Capitolo XXIX Il capo degli Stienghi

Da alcuni cespugli, che crescevano attorno ai tronchi degli alberi, avevano fatto capolino delle teste per nulla piacevoli e delle braccia che impugnavano archi e sciabole. Sbucavano da tutte le parti dei corpi nerastri e quasi nudi, avanzando lentamente attraverso lo strato d’acqua, cercando però di tenersi riparati dietro gli alberi ed i cespugli. Quanti erano? Molti senza dubbio perché ad ogni istante altri ne comparivano, come se sorgessero di sottoterra; tutti erano armati.
“Gli Stienghi?” esclamò il generale, staccando rapidamente la carabina che teneva appesa alla sella. “Non fidiamoci di costoro, se non appartengono alla tribù di Feng. So per prova quanto siano pericolosi e crudeli questi selvaggi.”
Vedendo i due cavalieri e la giovane siamese fermarsi e levare i fucili, armi che certamente conoscevano, gli Stienghi si erano prudentemente nascosti, senza rompere il cerchio.
Quei selvaggi abitanti delle foreste dovevano aver scorto già da qualche tempo i cavalieri e, approfittando della loro sosta, con una mossa abile li avevano circondati in modo da impedire loro tanto di avanzare come di retrocedere.
“Li conosci, Feng?” chiese Lakon-tay un po’ inquieto.
“Sono Stienghi, padrone, ma io non posso sapere, dopo tanto tempo, se appartengono alla mia tribù. Si rassomigliano tutti e non hanno nulla che li distingua.”
“Prova a parlamentare e domanda loro che cosa vogliono e perché ci chiudono il passo.”
“Volevo proportelo io.”
“Bada alle frecce!”
“Me ne guarderò. Rimani qui tu e non fare un passo innanzi.”
Lo Stiengo armò la carabina, snudò il coltellaccio e avanzò lentamente verso i cespugli che gli stavano di fronte, dietro i quali si trovava nascosto un drappello piuttosto numeroso di selvaggi.
Giunto a cinquanta passi, ossia ancora fuori tiro da quei dardi pericolosi, fermò il cavallo, gridando nella sua lingua:
“Dov’è il capo? Io vengo da amico e non già da nemico.”
Udendo quelle parole, dieci o dodici selvaggi, che erano rapidamente sbucati dai cespugli tenendo gli archi tesi, abbassarono le frecce, poi, dopo una breve esitazione, le ricollocarono nelle faretre.
Era un segno di pace e Feng, che conosceva troppo bene gli usi di quelle tribù, si affrettò a sua volta ad abbassare la carabina, dicendo: “Siamo amici: chiamatemi il capo.”
Un momento dopo un vecchio selvaggio dai capelli lunghissimi, la barba che gli scendeva fino al petto, il viso tutto grinzoso e che portava nella fascia due sciabole dall’impugnatura di ottone e sul capo un diadema di penne d’uccello lira, uscì da un gruppo di piante, avanzando verso Feng che rimaneva sempre immobile.
“Chi sei tu che parli la nostra lingua?” gli chiese.
“Un uomo della vostra razza,” rispose lo Stiengo.
“E gli altri?”
“Un generale del Siam e sua figlia.”
“Se tu sei veramente uno Stiengo, dimmi a quale tribù appartieni,” disse il capo.
“A quella dei Naconnyok.”
Il capo non poté reprimere un gesto di stupore.
“Alla mia,” disse poi. “Chi sei tu dunque?”
“Feng, figlio di Nayan, il cacciatore di bufali.”
“Feng, hai detto?” gridò il capo, gettando via l’arco che teneva in mano. “Il ragazzo raccolto da un siamese, quando ferveva la guerra in queste foreste?”
“Chi sei tu dunque che sai tante cose?” chiese il servo di Lakon-tay.
“Non mi conosci più dunque?” chiese il capo, avanzando velocemente verso il cavallo. “Io sono il capo dei Naconnyok, il fratello di tua madre.”
Feng mandò un grido e si slanciò giù dal cavallo, precipitandosi verso il capo che lo aspettava a braccia aperte.
“Tu sei il fratello di mia madre!” esclamò, abbracciandolo. “Padrone, padrone, noi siamo salvi!”
Lakon-tay e Len-Pra, vedendolo fra le braccia del capo, si fecero avanti, riappendendo le carabine all’arcione, mentre gli Stienghi uscivano dai cespugli in gran numero, senza mostrare intenzioni bellicose.
“Il mio padrone, che mi ha adottato e che mi ama come un figlio,” disse Feng al capo, presentandogli il generale.
“Essi sono miei ospiti,” rispose il selvaggio. “Che mi seguano al villaggio, prima che scoppi l’uragano; la riconoscenza è una virtù degli Stienghi.”
Due minuti dopo la comitiva era in marcia. Duecento guerrieri scortavano i cavalieri, aprendo a gran colpi di sciabola un largo sentiero nella fitta foresta umida, mentre in cielo cominciava già a tuonare e a lampeggiare.
Il capo, che discorreva animatamente con Feng, indicava la via e pareva soddisfatto d’aver ritrovato dopo tanti anni il nipote, che aveva temuto di non rivedere mai più.
Cominciavano a cadere le prime gocce, quando la truppa giunse al villaggio del capo, che sorgeva sulla riva del Kun-Boreye.
Esso era composto da un centinaio di capanne, abbastanza ampie e formate da bambù intrecciati, aperte ai lati e collocate su pali alti una decina di metri, per mettere gli abitanti al sicuro dagli assalti delle tigri, se non dalle pantere che sono abili arrampicatrici.
Era un lusso veramente eccezionale, accontentandosi per lo più gli Stienghi d’una semplice tettoia costruita al momento, con pochi bastoni e poche foglie di banano.
Il capo fece sgombrare da coloro che la abitavano una delle capanne più vaste ed invitò Feng, il generale e Len-Pra a prenderne possesso, cosa che i tre fecero subito, poiché l’uragano cominciava già ad imperversare con estrema violenza. Fece portare poi agli ospiti del pesce secco, un quarto di cervo, alcuni vasi di toddy, della frutta, dei rami resinosi e delle coperte filate grossolanamente.
Quando furono soli, Lakon-tay e Len interrogarono ansiosamente Feng, per sapere se i rapitori erano giunti al villaggio o se erano stati visti passare.
“Sì,” rispose lo Stiengo, “sono stati scorti stamane da due cacciatori, ma non vi era con loro nessun uomo bianco. Il capo me lo ha giurato su Brâ.”
“Quanti erano?
“Dieci, tutti a cavallo.”
“E il loro capo?”
“Ho la certezza che fosse Mien-Ming, dalla descrizione che mi ha fatto di lui il capo.”
“Il miserabile!” esclamò Lakon-tay. “E dove si dirigevano?”
“Sono stati visti attraversare il fiume, poi scomparire nella foresta della riva opposta.”
“Ma e il dottore, allora?” chiese Len con angoscia. “Che l’abbiano ucciso?”
“Non credo che Mien-Ming abbia osato tanto,” disse Lakon-tay. “Gli uomini bianchi sono troppo temuti e lo stesso re si guarderebbe dal farne uccidere uno.”
“Padrone,” disse in quel momento Feng. “Vi ricordate dell’impronta di quel remo che abbiamo scoperto sulla riva del lago?”
“Sì, e con ciò?”
“Che l’abbiano imbarcato, il dottore?”
“Per condurlo dove?”
“Io non lo so, tuttavia presto o tardi riusciremo a saperlo. Un uomo bianco non può sfuggire inosservato.”
“Domani chiederai al capo di fare delle ricerche, promettendogli dei regali se riesce a trovare il nostro disgraziato compagno. E tu, Len, va a riposarti; questa notte nulla possiamo fare, specialmente con questo uragano.”
Si avvolsero nelle coperte e cercarono di addormentarsi. Però nessuno riuscì a chiudere gli occhi, tanto erano rattristati. E poi l’uragano non permetteva di dormire, con tutti quei tuoni assordanti, quelle raffiche impetuose che scuotevano furiosamente la capanna minacciando di abbatterla, e quei rovesci d’acqua che penetravano perfino dentro la stanza, filtrando fra le foglie del tetto. Solamente verso l’alba, essendosi la bufera un po’ calmata, poterono riposare qualche ora. Ai primi raggi del sole erano già in piedi.
Stavano per lasciare la capanna, quando videro il capo salire precipitosamente la scala di fibre di rotang, che Feng non aveva ritirato.
“L’uomo bianco è stato visto!” gridò, entrando come un fulmine.
“Dove?” chiesero ad una voce Len-Pra, il generale e Feng.
“Sul lago, assieme ad alcuni Stienghi che montavano una piroga e che pareva si dirigessero verso la foce di questo fiume.”
“Tuoi sudditi?” chiese Feng.
“No, appartengono ad un’altra tribù, che ha i suoi villaggi più a settentrione, verso Theuc-Thio.”
“Era vivo?” chiese Len-Pra.
“Sì, vivo e anche libero.”
“Chi lo ha visto?” chiese Lakon-tay.
“Uno dei miei uomini, che ieri, verso il tramonto, stava pescando sulla riva del lago.”
“Ha veduto la piroga imboccare il fiume?”
“Sì.”
“Allora è necessario rivolgere da quella parte le nostre ricerche,” disse Len-Pra.
“Ho già inviato verso la foce tre piroghe armate ed ho dato ordine agli equipaggi di arrestare quegli Stienghi e di condurre qui l’uomo bianco. Ho mandato anche dei cacciatori sulle rive del lago e nelle foreste.”
“Padre, partiamo anche noi,” disse Len-Pra.
“È meglio attendere il ritorno delle piroghe, padrona,” disse Feng. “Se non avranno raggiunto gli Stienghi, ci metteremo allora anche noi in movimento.”
“Sarà lunga la loro assenza?”
“Il fiume è grosso assai e gli equipaggi avranno molto da fare per rimontare la corrente,” rispose il capo. “Mi si dice anzi che verso la foce il fiume sia straripato e abbia invaso le foreste delle due rive. Venite a fare colazione a casa mia e aspettiamo. L’uomo bianco, presto o tardi, lo si troverà, siatene certi.”
Len-Pra si arrese, quantunque a malincuore, alle ragioni del capo e tutti si recarono nella dimora dello Stiengo, che era più ampia, più comoda e anche meglio riparata, colle pareti ed il pavimento coperti da belle stuoie variamente dipinte con succhi vegetali.
La colazione fu triste, quantunque il capo si sforzasse continuamente di rassicurarli sulla sorte del dottore.
Dopo il mezzodì un uomo giunse al villaggio. Non veniva dalla parte del fiume, bensì dalle rive del lago, e recava una notizia preziosa che fece balzare dalla gioia il cuore della fanciulla.
Da una donna che raccoglieva frutta nella foresta prossima al lago, era stato visto un uomo dalla pelle bianca, vestito pure tutto di bianco, il quale era approdato su una specie di zattera, allontanandosi qualche ora dopo verso sud.
“Il dottore!” esclamarono Len-Pra e Lakon-tay.
Non si chiesero nemmeno come mai il loro compagno, che era stato visto il giorno innanzi su una piroga montata dagli Stienghi di Theuc-Thio, poteva ora trovarsi solo, così lontano dalla foce del Kun-Boreye.
“A cavallo! A cavallo!” gridarono. “Partiamo!”
Il capo, che era troppo vecchio per seguirli, formò una scorta di otto giovani, valenti corridori e cacciatori, che conoscevano alla perfezione le foreste circostanti il lago, e dieci minuti dopo Len-Pra, Lakon-tay e Feng lasciarono il villaggio, dirigendosi verso levante.
Erano ormai certi di raggiungere il dottore, il quale non poteva percorrere certamente molto cammino.
Nei loro animi era già nato il sospetto che egli si fosse diretto verso sud, nella speranza di raggiungere la vecchia pagoda e, come sappiamo, non s’ingannavano.
Verso sera giunsero sulla riva del lago, là dove la donna aveva detto d’aver visto sbarcare l’uomo bianco.
Trovarono il tetto d’una capanna arenato sulla sabbia e semisfasciato, poi, allargando le ricerche, riuscirono a scoprire le impronte lasciate da un uomo che calzava stivali con grossi chiodi. Non rimaneva più alcun dubbio. Era la pista del dottore, giacché gli Stienghi non conoscevano l’uso degli stivali.
Len-Pra era raggiante e non lo erano meno Lakon-tay e Feng. Fu deciso di continuare le ricerche e di seguire quella pista che si dirigeva verso sud, seguendo le rive del lago.
Fecero un’ampia raccolta di rami resinosi e ripartirono, conducendo i cavalli a mano, essendo il margine della foresta così folto da non permettere il passaggio d’un cavaliere.
Così, verso le dieci della sera, ossia due ore dopo il tramonto, giunsero sulla riva dell’ampia palude che aveva arrestato il dottore.
Fecero una sosta di qualche ora per mangiare un boccone, avendoli il capo provvisti di una scorta di viveri e di noci di cocco piene di toddy, poi seguirono la riva della palude.
Le impronte lasciate dal dottore su quel suolo umidissimo erano sempre visibili, specialmente alla luce delle torce resinose. Si dirigevano ora verso ovest.
“Sì,” disse Lakon-tay. “Il dottore cerca di raggiungere la vecchia pagoda. Chissà che non lo troviamo all’accampamento.”
“Quale gioia proverò nel rivederlo!” esclamò Len-Pra, che piangeva e rideva ad un tempo. “Povero dottore! Chissà quante gliene avranno fatte provare i suoi rapitori!”
“Vi è una cosa che non riesco a capire.”
“Quale, padre?”
“Vorrei sapere perché Mien-Ming, invece di tenerlo prigioniero, lo ha affidato a quegli Stienghi.”
“Lo sapremo dal dottore stesso.”
“Alt!” disse in quel momento un uomo della scorta, che precedeva i compagni.
“Vi sono delle macchie di sangue qui!”
Len-Pra, udendo quelle parole, si sentì mancare.
“Che abbiano ucciso il dottore?” gridò.
“No,” disse Feng. “Ecco qui le sue orme che si dirigono sempre verso ovest.”
“Temevo che fosse stato assalito e sbranato da qualche belva,” disse la fanciulla, la cui voce ancora tremava.
“Avanti, avanti sempre!”
Il drappello riprese la marcia sotto l’umida foresta, tenendo alte le fiaccole per evitare i rami e le radici che s’intrecciavano in tutti i sensi, e i rotang e i calamus che pendevano a festoni fittissimi.
Le orme del dottore non avevano più una direzione fissa. Descrivevano delle curve e degli angoli, ora deviando verso sud ed ora verso nord. Doveva essersi smarrito nella tenebrosa foresta.
Un altro giorno trascorse così in inutili ricerche. Verso sera stavano attraversando un bosco di banani, quando udirono dinanzi a sé uno scricchiolare di rami ed un rumore di foglie secche calpestate.
“Che cosa c’è?” chiese Feng, armando rapidamente la carabina, mentre gli Stienghi impugnavano le loro sciabole.
Si erano appena fermati, quando videro passare a una cinquantina di passi una forma biancastra che correva all’impazzata.
“Un uomo!” esclamò lo Stiengo, che si trovava in testa al drappello.
“No, una scimmia,” rispose un altro.
“Era bianca! Nel nostro paese non ve ne sono di quel colore,” disse un terzo.
“Inseguiamola!” gridò Feng.
Tutti si slanciarono all’inseguimento, anche Len-Pra ed il generale. Il sospetto che potesse invece trattarsi del dottore metteva loro le ali ai piedi.
Giunti su uno spiazzo, rividero la forma bianca. Correva sempre colle mani in aria, traballando, cadendo e risollevandosi.
Feng, che era ora dinanzi a tutti, mandò un grido:
“L’uomo bianco! L’uomo bianco! Non fate fuoco! Non scagliate frecce!”
La forma bianca, estenuata forse da quella lunga corsa, cadde su un ammasso di foglie secche, mandando un grido rauco, poi rimase immobile.
Feng si slanciò innanzi, seguito dalla giovane siamese e da Lakon-tay.
Il dottore giaceva in mezzo alla radura, col viso contro terra, e pareva non desse più segno di vita.
Len-Pra, che lo aveva riconosciuto dalle vesti di lana bianca che indossava, si precipitò subito su di lui, gridando con voce rotta:
“Sta morendo! Una barella! Presto, amici, una barella! Non voglio che muoia!”
Lakon-tay, più calmo della fanciulla, si curvò sul disgraziato amico, e gli sentì il polso.”
“Il tet!” esclamò, impallidendo. “Conosco troppo bene quella malattia per ingannarmi; forse noi lo salveremo, ma bisogna far presto.”
Len-Pra, inginocchiata presso il dottore, piangeva, cercando di soffocare i singhiozzi e accarezzando colle sue piccole mani il volto già quasi freddo dell’uomo, che ormai intensamente amava.
“Sta per morire, padre,” diceva.
“Lo salveremo, Len; non piangere.”
Una lettiga, formata con rami frettolosamente tagliati dagli Stienghi della scorta e con foglie di banano, fu tosto pronta. Il dottore vi fu adagiato sopra, quattro uomini la sollevarono ed il drappello si mise in marcia senza indugio, dirigendosi non già verso la vecchia pagoda, bensì al villaggio del capo degli Stienghi, dove poteva trovare maggiori soccorsi.
Tre ore dopo giunsero sulle rive del Kun-Boreye, là dove sorgevano le abitazioni degli Stienghi.
Il disgraziato italiano, durante quella lunga marcia, non era ancora tornato in sé. Pareva che l’anima lo avesse abbandonato, quantunque un rauco e assai lieve respiro si facesse ancora udire.
Il capo degli Stienghi, prontamente avvertito, sebbene stesse dormendo, accorse subito.
Lakon-tay lo condusse un po’ lontano dalla capanna che gli era stata assegnata, dicendogli:
“Io ti prometto venti fucili se salvi l’uomo bianco, ed avrai inoltre la mia eterna riconoscenza.”
“È ferito?” chiese il capo.
“No, è stato assalito dal tet, da quella malattia che è più tremenda della febbre dei boschi.”
Il capo degli Stienghi fece un gesto e disse: “Noi lo salveremo, perché possediamo un rimedio infallibile. Il tet non sempre uccide. Affida a me l’uomo bianco ed io rispondo della sua vita.”
“Possiedi qualche liquore misterioso?”
“Niente liquori.”
“Come farai dunque?”
Il capo, invece di rispondere, si volse verso alcuni uomini che lo avevano seguito, dicendo:
“Scavate una buca nella foresta, nello strato di foglie secche, e mettetevi dentro l’uomo bianco a cucinare. La fermentazione delle foglie ci darà il calore necessario.”
Quindi, rivolgendosi verso il generale, soggiunse:
“Non temere: l’uomo bianco domani sarà salvo e non correrà più alcun pericolo.”

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