” aggiunse Lakon-tay. “Basta il più leggero colpo perché la coda si stacchi, e cosa strana, senza che vi sia perdita di sangue.”
In quel momento verso il fico baniano si udì risuonare un violentissimo scoppio di risa, che fece balzare in piedi i battellieri.
“La femmina del lu-huoi,” disse Len colla sua voce sempre calma.
“Avrà trovato il cadavere del compagno,” disse il dottore. “Che venga a disturbare il nostro sonno?”
“Raddoppieremo i fuochi,” rispose Lakon-tay. “Nessun animale s’avvicina agli accampamenti bene illuminati.”
“Feng, a te il primo quarto di guardia con quattro uomini. Se la lu-huoi s’avvicina, ci sveglierai.”
Lasciarono in libertà la lucertola e si ritrassero nelle loro tende, mentre i battellieri, che, udendo nuovi scoppi di risa parevano un po’ impressionati, raddoppiavano i fuochi.
Feng, che non era pauroso, fece il giro dell’accampamento, chiuse le tende dei padroni, scelse i compagni di guardia, poi si sedette vicino al fuoco acceso presso il margine della foresta, tenendo la carabina a portata di mano.
Verso il fico baniano, che si distingueva confusamente nell’ombra proiettata dagli altissimi tek che gli crescevano intorno, si udivano sempre, ad intervalli, echeggiare gli scoppi di risa della compagna del lu-huoi.
Anche nel dolore quel quadrumane sghignazzava. Di quando in quando invece mandava delle urla acutissime, che tradivano una rabbia terribile.
Tuttavia non osava abbandonare il fico baniano, sotto cui giaceva il corpo sanguinante del compagno. Feng d’altronde era pronto a riceverla a colpi di carabina, ed essendo un buon tiratore, cosa piuttosto rara fra i Siamesi, che sono tutti pessimi bersaglieri, si teneva sicuro di abbatterla facilmente anche senza l’aiuto dei padroni.
La mezzanotte non doveva essere lontana, quando la sua attenzione fu attirata da alcune ombre che passavano presso il margine del bosco, tenendosi celate dietro i cespugli che in quel luogo erano numerosi.
Credendo che fossero altri quadrumani, Feng si alzò prontamente e chiamò gli uomini di guardia.
Quelle ombre erano dieci o dodici e cercavano di tenersi lontane dal fico baniano, dove la lu-huoi continuava a ridere e ad urlare.
“Sembrano uomini, anziché scimmie,” disse Feng. “Che ve ne pare?”
“Anche a me sembrano uomini,” rispose un battelliere.
“Perché non s’accostano al nostro accampamento?” si chiese lo Stiengo. “Che siano dei veri banditi o dei pirati di fiume?”
Si avanzò di alcuni passi, tenendo la carabina puntata, e lanciò un tuonante:
“Chi vive? Rispondete o faccio fuoco.”
Nessuno rispose a quell’intimazione, anzi quelle dieci o dodici ombre si gettarono nella foresta, scomparendo rapidamente.
“Che cosa succede, Feng?” chiese una voce.
Lakon-tay ed il dottore, svegliati da quel grido e credendo che la compagna del lu-huoi minacciasse gli uomini di guardia, avevano lasciato precipitosamente le loro tende e accorrevano armati delle loro carabine.
“Non so, signore,” rispose Feng. “Ho veduto degli uomini, almeno li credo tali, costeggiare la foresta, cercando di tenersi celati dietro i cespugli.”
“Degli uomini che viaggiano di notte e che sfuggono un accampamento non devono essere dei galantuomini,” disse il dottore.
“Sono fuggiti?” chiese Lakon-tay.
“Si sono rifugiati nella foresta, signore,” rispose Feng.
“Erano armati?”
“Mi parve che avessero delle lance o dei fucili.”
“Forse saranno cacciatori,” disse Lakon-tay. “Non occupiamoci di loro, dottore.”
Raccomandarono agli uomini di guardia di vegliare attentamente e tornarono alle loro tende.
Prima che spuntasse l’alba furono nuovamente svegliati da alcuni colpi di fucile. Erano stati sparati dai battellieri del terzo quarto di guardia contro quelle ombre che si erano nuovamente mostrate sul margine della foresta, per scomparire subito dopo.
Temendo di dover subire qualche attacco da parte di quei misteriosi individui, Lakon-tay fece levare il campo prima ancora che spuntasse il sole.
“Se sono armati di fucili, potrebbero fare una scarica improvvisa,” disse a Roberto. “Vedremo se ci seguiranno sul fiume.”
Per evitare appunto quella scarica, spinsero il balon verso la riva opposta; ed essendo il fiume largo più di cinquecento metri non ebbero più da temere, poiché i fucili usati in quell’epoca dai Siamesi erano di pessima fabbrica e di poca portata.
“Che fossero pirati?” chiese il dottore, quando furono al sicuro.
“Delle persone sospette di certo,” rispose Lakon-tay. “I banditi non mancano nelle nostre foreste.”
“Forse speravano di sorprenderci per rubarci le armi. Mi rincresce per voi, dottore.”
“E perché?”
“Con questa partenza precipitosa, avete dimenticato a terra la pelle del lu-huoi.”
“È vero, generale.”
“Ne troveremo degli altri, non dubitate. Quegli scimmioni non sono rari nelle foreste del settentrione.”
“Ah! Ecco delle altre ricchezze trascurate. Guardate quegli alberi dottore; ma forse sono stati già visitati e trovati privi della preziosa polvere.”
“Che piante sono?” chiese Roberto, che guardava con un certo interesse un gruppo d’alberi d’alto fusto, coronati da un ammasso di foglie dalla tinta assai cupa.
“Sono quelli che dànno la famosa polvere detta d’aquila, che si paga a peso d’oro anche da noi.”
“Che ha un profumo meraviglioso?”
“Sì, dottore.”
“A che cosa serve?”
“La si adopera nelle cremazioni dei re e dei grandi del regno e nelle nostre pagode la si brucia come da voi l’incenso. È così pregiata, che molte tribù pagano le imposte colla polvere d’aquila.”
“Mi hanno detto che ve ne servite anche come medicina.”
“È vero, e si dice che la polvere, mescolata a qualche po’ di gomma disciolta, fortifichi lo stomaco contro ogni sorta di veleni.”
L’italiano fece un gesto di dubbio.
“Eppure tutti l’affermano,” disse Lakon-tay.
“Può essere,” rispose Roberto. “E quella preziosa polvere si trova in tutti gli alberi dell’aquila?”
“No, e occorre una grande abilità per conoscere le piante che la contengono. I capi che ogni anno, nella buona stagione, conducono i drappelli di cercatori, sanno quali sono le piante che devono venire abbattute; lo capiscono dal suono che produce il tronco quando viene battuto fortemente, dall’odore emanato dai nodi e da altri indizi che essi soli conoscono e di cui conservano gelosamente il segreto.
Ordinariamente quella polvere si forma nelle cavità interne dell’albero, che quanto più è vecchio, tanto più ne contiene.
Io ho conosciuto dei boscaioli che hanno fatto delle fortune considerevoli ed in pochissimo tempo, poiché, come vi dissi, l’aquila si paga a peso d’oro.
Dottore, volete occuparvi della cena? Ecco là dei volatili che non attendono altro che di venire fucilati.”
“Venite, Len,” disse Roberto alla fanciulla. “Noi saremo i provveditori della spedizione.”
Delle vaste paludi cominciavano a mostrarsi lungo le due rive del fiume, e gli uccelli acquatici ricomparivano in stormi immensi, volteggiando senza alcuna inquietudine anche sopra il balon.
Vi erano delle cicogne nere colla testa bianca che passeggiavano gravemente fra le canne delle due rive, dando la caccia ai vermiciattoli e alle sanguisughe che sono numerosissime nel Siam; dei plotus melanogaster, volatili che stanno fra gli aironi e i cormorani, col becco acutissimo, la testa piatta e il collo lunghissimo, si tuffavano arditamente nell’acqua per uscire quasi subito, tenendo nel becco dei grossi ca-bong, i pesci migliori che si trovino nei fiumi indocinesi; mentre fra i canneti, saltellavano, cantando a piena gola, numerosi galli selvatici, più grossi di quelli domestici e del pari eccellenti. Le loro grida, che rassomigliano a quelle dei pavoni, risuonavano dappertutto, specialmente là dove si scorgeva qualche boschetto basso, prediligendo quei volatili i luoghi umidi.
“I galli di preferenza,” disse Lakon-tay al dottore.
“Non li risparmieremo,” risposero Len e Roberto.
E non li risparmiarono, no. Le fucilate si succedevano alle fucilate, obbligando i rematori ad accostare ogni momento il balon alla riva per raccogliere gli uccelli uccisi.
Se Roberto si mostrava valente cacciatore, anche la giovane siamese faceva stupire i suoi compatrioti con dei tiri meravigliosi, che inorgoglivano il generale.
Le paludi furono ben presto oltrepassate e i boschi ripresero a regnare fitti, interrotti di quando in quando da una risaia, frequentata solo da pochi solitari aironi.
Qualche gruppo di capanne cominciava ad apparire ed anche qualche barca attraversava di quando in quando il fiume, carica di campagnoli quasi nudi e tutti armati.
“Ci avviciniamo a Saraburi,” disse Lakon-tay al dottore. “È l’ultimo villaggio considerevole che incontreremo; più a nord la regione è quasi deserta.”
“Vi giungeremo oggi?”
“Sì, prima del tramonto.”
Dopo una breve fermata fatta a mezzodì per allestire la colazione e fare raccolta di banane e di noci di cocco in una piantagione, il balon riprese la sua corsa, per giungere alla borgata prima che calassero le tenebre.
Ma solo a sera tarda vi giunse e quando già ormai tutti gli abitanti si erano ritirati nelle loro capanne.
Non avendo nessun motivo per trattenersi in quel villaggio andarono ad accamparsi sulla riva opposta, per ripartire prima ancora che gli abitanti si fossero svegliati.
Alle 6 del mattino i comignoli dorati della pagoda della borgata non erano già più visibili, tanto procedeva veloce il balon.
A dieci o dodici miglia più a nord, la regione era assolutamente deserta. Sulle due rive non si scorgevano che boscaglie, popolate da grosse truppe di sciamang-hobloch, brutte scimmie alte quasi un metro, col pelame nero come il carbone, una striscia bianca sul dorso e sulla fronte, che gridavano senza posa: ulok! ulok! Di risaie e di campi coltivati non vi era più traccia.
“Questi sono veri luoghi da caccia,” disse Lakon-tay al dottore. “In queste foreste abbondano i bufali, i cinghiali, i cervi dalle lunghe corna; e anche le tigri ed i serpenti non sono rari, anzi.”
“Come farei volentieri una battuta,” rispose Roberto.
“Aspettate che risaliamo ancora per qualche giorno il fiume; non perderete nulla nell’attesa. Allora dedicheremo qualche mezza giornata alla caccia per lasciar riposare i nostri battellieri.”
“Ci conto.”
Tutta quella giornata il balon continuò a salire il fiume e anche buona parte del giorno seguente, mettendo a dura prova i muscoli dei battellieri, i quali dovevano fare sforzi erculei per vincere la rapidità della corrente.
Verso le quattro, mentre cercavano un luogo adatto per accamparsi, non volendo il generale affaticare troppo i suoi uomini, superata una curva, si trovarono improvvisamente dinanzi ad un minuscolo villaggio, formato da due dozzine di capanne piantate su pali immersi nell’acqua.
Sulla riva si scorgeva un gran numero di grossi vasi d’argilla, allineati su parecchi ordini: una quindicina di uomini seminudi stavano raggruppati intorno a qualcosa che non si poteva ancora distinguere, e ridevano fragorosamente battendo le mani.
“Che cosa fanno?” chiese il dottore.
“Pare che si divertano,” rispose Lakon-tay.
“Sono contadini?”
“No, cercatori d’olio. Guardate tutti quei vasi…”
“Andiamo a vedere che cosa fanno, padre,” disse Len. “Nulla avremo da temere.”
“Approdiamo, Feng,” ordinò il generale. “Ci accamperemo presso quelle capanne, così saremo più al sicuro dagli assalti delle belve.”
Vedendo accostarsi il balon e sbarcare Lakon-tay con Len ed il dottore, gl’indigeni si affrettarono ad allargare il circolo e interruppero le loro risate.
“Vi divertite a giocare?” chiese il generale, mentre i cercatori d’olio si inchinavano profondamente.
“No, signore,” rispose un vecchio, che doveva essere il capo del villaggio. “Abbiamo preso stamane due testuggini e le facciamo combattere.
Fate largo a questo signore e al farang.”
Il circolo si aperse per lasciare il passo al generale, a Len ed al dottore.
Nel mezzo di quel gruppo c’era una lunga tavola, che aveva i margini rialzati come una cassa, con una sola apertura; e sulla tavola si trovavano due grosse tartarughe di fiume, sui cui gusci erano stati collocati due piccoli fornelli pieni di carbone, che venivano alimentati con violenti colpi di ventaglio.
I due rettili lottavano fieramente fra di loro presso l’apertura, mordendosi crudelmente il collo e le zampe e facendo sforzi poderosi per atterrarsi.
I combattimenti fra le testuggini sono assai apprezzati dai Siamesi, forse più ancora di quelli fra i galli, e dànno luogo a scommesse sfrenate.
Per rendere furiosi quegli animali, che sono piuttosto lenti e di temperamento tutt’altro che bellicoso, gli indigeni collocano sul loro dorso dei fornelli senza fondo. Sentendosi bruciare la corazza, i poveri anfibi cercano di fuggire verso l’unica apertura, e non potendo passare tutti e due in una sola volta, si combattono ferocemente.
Le due testuggini, che si sentivano arrostire il dorso, lottavano disperatamente per uscire. Non riuscendovi, cercavano di respingersi a vicenda, urtandosi violentemente e lacerandosi il collo.
Si rizzavano sulle zampe posteriori, lasciandosi cadere di peso, poi s’investivano con rabbia estrema, mentre le loro corazze fumavano, spandendo all’intorno un nauseante odore di corno bruciato.
I raccoglitori d’olio le incoraggiavano con grida e soffiavano sui fornelli, mentre le scommesse si succedevano con frenesia. Giocavano le loro capanne, i loro vasi d’olio e perfino le vesti che avevano indosso.
“Gl’inglesi hanno qui dei maestri,” disse il dottore, che seguiva con vivo interesse quella strana lotta. “Sarebbero capaci di imitare i Siamesi, essi che fanno combattere tra di loro galli, topi e cani.”
Le due povere testuggini, che il dolore rendeva pazze, erano ormai ridotte in uno stato miserando, eppure non cessavano di contendersi il passaggio. Una aveva perduto una zampa anteriore e l’altra perdeva sangue in abbondanza dal collo, che era stato crudelmente straziato dalla rivale.
“Povere bestie,” disse Len-Pra. “Se continueranno ancora un po’ i carboni cuoceranno loro la spina dorsale. Vi è già un buco nelle loro corazze.”
“Che col tempo i loro padroni tureranno nuovamente,” disse Lakon-tay. “Non le lasceranno morire; sono troppo brave combattenti.”
In quel momento quella che aveva perduto la zampa, vinta dal dolore e stremata dalla perdita di sangue, impotente a sostenere gli urti dell’avversario, abbandonò il campo, fuggendo disperatamente intorno al rialzo.
La vincitrice passò lesta attraverso l’apertura, precipitando in un vaso colmo d’acqua, fra le grida giulive di coloro che avevano scommesso in suo favore e le imprecazioni di quelli che avevano perduto.
Lakon-tay stava per lasciare i cercatori d’olio e far ritorno verso la riva, quando vide giungere due uomini armati di fucili, che non sembravano Siamesi.
Ciascuno portava sulle spalle una scimmia ed una enorme pentola di rame.
“Chi sono costoro?” chiese al vecchio capo, che gli stava accanto.
“Due cacciatori, signore, giunti stamane.”
“Siamesi?”
“Non mi sembra, quantunque parlino la nostra lingua. Mi hanno chiesto il permesso di distruggere le scimmie dei dintorni e hanno già fatto preparare del riso col pimento per questa sera.
Per noi sarà una fortuna se vi riescono. Quelle cattive bestie distruggono i raccolti delle nostre ortaglie.”
I due cacciatori, due, giovani di forme quasi atletiche, dalla pelle quasi nera, dagli occhi foschi, coperti di un semplice languri che arrivava appena alle ginocchia, e armati di due bellissime carabine di fabbrica indiana, scorgendo Lakon-tay si inchinarono quasi fino a terra, avendo notato il distintivo di nobiltà che gli ornava l’alto berretto.
“Avete fatto buona caccia?” chiese il generale.
“Due sole scimmie in quattro ore,” rispose uno dei due. “Non si lasciano avvicinare. Ma questa sera ne prenderemo molte. Sappiamo già dove si radunano.”
“Da dove venite?”
“Da Ajuthia, e siamo ai servigi d’un farang che traffica in pelli d’animali.”
“Me n’ero accorto, vedendo che avete delle così belle carabine. Quando farete la battuta?”
“Fra due ore, signore. Il riso è pronto e ben pimentato.”
“Dottore,” disse Lakon-tay, volgendosi verso Roberto. “Volete assistere a quella caccia? Sarà interessante, ve lo assicuro.”
“Volentieri, se questi cacciatori non rifiuteranno la nostra compagnia.”
“Ad un farang nulla si rifiuta,” rispose uno dei due.
“Andiamo a cenare,” disse Lakon-tay. “Fra due ore, appena il sole sarà tramontato, andremo nei boschi con questi uomini.”

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