Capitolo XX Nuovi complotti del puram

Quantunque fossero convinti che gli autori di quel misterioso attentato non avrebbero avuto il coraggio di fare un ritorno offensivo, né il generale, né i suoi compagni osarono quella notte addormentarsi.
Passarono quelle poche ore che li dividevano dall’alba attorno ai fuochi, colle carabine a portata di mano, gustando la deliziosa tromba dell’elefante e sorseggiando alcune tazze di tè.
Il dottore, che salvo alcune ammaccature ed un po’ di stordimento non aveva riportato alcuna ferita da quella caduta, che pure avrebbe potuto avere conseguenze gravissime, tenne buona compagnia ai suoi amici, consumando non poche sigarette della sua riserva.
Il pilota dal canto suo, per meglio allontanare tutti i sospetti, non abbandonò il suo posto di guardia avanzata, imprecando continuamente contro i banditi che avevano osato tendere un agguato ad un farang, persona quasi sacra e da tutti rispettata nel Siam.
Solo verso l’alba presero un po’ di riposo, persuasi ormai che quei furfanti, dopo la lezione ricevuta, si fossero definitivamente allontanati, rinunziando alle loro criminose intenzioni.
Verso le dieci Lakon-tay fece levare il campo, ansioso di lasciare quella valle pericolosa e di raggiungere Ka-ho-lai, dove contava di fare le sue ultime provviste prima di intraprendere la traversata della parte più selvaggia e più deserta del Siam centrale e di spingersi verso il Tuli-Sap.
Cinque ore dopo lasciavano le montagne, senza aver fatto alcun incontro sgradevole. Stavano per slanciarsi attraverso i terreni ondulati che dovevano condurli alla città, quando ai loro orecchi giunse ancora quella nota misteriosa che si era fatta udire nella vallata.
Il drappello si arrestò subito, guardando verso le ultime colline che aveva appena lasciato.
“Questo è un segnale!” esclamò Lakon-tay, corrugando la fronte. “Chi sono quei misteriosi individui che ci seguono con tanta ostinazione e indicano la loro presenza con quella nota metallica, che può essere emessa solo da uno strumento di rame o di bronzo? Ciò m’inquieta. Che cosa ne dici, pilota?”
“Io dico, signore, che quegli uomini devono avere uno scopo segreto per seguirvi,” rispose Kopom. “Avete qualche nemico personale?”
“Nessuno, che io sappia.”
“Che cosa vogliono dunque quei banditi?”
“Che siano gli stessi che mi hanno derubato del balon?”
Il pilota alzò le spalle.
“Quelli dovevano essere dei pirati,” disse. “Bah! Si stancheranno presto di seguirci, e non oseranno mostrarsi nei pressi di Ka-ho-lai.
Affrettiamo la marcia, signore. Prima del tramonto saremo al sicuro nella città.”
“Ci seguiranno anche nel Siam centrale?” chiese il dottore.
“Se non hanno avuto il coraggio di assalirci nella valle, io spero che rinunceranno per sempre alle loro mire.
Probabilmente cercavano di rubarvi i cavalli e le armi. Avanti, signore. Ka-ho-lai non è lontana.”
Non udendo più ripetersi quel misterioso segnale, partirono al trotto, seguiti dai cinque cavalli della riserva che erano guidati da Feng.
Cominciarono allora ad apparire piccoli villaggi, qualche pagoda e anche dei campi coltivati. Fra le risaie e le piantagioni d’indaco e di canne da zucchero, si vedevano numerosi contadini occupati a coltivare i loro poderi.
La boscaglia si diradava rapidamente, ma quei vuoti non dovevano prolungarsi oltre Ka-ho-lai. Più a nord essa avrebbe ripreso il suo impero.
Verso le quattro, la cittadina comparve improvvisamente su una piccola altura, colle sue due pagode dai comignoli dorati, i suoi bastioni semidiroccati e le sue rovine antichissime.
Un’ora dopo, con un’ultima galoppata, il drappello vi fece la sua entrata, e prese alloggio in una comoda e vasta capanna che Feng, con pochi tical, aveva fatto sgombrare dai suoi proprietari.
Ka-ho-lai si può dire che sia una delle ultime città note del regno siamese. Altre ve ne sono al settentrione, disperse a distanze enormi, essendo il Siam centrale pressoché deserto.
Non ha importanza che pei suoi mercati, ai quali intervengono in certe epoche dell’anno dei commercianti francesi per vendere armi e polvere da sparo, di cui vi è grande ricerca.
Per il resto è una cittadina in piena decadenza, con un gran numero di rovine antichissime, pagode sfondate, muraglie diroccate, bastioni crollanti, avanzi d’una città che secoli prima doveva essere stata floridissima.
Contando di fermarsi un giorno o due, prima di intraprendere la traversata della regione quasi deserta che li separava dal lago Tuli-Sap, Lakon-tay ed i suoi compagni fecero collocare i loro bagagli nella capanna e riparare i cavalli in una tettoia vicina, ceduta dal proprietario.
Avendo dormito pochissimo la notte precedente ed essendo ormai chiuso il mercato, rimandarono all’indomani gli acquisti che avevano intenzione di fare: armi, polvere da sparo, coperte e tende di ricambio, viveri.
Dopo aver cenato frettolosamente, prepararono i loro letti, mentre il pilota, dicendo che preferiva dormire all’aperto, si recava sotto la tettoia occupata dai cavalli, meglio aerata della capanna.
Il miserabile doveva aver preso già precedentemente degli accordi col puram. Ed infatti non era trascorsa ancora un’ora da quando il generale ed i suoi compagni si erano addormentati, che egli scivolò furtivamente fuor dalla tettoia, non senza essersi prima armato del suo coltellaccio birmano.
Osservò prima se la porta della capanna era chiusa e se il lume era stato spento, poi, certo che tutti dormivano, scavalcò una stecconata e si trovò nella via.
Vide subito, quantunque la notte fosse piuttosto scura, essendo il cielo coperto da grosse nuvole, un uomo appoggiato ad una casupola che sorgeva di fronte a quella del generale.
“Deve essere uno di loro,” mormorò Kopom. “Comunque è meglio che prima me ne assicuri.”
Si mise fra le labbra una foglia che aveva strappato ad un arbusto ed imitò il sibilo del serpente amadriade.
L’uomo che stava fermo presso la casa si staccò sollecitamente dalla parete e mosse verso Kopom, dicendogli:
“Ti aspettavo.”
“Dov’è il padrone?” gli chiese il pilota.
“Si è accampato fuori città, sull’orlo di una piccola jungla. Non osa mostrarsi qui, anzi questa notte stessa ripartiremo.”
“Conducimi subito da lui.”
“E il generale?”
“Dormono tutti; non t’inquietare.”
Uscirono dalla borgata senza incontrare alcuno, attraversarono una piantagione di canne da zucchero e dopo venti minuti giunsero presso un immenso campo di bambù altissimi e spinosi. Nelle tenebre si vedevano agitarsi delle ombre umane e dei cavalli.
La guida mandò un fischio, ed un uomo sorse da terra, facendosi rapidamente innanzi.
“L’hai trovato?” chiese con voce aspra.
“Te lo conduco,” rispose la guida.
“Eccomi, signore,” disse Kopom, inchinandosi dinanzi a Mien-Ming.
Il puram, come al solito, non pareva fosse di buon umore, perché disse subito con accento furioso:
“È dunque protetto da qualche genio quel maledetto farang, per sfuggire sempre ai nostri agguati?”
“Non so, signore, se goda qualche speciale protezione,” rispose Kopom. “So solo che egli è ancora vivo, e che malgrado quel capitombolo sta bene quanto me e te.”
“Stupido! Dovevi impedirgli di assalire l’elefante. Senza quel dannato bestione, a quest’ora sarebbe a bordo di qualche giunca, ben legato, in viaggio per la Birmania o pel Tonchino.”
“Mi ero provato a trattenerlo, ma non mi ha voluto ascoltare.”
“Ha nessun sospetto Lakon-tay?”
“Nessuno, mio signore. Crede che gli uomini che hanno cercato di catturarlo fossero dei banditi delle foreste.”
“Sai che ho perduto due dei miei e che siamo rimasti solo in nove? Lakon-tay, Feng e Len-Pra tirano come i farang e non sbagliano mai.”
“Specialmente Len-Pra,” disse maliziosamente Kopom.
“Sì, lo so,” rispose Mien-Ming a denti stretti. “Che non riesca a sbarazzarmi di quel rivale? Len-Pra l’ama, è vero?”
“Mi sembra di sì, signore, e se io fossi al vostro posto, getterei da parte gli scrupoli e lo farei avvelenare.”
“No, non oso più ucciderlo, specialmente ora che si trova sotto la protezione di Lakon-tay, e quasi sono lieto che sia sfuggito alla morte. Un solo sospetto mi perderebbe.
A Bangkok sarebbe altra cosa.”
“Qui siamo in un paese quasi selvaggio.”
“Ma a Lakon-tay potrebbe sorgere qualche sospetto, e allora che cosa accadrebbe di me? Se ne immischierebbero le potenze estere, e tu sai che non sono troppo tenere verso di noi.
A me basta catturarlo, imbarcarlo per il Tonchino o per la Cina, insomma allontanarlo.”
“E Len-Pra?”
“Scomparso il farang, saprei ben io conquistare il suo cuore ed imporle la mia mano. Lascia che tornino a Bangkok con o senza il driving-hook e poi vedrai.
Occupiamoci del farang, che m’interessa più di tutti gli elefanti bianchi dell’Indocina. La tua fortuna, ricordalo, dipende dalla scomparsa di quell’uomo.”
“Sono pronto a ucciderlo.”
“Per venire presto o tardi catturato, e poi torturato per farti strappare delle confessioni e rovinare anche me? No, tu non devi rivelare il nostro gioco, anzi devi mostrarti sempre devoto a Lakon-tay, per meglio ingannarlo. Dove vanno ora?”
“Al Tuli-Sap.”
“Conosci quel lago?”
“Perfettamente, signore.”
“Ed io non meno dite. Se provassimo a catturare il farang nelle foreste?”
“Stanno tutti in guardia ora, e l’europeo non si allontanerà più dal campo. Forse sulle rive del lago si potrebbe tentare il colpo. Lasciamo loro il tempo di riprendere fiducia.”
“Sai dove si trovano le rovine della pagoda di Kai-hoa?”
“Sì, padrone.”
“Là noi rinnoveremo il colpo. Ho già il mio piano, e col lago vicino faremo presto ad imbarcarlo pel Mekong.”
“E se non riuscissimo?”
Un lampo terribile balenò negli occhi obliqui del Cambogiano.
“Allora,” disse con rabbia concentrata, “non risparmierò più nessuno, e vedremo se i profanatori della città del Re lebbroso sfuggiranno alla rabbia dei miei compatrioti. Ah, Len-Pra! Ti preferisco morta, che moglie di quell’odiato farang.
Va’: ci rivedremo alle rovine di Kai-hoa.”
Kopom, spaventato da quell’improvviso accesso di furore, non si fece ripetere l’ordine due volte. Fece un inchino e s’allontanò velocemente, rientrando poco dopo nella borgata.
“Gli affari minacciano di guastarsi,” mormorava, facendo dei gesti che tradivano un vivo malumore. “Se non riesco questa volta a dargli nelle mani il farang, chissà a quali eccessi si lascerà trascinare il puram. Bah! Non disperiamo: la mia stella non è ancora tramontata, ed il berretto di mandarino me lo vedo danzare ancora dinanzi agli occhi.”
Mezz’ora dopo russava beatamente, accanto ai cavalli, sognando ricchezze favolose e onori quasi reali.
Il giorno appresso Lakon-tay ed i suoi compagni s’occuparono di completare il loro armamento e le loro provviste, aiutati in ciò dal governatore della cittadina che si era messo a loro disposizione.
Non riuscì loro difficile procurarsi alcune buone carabine e qualche ottimo fucile da caccia, armi portate là qualche mese prima da un negoziante francese del Tonchino, e anche della polvere da sparo di eccellente qualità.
Le provviste poi furono accuratamente imballate entro sacchi di tela spalmati di caucciù, affinché le piogge non le danneggiassero.
Alle quattro pomeridiane il drappello, seguito dai cinque cavalli di ricambio ben carichi, lasciava la cittadina puntando verso il nord-est, nella cui direzione si trovava il Tuli-Sap.
Il pilota, che diceva sempre di conoscere la regione e che si era anzi opposto all’idea di prendere una guida, si era messo alla testa della piccola carovana, e bisognava credere che quel furfante avesse già altre volte percorso il Siam centrale, poiché non esitava mai sulla via da prendere.
Quella stessa sera già si trovavano a più di venti miglia da Ka-ho-lai, in mezzo alle foltissime jungle che occupano una buona parte della regione compresa fra gli alti corsi del Menam e del Mekong.
Si accamparono come al solito, accendendo parecchi fuochi per tenere lontane le fiere e dividendosi i quarti di guardia, dai quali però Len fu esclusa nonostante le sue proteste.
L’indomani ed i giorni seguenti continuarono la marcia verso il nord-est, ora attraversando jungle dove i cavalli faticavano assai ad aprirsi il passo, ora foreste immense formate per la maggior parte di tek giganteschi, ed ora regioni paludose, senza mai incontrare né gruppi di capanne, né abitanti.
Di quando in quando li coglievano degli acquazzoni furiosi, i quali tramutavano i terreni in vaste pozzanghere, che il sole, sempre ardentissimo, dopo poche ore asciugava perfettamente.
Per cinque giorni continuarono la marcia avanzando in regioni sempre più deserte e selvagge, poi al sesto si arrestarono in piena foresta per riposarsi ventiquattro ore.
I cavalli soprattutto avevano bisogno d’una sosta, avendo le zampe rovinate dalle sanguisughe che strisciavano a battaglioni su quei terreni saturi d’umidità.
“Ne approfitteremo per procurarci un po’ di carne fresca,” disse Lakon-tay. “Già da un po’ non viviamo che di pesce secco e di carne salata. In queste foreste la selvaggina non scarseggerà.”
La proposta, come si può ben immaginare, fu accolta con gioia, soprattutto da Roberto, la cui passione per la caccia non era punto diminuita, malgrado la brutta avventura toccatagli nella valle. D’altronde più nessuno li minacciava ed avevano quasi dimenticato quei misteriosi banditi che avevano tentato di assalirli.
Per precauzione circondarono l’accampamento con una cinta di bambù incrociati, anche per impedire ai cavalli di allontanarsi e di cadere sotto le unghie di qualche tigre.
Fecero colazione presso la riva d’un torrentello, che scorreva a pochi passi dall’accampamento; poi il generale, il dottore e la giovane presero le loro carabine, risoluti a non far ritorno a mani vuote.
“Veglia sui nostri cavalli,” disse Lakon-tay al suo fedele servo, prima di allontanarsi.
“Non temete, padrone,” rispose Feng.
“E noi, badiamo di non smarrirci,” aggiunse poi il generale, rivolgendosi al dottore. “È facile perdersi in queste foreste, e faremmo bene a fare qualche incisione sugli alberi, sempre alla nostra sinistra. Così si regolano i boscaioli ed i cercatori di polvere d’aquila.”
Il dottore dovette ben presto convincersi che quella precauzione era indispensabile e anche saggia.
Infatti non avevano percorso trecento metri, che si trovarono in mezzo ad un vero caos di vegetali, i quali permettevano a malapena il passaggio ad un quadrumane, tanto crescevano uniti e tanta era la moltitudine delle piante parassite che s’attorcigliavano attorno ai tronchi e s’aggrovigliavano ai rami, per poi pendere fino al suolo in festoni così enormi da resistere a tutti gli sforzi.
I fichi baniani estendevano le loro foglie smisurate in tutte le direzioni, incrociandole in mille guise con quelle non meno gigantesche degli areca e dei betel, mentre tutt’intorno si ammassavano immensi cespugli di pepe selvatico e masse di rotang, fra gruppi di sagù, di alberi del sandalo, di piante gommifere d’ogni sorta, che formavano delle muraglie di verzura quasi impenetrabili.
Al suolo centinaia e centinaia di tronchi imputridivano, coperti da muschi giallastri e da muffe, fra cumuli di fogliame e di frutta in decomposizione, esalanti miasmi pericolosi.
In mezzo a tutti quei vegetali, miriadi di lucertole volanti si slanciavano fra i rami, mentre sul terreno impregnato d’umidità guizzavano battaglioni di sanguisughe avide di sangue, che invano si accanivano contro i grossi stivali dei cacciatori.
Di quando in quando il dottore e Lakon-tay, che aprivano il passo a Len-Pra, incappavano in certe tele di ragno così resistenti, che non sempre cedevano al primo urto e s’appiccicavano maledettamente alle loro vesti, reti tese da certi ragni grossissimi i quali estraggono dal proprio corpo un filo di seta che non è meno solido di quello prodotto dal baco da seta.
“Per mille diavoli!” esclamava di tratto in tratto il dottore, che menava colpi disperati su quei vegetali e sudava come se si trovasse in un forno. “Non potremo andare molto lontano se la continua così.”
Fortunatamente, dopo un quarto d’ora trovarono nella foresta un solco larghissimo, fiancheggiato da alberi e da ammassi di rami.
“La pista di qualche banda di elefanti,” disse Lakon-tay, fermandosi. “Quei colossi si sono aperti un comodo passaggio, di cui approfitteremo.”
“Malgrado la brutta avventura toccatami, non mi spiacerebbe trovarmi nuovamente di fronte a uno di quei giganti,” disse il dottore.
“È una pista vecchia,” rispose il generale, dopo aver osservato i cumuli di rami. “Le foglie sono appassite e da parecchio tempo.”
“Generale, torneremo all’accampamento a mani vuote? Comincio a temerlo.”
Come per dargli una smentita, in quello stesso momento sulla loro destra udirono un grido stridente.
“Che cos’è?” chiese Len-Pra, armando rapidamente la sua carabina.
Il generale corrugò la fronte.
“Pessima selvaggina, che non fa per noi e che sarà meglio evitare.”
“Non sarà già una pantera!” disse il dottore.
“No, ma è un animale forse più pericoloso, se colui che esso aggredisce tenta di difendersi.”
“Sicché l’uomo che lo trova sui suoi passi deve lasciarsi sbranare tranquillamente ?”
“Non corre pericolo se non oppone resistenza.”
Un altro grido, più forte e più vicino del primo, ruppe il profondo silenzio che regnava nella folta foresta.
“Sì, è un thu-vac, e forse ci ha scorti e viene a misurare con noi la forza dei suoi muscoli. Preferirei che ci risparmiasse una partita di lotta.”
“Chi verrà a offrirci un simile divertimento?” chiese il dottore, che non riusciva a comprendere.
“È un divertimento che talvolta diventa pericoloso, e vi consiglio di lasciarvi atterrare colla migliore buona grazia del mondo.”
“Mi direte almeno chi sarà questo lottatore, perché non vi siete ancora spiegato.”
“Lo dicevo io che doveva averci scorti: eccolo che s’avanza. Non temete: lasciatevi atterrare e non farà male a nessuno, I thu-vac sono sempre di buon umore.”
Il dottore si voltò vivamente, udendo un fruscio di fronde, e vide avanzarsi una scimmia alta più d’un metro e mezzo, di forme massicce, con due braccia grosse e muscolose. Aveva un aspetto ferocissimo, con quei suoi occhietti neri incavati e quella sua larga bocca, armata di denti aguzzi e solidi, che gli andava da un orecchio all’altro.
“La scimmia che ride!” esclamò Roberto, gettandosi dinanzi a Len-Pra per proteggerla.
“No, non è un lu-huoi; è un thu-vac, ossia una scimmia lottatrice.”
“La freddo con una fucilata in mezzo al petto.”
“Non commettete una simile imprudenza, dottore,” s’affrettò a dire Lakon-tay. “Forse non è sola, e le sue compagne non tarderebbero a vendicarla. Lasciate che si accosti, anzi deponete il fucile.”
Il quadrumane si era fermato a pochi passi dai cacciatori, guardandoli con una certa curiosità, cercando probabilmente colui che poteva opporre una valida resistenza. Parve che la pelle bianca del dottore gli facesse un certo effetto, perché si diresse subito verso di lui, dondolandosi comicamente e soffregandosi il villoso petto per meglio esercitare i muscoli.
“Come è brutto questo scimmione!” esclamò Len-Pra. “Signor Roberto, guardatevi e non fidatevi. Ce l’ha con voi.”
“Lasciate che s’accosti,” rispose il dottore, rassicurato pienamente dalle parole di Lakon-tay. “Se vuol provare a misurarsi con me, faccia pure.”
“E poi, noi saremo pronti ad intervenire con due colpi di carabina,” disse il generale.”
Il thu-vac si fermò dinanzi a Roberto, guardandolo attentamente, poi si lasciò sfuggire un grande scoppio di risa, aprendo la bocca da un orecchio all’altro e tenendosi il ventre colle mani.
Evidentemente quella pelle bianca era la causa del suo fragoroso accesso d’allegria.
Ad un tratto però assunse un aspetto feroce, allungò le braccia e tentò di afferrare il dottore, il quale invece si ritrasse lestamente, cercando di atterrarlo con uno sgambetto che non ebbe però il desiderato successo.
“Padre!” esclamò Len-Pra, spaventata.
“Lascia fare,” rispose il generale.
Il thu-vac, soddisfatto forse dell’abile mossa del suo competitore, tornò a stropicciarsi le braccia, poi, con uno slancio fulmineo, si gettò sull’avversario, afferrandolo strettamente pei fianchi e scuotendolo ruvidamente.
Il dottore, che nella sua gioventù era stato un lottatore non disprezzabile, si provò a resistergli, ma comprese subito che sarebbe stata una follia tener testa a quel quadrumane, che sviluppava una forza enorme.
E infatti non erano trascorsi cinque secondi, che si trovò a terra colle gambe in aria.
Il thu-vac lanciò un grido stridente, un grido di vittoria; poi, contentissimo di aver atterrato l’avversario, si allontanò tranquillo, dondolandosi sempre comicamente, e scomparve nel fitto della boscaglia.
Il dottore si era subito rialzato, fregandosi i fianchi.
“Ah! diavolo!” esclamò. “Che stretta! Ci vorrebbe un gigante per lottare con queste scimmie.”
“Vi ha fatto male, signor Roberto?” chiese premurosamente Len-Pra.
“Mi ha stretto un po’ forte, anzi troppo forte, tanto che credevo mi stritolasse le costole, ma niente di più. Sono ben strane quelle scimmie, in fede mia!”
“E come avete veduto, non pericolose, quando non si irritano,” rispose Lakon-tay. “I nostri montanari quando le incontrano non si dànno nemmeno la cura di evitarle. Si lasciano atterrare e tutto finisce lì.”
In quel momento un urlo terribile echeggiò a breve distanza, seguito da un miagolio rauco, che pareva uscito da una canna di metallo, e da uno spezzarsi furioso di rami.
“Che cosa succede?” chiese il dottore, raccogliendo rapidamente la carabina.
“Qualcuno ha assalito il thu-vac,” rispose Lakon-tay. “Questo è il suo grido di guerra. Venite!”

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