Capitolo XXV I Kayan dell’Indocina

Si alzò, guardandosi intorno. Aveva udito poco prima un leggero mormorio, che indicava la vicinanza di un torrentello.
Prese la faretra, la vuotò delle frecce che conteneva e si diresse verso un gruppo di banani.
Non si era ingannato. Sotto le gigantesche foglie scorreva un filo d’acqua abbastanza limpida, che si raccoglieva in un piccolo bacino.
Il dottore riempì la faretra, si strappò una manica della camicia e ritornò verso il ferito, il quale, nonostante i dolori intensi che doveva provare, si manteneva impassibile.
Gli lavò la ferita abbondantemente, riunì come meglio poté le carni lacere e le fasciò strettamente, servendosi della larga striscia di cotone filato grossolanamente che lo Stiengo portava sopra il gonnellino.
“È fatto,” disse. “Per ora non hai bisogno che di riposo.”
“Tu sei un bravo uomo bianco,” disse il ferito. “Puoi considerarmi, d’ora innanzi, come un tuo schiavo.”
“Non affaticarti e coricati.”
“Non ne sento la necessità, uomo bianco. Non provo quasi più dolore.”
“Siete meno sensibili degli abissini e dei pellirosse, voi,” disse il dottore. “Giacché lo vuoi, parliamo pure. Mi preme sapere da te molte cose che m’interessano. Sai dirmi anzitutto dove ci troviamo?”
“Presso le paludi del Tuli-Sap.”
“Molto lontano dalla foce del Kun-Boreye?”
“Mezza giornata di marcia.”
“Hai mai veduto su queste rive una vecchia pagoda diroccata?”
“Mi pare d’averla visitata una volta.”
“Sapresti condurmi colà?”
“Lo spero, ma è lontana almeno due giorni di marcia, perché bisogna girare intorno a tutte le paludi, che s’addentrano assai nei boschi; e poi in quella direzione si devono trovare i Kayan.”
“Chi sono questi Kayan?” chiese Roberto, un po’ sorpreso.
“Dei selvaggi laotini, che di quando in quando piombano su queste foreste, distruggendo i nostri villaggi e saccheggiando i nostri raccolti.”
“Quando sono giunti?”
“Ieri sera hanno incendiato il mio villaggio, massacrando gran parte dei guerrieri e facendo prigioniere le donne, che poi venderanno come schiave ai Cinesi.”
Il dottore impallidì e il suo pensiero corse subito a Lakon-tay e alla dolce Len-Pra.
“Se incontrano i miei amici, sono perduti,” disse. “Come avvertirli di questo pericolo?”
“Che cosa mormori, uomo bianco?” chiese lo Stiengo, che lo guardava attentamente.
“Ho lasciato degli amici nella vecchia pagoda e tremo per loro.”
“Hanno delle armi da fuoco?”
“Sì, e parecchie.
“Allora i Kayan non oseranno assalirli, avendo una paura invincibile per la polvere che tuona. Puoi essere tranquillo, uomo bianco.”
“Quando ti ho incontrato, dove andavi?”
“Cercavo di raggiungere un grosso villaggio il cui capo è mio amico,” rispose il selvaggio. “Avevo appena lasciato il mio canotto sulla riva della palude per provvedermi di banane.”
“È lontano?”
“Un mezzo miglio.”
“Appena potrai mi ci condurrai e tenterò di raggiungere il villaggio, purché il capo mi accordi protezione.”
“A te e anche ai tuoi amici,” rispose lo Stiengo. “Tu hai salvato la mia vita ed io salverò la tua. Vuoi che partiamo, uomo bianco?”
“Ferito come sei?” chiese Roberto con stupore.
“La spalla guarirà egualmente, non darti pensiero. Cerchiamoci la colazione, poi raggiungiamo la palude. Qui non siamo troppo sicuri e se Dorey mi trova, non mi risparmierà.”
“Chi è costui?”
“Il capo dei Kayan e mi odia terribilmente, perché l’anno scorso gli ho ucciso suo fratello.”
“Giacché affermi di non provare dolore alcuno, cerchiamo la colazione, poi partiamo,” rispose il dottore.
Avendo scorto a breve distanza un altro gruppo di banani, che portavano degli enormi grappoli di frutta ben mature, vi si diresse, dopo essersi però armato della sciabola, per timore d’incontrare la pantera, che forse non si era molto allontanata.
Si spinse sotto le immense foglie d’una pianta e recise un grappolo che doveva pesare almeno una ventina di chilogrammi.
Stava per raccoglierlo, quando udì a breve distanza un sordo mugolio.
“La pantera ci spia,” mormorò. “Lo sospettavo.”
Si guardò intorno coprendosi colla sciabola, poi, non udendo più nulla, raccolse il grappolo e fuggì a tutte gambe, raggiungendo lo Stiengo.
“Sei minacciato, uomo bianco?” chiese il selvaggio, afferrando il suo arco.
“No, ma la pantera non si è allontanata.”
“Non oserà assalirci ora che siamo in due. Facciamo colazione, poi partiremo.”
Mangiarono alcune banane, si dissetarono al rivoletto, poi si misero in cammino, avviandosi verso la palude, che, come si disse, non distava molto.
Mezz’ora dopo lo Stiengo si arrestava presso la foce d’un fiume piuttosto largo e rapidissimo e mostrava al dottore un canotto scavato col ferro e col fuoco nel tronco d’un albero, di forme snelle e anche eleganti, fornito di due lunghi remi.
“Sai guidarlo, uomo bianco?”
“Sì,” rispose Roberto.
“Imbarchiamoci.”
“E la tua spalla?”
“Remerò egualmente, ti ho detto. Fuggiamo e presto. Temo i Kayan.”
“Io credo che vedendoti assieme ad un uomo bianco non oseranno assalirti.”
“Rispetteranno forse te, ma non me. Dorey ha giurato di vendicare suo fratello e manterrà la parola, quantunque io sia uomo da saper difendere la pelle a lungo, non avendo rivali nel maneggio della sciabola.”
Tagliarono la fune, presero i remi e spinsero il canotto al largo, risalendo la corrente con sufficiente rapidità.
Il selvaggio figlio delle foreste umide dava una prova straordinaria di resistenza e pareva che veramente non sentisse dolore alcuno. Era d’altronde un uomo vigoroso, che doveva possedere una forza poco comune e che, remando, sviluppava dei muscoli enormi.
Avevano percorso qualche miglio, tenendosi lontani dalle due rive, coperte da alberi immensi che intrecciavano i loro rami al di sopra del fiume, quando Roberto vide lo Stiengo abbandonare il remo e mettersi in ascolto.
“Che cos’hai?” gli chiese.
Lo Stiengo, invece di rispondere, con un colpo di remo arenò il canotto su un banco di sabbia che sorgeva in mezzo al fiume.
“Kra… kra…” si udì gridare in quel momento verso la riva destra.
“Kra… kra…” mormorò lo Stiengo. “Questo non è un grande tucano dal becco doppio, che grida kra… non odo l’o. Che cosa ne dici, uomo bianco?”
Il dottore ascoltava, tentennando la testa. Aveva udito parecchie volte le grida stridenti dei grossi tucani delle foreste Siamesi, ma non erano uguali a queste.
“Neppure io ho mai udito uno di quegli uccelli lasciare nel becco l’o,” disse finalmente il dottore, che appariva inquieto. “Che qualcuno cerchi d’imitarlo?”
“Così la penso anch’io,” rispose lo Stiengo. “Ecco che ricomincia: kra… kra… kra…”
“Èun segnale,” disse Roberto.
“E fatto da chi?”
“Che sia uno dei tuoi compagni? Qualcuno può essere sfuggito alla strage.”
Lo Stiengo crollò il capo.
“Gli Stienghi,” disse, “quando vogliono segnalare la presenza d’un nemico, imitano il grido stridente del tucano piccolo e non di quello grosso.”
“Allora è qualche Kayan.”
“Ne ho il sospetto.”
“Retrocediamo o andiamo innanzi?”
“Finché nessun pericolo ci minaccia, continuiamo a risalire il fiume,” rispose il selvaggio. “Intanto preparo le mie frecce, e teniamoci pronti a tutto.”
“Fra poco giungeremo ad una cascata, e, quando vi saremo, vedremo che cosa ci converrà fare.”
Attesero ancora qualche minuto, poi, non udendo più ripetersi quel segnale e supponendo che non li riguardasse, ripresero i remi e continuarono a rimontare il fiume.
Mentre però l’uno sorvegliava la riva sinistra, l’altro non staccava gli sguardi da quella di destra, per non cadere in qualche agguato o prendersi qualche freccia in mezzo al petto.
Avevano così percorso un altro miglio e cominciavano a udire il rombo prodotto dal salto d’acqua annunciato dallo Stiengo, che si propagava distintamente sotto la volta di verzura, quando ai loro orecchi giunsero nuovamente le grida del grosso tucano dal becco doppio, e anche questa volta sbagliate.
L’o mancava ancora.
“Colui che imita quell’uccello ci ha seguiti,” disse Roberto, le cui inquietudini aumentavano.
“Non ne ho alcun dubbio,” rispose lo Stiengo. “Il segnale è identico a quello di prima.”
“Allora è noi che sorveglia.”
“Se potessi vederlo un solo istante!” disse lo Stiengo, gettando uno sguardo sulle sue armi. Stette un momento pensieroso, poi rispose: “Tu, uomo bianco, hai mai salito questo fiume?”
“No, mai,” rispose Roberto.
“Non importa. Tu sai remare; sali il corso fino a che troverai una cascata e là mi aspetterai.”
“E tu?”
“Vado a uccidere quel maledetto spione, prima che si unisca ad altri Kayan.”
“Ti esponi ad un grave pericolo.”
“Sono un uomo che non ha paura.”
“Ti credo.”
“Spingiamo il canotto verso la riva, poi tu continua ad avanzare fino alla cascata. Ti raggiungerò là o meglio mi troverai là, essendo io più veloce del canotto.”
“Tu sei un coraggioso,” disse Roberto.
Spinsero l’imbarcazione verso la riva, che era coperta da altissime canne; poi lo Stiengo, preso il suo arco e la sciabola, balzò agilmente a terra, facendo all’uomo bianco un gesto d’addio.
Attraversò le canne, strisciando come un serpente fra i cespugli, e s’arrestò dietro il tronco d’un enorme albero, tendendo gli orecchi.
Non erano trascorsi venti secondi che udì di nuovo in mezzo alla foresta le tre note:
“Kra… kra… kra…”
“Manca sempre l’o,” mormorò il selvaggio. “Ti troverò, maldestro imitatore del grosso tucano, e ti pianterò una freccia nel collo.”
Lo spione non doveva essere molto lontano, a giudicare dall’intensità delle grida. Certo aveva seguito il canotto, tenendosi lontano dalla riva onde non farsi scoprire.
Lo Stiengo levò una freccia incoccandola sulla corda dell’arco, poi s’inoltrò cautamente sotto le piante, badando bene a dove metteva i piedi per non far scrosciare le foglie secche o per non farsi mordere da qualcuno di quei numerosi serpentelli, che pullulano in quelle umide foreste e che, anche se piccoli, non sono meno velenosi dei grossi cobra.
Colui che imitava il tucano aveva ripreso la sua marcia attraverso la foresta, perché le note si udivano ora più lontane.
Doveva aver scorto, attraverso il fogliame, il canotto e lo seguiva ancora. Forse non aveva avuto il tempo o la possibilità di vedere che sul galleggiante si trovava un solo uomo invece di due.
“Lo coglierò fra le due spalle,” mormorò lo Stiengo, strisciando sempre velocemente fra gli enormi vegetali che ad ogni istante gli chiudevano il passo.
Avanzava da una decina di minuti, studiandosi di guadagnare via sullo spione, quando gli parve di udire dietro di sé scrosciare delle foglie.
“Che altri abbiano già udito il suo richiamo e accorrano? Oppure che i Kayan abbiano seguito le mie tracce?” mormorò. “Mi rincresce per l’uomo bianco a cui io devo la vita, e che forse ho compromesso lasciandolo unirsi a me.”
Vedendo a pochi passi un folto cespuglio, lo raggiunse e vi si nascose in mezzo, trattenendo il respiro.
Dapprima non udì nulla, poi giunsero ai suoi orecchi dei leggeri crepitii, come se qualcuno camminasse su uno strato di foglie secche, quindi vide sbucare da un macchione parecchi uomini.
Erano dei brutti individui, dai lineamenti duri e angolosi, cogli occhi obliqui come quelli dei mongoli, la pelle quasi nera ed i capelli crespi al pari di quelli degli africani.
Pareva che quei selvaggi avessero nelle loro vene il sangue di due razze diverse, al pari degli andamani e degli ata delle isole Filippine e di Mindanao.
Erano tutti quasi nudi ed armati di pesanti sciabole malamente lavorate e di lunghi archi.
Lo Stiengo soffocò un grido di terrore: “I Kayan!”
Li contò ad uno ad uno. Erano quindici, troppi contro due, essendo armati e forse muniti di frecce avvelenate.
“Hanno seguito le mie tracce,” mormorò lo Stiengo. “Cerchiamo di raggiungere l’uomo bianco e di salvarlo.”
Attese che l’ultimo selvaggio fosse passato, poi uscì dal suo nascondiglio e si mise a strisciare in direzione del fiume, colla speranza di ritrovare l’uomo bianco che, ostacolato dalla violenza della corrente, non doveva aver percorso molto cammino.
Quando giunse sulla riva lo vide infatti rimontare faticosamente il corso d’acqua, arrancando con lena disperata.
Mandò un debole fischio per avvertirlo della sua presenza ed attese, nascosto fra le canne che ingombravano la riva.
Roberto, udendo quel segnale, spinse il canotto attraverso il fiume, poi, arenatolo, depose i remi, impugnando la sciabola.
“Lascia in pace la tua arma,” disse lo Stiengo, mostrandosi. “Sono io.”
“Hai già ucciso l’uomo che faceva quei segnali?”
“No, anzi per poco non uccidevano me.”
“Chi?”
“I Kayan.”
“Sono già qui?”
“Sì, devono aver seguito le mie tracce.
“Sono in molti?”
“Una quindicina.”
“E dove andavano?” chiese il dottore.
“Attraversano la foresta. Ti dico, uomo bianco, che cercano me. Il loro capo vuole la mia testa.”
“Torniamo indietro?”
“Sarebbe egualmente pericoloso. Quegli uomini vengono dalle paludi.”
“Sicché siamo perduti?”
“Non so che cosa dire,” rispose lo Stiengo, che pareva avesse perduto tutta la sua audacia.
“Che cosa vuoi fare?”
“Spingerci sino al salto d’acqua. Il villaggio che io volevo raggiungere per chiedere la protezione di quel capo non è molto lontano da quel luogo.”
“Se non è stato distrutto dai Kayan,” rispose Roberto.
“Ah! Questo non lo so.”
“Accostiamoci alla riva destra.”
“Volevo dirtelo, uomo bianco.”
“E apriamo gli occhi.”
“E anche gli orecchi,” aggiunse lo Stiengo.
“Avanziamo dunque?”
“Sì, fino al salto d’acqua.”
“Riprendi i remi, e avanti.”
Il canotto, spinto da quelle braccia vigorose, si mise di nuovo a rimontare la corrente, nonostante la crescente furia delle acque.
La cascata era ormai vicina. Il fiume si precipitava con impeto furioso fra le due rive, travolgendo e strappando le erbe e le canne che la coprivano. Il rombo prodotto dalla cascata diventava di momento in momento più assordante.
In alto, verso la volta verdeggiante, si vedeva apparire e scomparire l’arcobaleno nel polverio dell’acqua illuminata dall’ardente sole.
“Forza, uomo bianco, o la corrente ci trascinerà,” disse lo Stiengo.
“Le braccia sono solide,” rispose il dottore.
“Se riusciamo a sorpassare la cascata, troveremo al di là della terza roccia un rifugio dove potremo nasconderci.”
“Una caverna?”
“Una spaccatura profonda che si dice sia abitata dallo spirito del male, che tu caccerai.”
“Non inquietarti per quello; tu sai che gli uomini bianchi sono stregoni potenti.”
“Se non avessi te come compagno, non vi entrerei, te lo assicuro.”
“Lo farò fuggire,” rispose Roberto, sorridendo.
“Ecco il salto: forza coi remi, uomo bianco.”
Non si trattava veramente d’una cascata, bensì di una rapida, come ce ne sono molte sui fiumi della penisola indocinese.
Per un tratto di centocinquanta metri le acque si precipitavano su un pendio roccioso, fiancheggiato da altissime rupi, muggendo spaventosamente e rimbalzando in candidi fiotti di spuma.
Verso la cima si ergevano tre rocce colossali, alte come colline; là il fiume faceva una svolta brusca.
Il dottore e il selvaggio, dopo aver dato uno sguardo alle due rive, si collocarono l’uno a prua e l’altro a poppa, e puntati i remi sul petto, affrontarono risolutamente la rapida.
Gli indocinesi sono famosi nel superarle. Là dove un uomo bianco, per quanto valente battelliere, non riuscirebbe a vincere la corrente, essi vi riescono e senza troppe difficoltà.
Il canotto saliva, faticosamente sì, ma senza arrestarsi, quantunque le acque scorressero talvolta sopra i suoi bordi e vi entrassero, minacciando di calarlo a fondo. Lo Stiengo, più abile del dottore, faceva sforzi sovrumani, e nelle spinte il remo, appoggiato contro il suo largo petto, s’incurvava come se fosse lì lì per spezzarsi in due.
“Forza, uomo bianco,” non cessava di ripetere. “Siamo già presso la prima roccia e alla terza ci riposeremo.”
L’italiano, quantunque si sentisse spossato, non cedeva.
“Sì, forza,” ripeteva.
Già stavano per raggiungere la cima della rapida, quando udirono per la terza volta risuonare le note del grosso tucano, più acute e più precipitose di prima.
“Kra… kra… kra…”
“Giungono!” esclamò il selvaggio, digrignando i denti. “Ci hanno scorti e non tarderanno a comparire. Dannato spione!”
Un sibilo lamentevole si udì nell’aria e poco dopo una freccia si piantò nel bordo del canotto, a soli venti centimetri da Roberto.
“Ecco il primo avviso,” disse l’italiano, curvandosi per evitare un secondo dardo che gli passava sopra la testa.
“Non rispondiamo, uomo bianco,” disse lo Stiengo, precipitosamente. “Se lasci il remo un solo istante siamo perduti.”
“No, non lo lascerò, e poi non so adoperare il tuo arco.”
Urla spaventevoli scoppiarono in quel momento sulla riva sinistra ed una banda di quindici o venti selvaggi Kayan comparve sulle rupi che cadevano a piombo sulla rapida.
Fortunatamente la prima roccia era vicina ed il canotto aveva ormai raggiunto la cima della cascata. Lo Stiengo con un vigoroso colpo di remo lo spinse dietro la rupe, mettendolo per il momento al coperto dai proiettili.
“Afferra quella radice che sporge e sostiamo un momento,” gli disse Roberto. “Non ne posso più.”
Il selvaggio, vedendo che il compagno era completamente sfinito, fu pronto ad obbedire. Là d’altronde non correvano ormai più alcun pericolo, essendo sufficientemente riparati.
“Pochi istanti,” disse lo Stiengo. “Ho fretta di giungere alla terza rupe.”
“Nel passaggio dall’una all’altra ci saetteranno,” rispose Roberto.
“La corrente è meno rapida, e potremo per qualche momento gettarci in fondo al canotto.”
“Sono in buon numero.”
“Troppi per affrontarli.”
“Dove saranno i miei amici?” si chiese con angoscia il dottore. “Che Len-Pra e Lakon-tay siano stati sorpresi e fatti prigionieri nei pressi della pagoda? E non poter saper nulla! Non bastava il tradimento; anche i Kayan dovevano mettersi della partita! E noi, come ce la caveremo?” chiese, rivolgendosi allo Stiengo.
“Finché ho delle frecce, i Kayan non ci prenderanno.”
“Non ne possiedi più d’una ventina.”
“Potrebbero bastare, se colpissi sempre.”
“Ripartiamo?”
“Sì, uomo bianco, se ti sei riposato sufficientemente.”
“Ho preso un po’ di respiro.”
“Bada che non ti colgano. Devono aspettarci in qualche buon punto.”
“Li terrò d’occhio.”
Ripresero i remi e si misero a seguire la base della rupe cercando di non allontanarsene, poiché i Kayan, occupando le rocce della riva che erano altissime in quel luogo, potevano salutarli con una nuvola di dardi.
Giunti al passo, raddoppiarono la velocità per raggiungere la seconda rupe.
Come avevano previsto, i selvaggi li aspettavano radunati sulla riva. Vedendoli comparire mandarono il loro urlo di guerra, poi fecero scattare gli archi precipitosamente.
Sette od otto dardi giunsero fino al canotto, però Roberto e lo Stiengo avevano avuto il tempo di ritirare i remi e di lasciarsi cadere dietro il bordo, sicché non furono colpiti.
Vedendoli scomparire ancora incolumi dietro la seconda roccia, i Kayan mandarono urla feroci, percuotendo contemporaneamente le loro sciabole l’una contro l’altra in segno di sfida.
“Sono furibondi,” disse il dottore.
“Che crepino,” rispose lo Stiengo, “e che il genio malvagio li polverizzi.”
“Passeremo felicemente anche il secondo passaggio?
“Speriamolo.”
“Dov’è la spaccatura?”
“A metà della terza roccia.”
“È profonda?”
“Io non l’ho mai esplorata, tuttavia credo che lo sia. Mi hanno narrato che si odono in fondo dei rumori strani, che devono essere prodotti dal cattivo genio del fiume.”
“O dall’acqua che si frange intorno al masso?”
“Non so nulla, uomo bianco. Ci sei tu e basta.”
Avanzarono rapidamente anche sotto la seconda rupe, poi si slanciarono risolutamente attraverso l’ultimo passaggio.
La loro comparsa fu così fulminea che i Kayan, i quali non se l’aspettavano forse così presto, non ebbero il tempo di afferrare gli archi. Quando i dardi volarono, era ormai troppo tardi.
“Ce l’abbiamo fatta,” disse il dottore, lieto di quell’insperato successo.
“Non è ancora finita,” rispose lo Stiengo, il quale sembrava invece assai preoccupato.
“Non è vicino il rifugio?”
“È vero, ma dopo che cosa accadrà di noi? Ci assedieranno.”
“Non hanno canotti per giungere fin qui.”
“Sono tutti abili nuotatori quei selvaggi, ed una rapida non fa loro paura,” rispose lo Stiengo. “Ci siamo: la vedi la spaccatura, uomo bianco?”
Il dottore alzò gli occhi e vide a circa cinque metri sopra la sua testa una fenditura semicircolare che somigliava alla bocca d’un forno, ma immensamente più larga e tenebrosa.
Una specie di canaletto, scavato nella roccia dalle acque, conduceva lassù.
“Approdiamo,” disse il dottore, accostando il canotto alla rupe.
“Non entrerò se prima non manderai uno scongiuro al genio del fiume,” rispose lo Stiengo.
“Lascia fare a me.”
Ormeggiarono il canotto, legandolo solidamente ad una grossa radice che spuntava da una fessura, presero le loro armi e si cacciarono nel canaletto, arrampicandosi coi piedi e colle mani.
In meno di mezzo minuto si trovarono dinanzi all’apertura. Roberto, che precedeva, udì subito dei cupi fragori uscire da quella galleria o caverna che fosse, fragori che gli Stienghi, assai superstiziosi, attribuivano al genio del fiume, che aveva scelto quel luogo per sua dimora.
“Ci sarà qualche cascata nell’interno,” pensò.
“Odi?” chiese il selvaggio.
“Sì,” rispose Roberto.
“Si dice che sia la respirazione del mostro che abita la spelonca.”
“Gli manderò un potente malefizio, che lo renderà incapace di farci alcun male.”
Entrò nella spaccatura, ma aveva appena mosso qualche passo, quando un sibilo spaventevole rintronò in fondo alla caverna, facendolo retrocedere vivamente.

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