Capitolo XXVI Il pitone delle caverne

Lo Stiengo aveva pure udito quel sibilo acutissimo, che pareva uscisse dalla gola di qualche belva o meglio di qualche mostruoso serpente, e si era gettato a precipizio giù per il canaletto, raggiungendo il canotto.
“Lo avrà creduto lo spirito del fiume,” disse Roberto, impugnando saldamente la sciabola. “Io invece sono certo che si tratti di qualche rettile. Non ci mancava che questo per impedirci di sfuggire alle frecce dei Kayan!”
Fece qualche passo innanzi. Sotto la volta della caverna, che sembrava piuttosto bassa, l’oscurità era così fitta da non permettere di scorgere cosa alcuna.
Si chinò verso il canaletto esteriore e fece segno allo Stiengo di raggiungerlo.
Il selvaggio, che pareva in preda ad un profondo terrore, dapprima esitò, poi si fece animo e risalì fino alla spaccatura, chiedendo:
“L’hai veduto, uomo bianco, il cattivo spirito del fiume?”,
“Non si tratta d’un genio malvagio, rassicurati,” gli rispose Roberto. “Quello che ci ha spaventati è un pitone.”
“Allora la cosa è ben diversa,” rispose il selvaggio. “Io non ho paura dei serpenti quando posseggo una sciabola.”
“Deve essere grosso, a giudicare dalla potenza del suo fischio.”
“Gli taglierò egualmente la testa.”
“Non abbiamo alcun ramo resinoso per illuminare l’antro.”
“Gli Stienghi ci vedono anche di notte, come le tigri e le pantere. Resta qui, uomo bianco, giacché non si tratta di misurarci con uno spirito malvagio; lascia che vada a vedere io con quale rettile abbiamo a che fare.”
“Sta in guardia.”
“Ho la sciabola, e non vi è arma migliore per affrontare i serpenti.”
Il selvaggio, che doveva possedere un coraggio poco comune, getto l’arco e la faretra che non gli erano di nessuna utilità, impugnò solidamente la pesante sciabola e s’avanzò cautamente fra le tenebre.
Roberto era rimasto fuori per sorvegliare le mosse dei Kayan, e si teneva anche pronto ad accorrere in aiuto del bravo Stiengo.
Erano trascorsi due o tre minuti, quando lo vide ritornare precipitosamente, cogli occhi dilatati dal terrore e il viso sconvolto.
“L’hai ucciso?” gli chiese.
“No, uomo bianco, non ho avuto il coraggio di affrontarlo,” rispose lo Stiengo. “Io non ho mai veduto un pitone così enorme.”
“Era molto grosso?”
“Quanto il tuo corpo, e lunghissimo.”
“È impossibile!…”
“L’ho veduto benissimo, essendo l’ultima caverna rischiarata da un pertugio aperto nella parete. Se ne stava raggomitolato là dentro, pronto a scagliarsi.”
“Io non ho mai udito raccontare che esistano dei serpenti così colossali,” disse Roberto.
“Tu no, ma io sì,” rispose lo Stiengo. “I vecchi della mia tribù mi hanno più volte narrato d’aver incontrato dei rettili lunghi perfino trenta piedi e così grossi da poter digerire un uomo intero; anzi una volta ho veduto anch’io, in mezzo ad una foresta umida, uno dei loro letti.”
“Un letto!” esclamò Roberto.
“Sì e vi giaceva ancora la pelle del mostro, una pelle gigantesca e così rotonda, che io avrei potuto cacciarmi dentro senza alcuna difficoltà.
Si dice che, all’avvicinarsi della stagione delle piogge, quei pitoni si scavino una fossa e che si lascino poi coprire dalla terra e dalle erbe, rimanendo là sotto, in un letargo profondo, alcuni mesi: e non ne escano che al principio della stagione secca, dopo aver cambiato la pelle.
Allora vanno a rintanarsi in qualche antro fra le rocce e perciò vengono chiamati pitoni delle caverne.”
“Se è così, lasciamolo in pace e occupiamoci invece dei Kayan,” disse Roberto. “Rimani tu qui ora, mentre io mi spingerò fino sulla cima di questa rupe.”
“Guardati dalle loro frecce, uomo bianco.”
Il dottore aveva già prima osservato che il canaletto, o meglio la fenditura, si prolungava anche sopra la caverna, e che la roccia là non era così scoscesa come gli era sembrato prima. Si appese la sciabola al fianco, guardò attentamente se non vi fosse qualche nuotatore nel fiume, poi, pienamente rassicurato, cominciò ad inerpicarsi, aggrappandosi agli sterpi che crescevano in buon numero e puntando i piedi sui margini del canaletto.
La cima non era che a duecento metri, e pareva che vi fosse lassù uno spazio sufficiente per permettere ad alcuni uomini di stabilirvisi.
Procedendo con precauzione onde non capitombolare nel fiume che gli muggiva sotto i piedi, dopo un buon quarto d’ora, l’italiano riuscì a porre i piedi sulla vetta. Vi era lassù un tratto quasi piano, di tre o quattro metri quadrati, cosparso di massi dietro i quali ci si poteva nascondere.
Roberto si gettò contro il più vicino, poi alzò lentamente la testa, guardando verso la riva sinistra che era alta quasi quanto la rupe.
I Kayan non avevano abbandonato il posto. Andavano e ritornavano fra le piante, gesticolando rabbiosamente, cercando di scoprire i fuggiaschi. Alcuni si erano collocati di fronte ai passi delle tre rocce per impedire che i due fuggiaschi ritornassero verso la rapida.
“Non hanno alcuna intenzione di andarsene,” mormorò il dottore. “Che vogliano proprio tenerci assediati?”
Rimase lassù parecchi minuti, poi si lasciò scivolare lungo il canale, raggiungendo felicemente l’apertura della caverna che era guardata dallo Stiengo.
“Non se ne sono andati?” chiese il selvaggio.
“No,” rispose il dottore.
“Che cosa aspettano per assalirci?”
“Non lo so.”
“Non costruiscono qualche zattera?”
“Non mi pare.”
“Che attendano dei rinforzi o che abbiano mandato qualcuno a cercare delle piroghe verso la palude?”
“Guardati!” disse invece il dottore. “Là, nell’acqua, ci prendono di mira.”
Entrambi si lasciarono cadere a terra nel medesimo tempo, mentre una freccia si spezzava contro la volta dell’apertura con secco rumore.
Due Kayan, che dovevano essersi gettati in acqua al di là della terza rupe, trascinati dalla corrente, erano improvvisamente comparsi a una distanza di quaranta o cinquanta passi, colla speranza di sorprendere i fuggiaschi e di colpirli colle loro frecce. Senza l’avvertimento precipitoso del dottore, vi sarebbero certamente riusciti, essendo quei selvaggi, generalmente, abilissimi nel maneggio delle loro armi.
Lo Stiengo, non udendo più alcun sibilo, si rialzò prontamente, coll’arco in mano.
I due nuotatori, fallito il colpo, si erano immersi, ma non dovevano tardare a ricomparire per prendere una nuova boccata d’aria.
“Uno almeno lo manderò a fracassarsi sulle rocce della rapida,” disse lo Stiengo. “Così diverranno più prudenti.
Coll’arco ben teso, aspettava il momento propizio per lanciare il suo dardo.
Una testa finalmente apparve alla superficie. Lo Stiengo, pronto come un fulmine, lasciò andare la corda.
Si udì un leggero sibilo che si allontanava veloce, poi un grido.
Il nuotatore balzò più che mezzo fuori dalla corrente, portandosi una mano alla fronte e rompendo furiosamente il sottile cannello che lo aveva colpito, poi fece un capitombolo, battendo le gambe in aria.
“Va’! sei finito,” disse lo Stiengo, con un crudele sorriso. “Nessuno è più abile di me nell’uso dell’arco e nel maneggio della sciabola. La rapida ti aspetta.”
Il nuotatore continuava a girare su se stesso, ora mostrando le gambe ed ora le braccia, poi ad un tratto s’abbandonò alla corrente, che diventava sempre più furiosa, mentre il suo compagno continuò i suoi tuffi, non mostrando alla superficie che la punta del naso.
“Ecco un bel colpo che t’invidio,” disse il dottore. “Sei un terribile arciere.”
“Dove miro, tocco sempre,” rispose lo Stiengo, sorridendo. “A cinquanta passi attraverso un ananas piantato su un bastone.”
“Se ne va alla rapida!”
“E giungerà al fondo fracassato.”
“Purché gli altri non vengano a vendicarlo!…
“È quello che temo.”
“Vuoi un consiglio?…”
“Un uomo bianco non può darne che di buoni.”
“Giacché non siamo spiati, lasciamo questo luogo e ripariamo sulla cima della rupe.”
“Potremo poi scendere dall’altra parte?”
“Ho veduto immense piante rampicanti che cadono sul fiume.”
“Saremo costretti a rinunciare al canotto.”
“Sono un buon nuotatore,” rispose Roberto.
“Anch’io.”
“Seguimi.”
Quell’ascensione, come quella compiuta poco prima dal dottore, non fu disturbata da alcun incidente sgradevole.
I Kayan non avevano più mandato alcun nuotatore, temendo di sacrificare inutilmente altri uomini.
Giunti sulla vetta, i due si coricarono fra i massi in modo da non poter essere scorti dai nemici, che vigilavano sempre sulla riva sinistra, sfogando la loro rabbia impotente con grida feroci e con un inutile spreco di frecce.
“Questa sera verranno qui,” disse lo Stiengo. “Vedo là alcuni uomini che stanno abbattendo degli alberi per costruire delle zattere.”
“Toccherà loro una brutta sorpresa se entreranno nella caverna,” rispose il dottore. “Avranno a che fare col pitone.”
“Lo uccideranno facilmente,” rispose lo Stiengo, la cui faccia si era fatta scura. “Poi, non trovandoci là dentro, saliranno quassù e ci prenderanno. Io so ormai che sono votato alla morte e sono rassegnato a subirla; è per te che mi rincresce, uomo bianco, che mi hai salvato la vita e che non potrò ricondurre presso gli amici che ti aspettano.”
A quel ricordo il dottore mandò un profondo sospiro.
“Potrò un giorno rivederli?” si chiese con angoscia. “Povera Len, quanto mi piangerà! Tu credi che mi risparmieranno?”
“Ne ho la convinzione,” rispose lo Stiengo. “Non hanno alcun odio contro di te, e preferiranno venderti come schiavo a qualche mandarino del Laos.”
“Miserabili!” esclamò il dottore, con indignazione. “Io schiavo!…”
“Ne ricaveranno una buona somma. Ah!… se potessi giungere al villaggio, ti salverei di certo, uomo bianco.”
“Come vuoi fare? Se ti imbarcassi sul canotto, ti ucciderebbero facilmente a colpi di freccia, non essendovi più rocce che possano proteggerti.”
“È vero,” mormorò lo Stiengo. “Eppure ho un’idea.”
“Quale?”
“Non l’ho ancora ben maturata, tuttavia… Hai guardato, uomo bianco, se vi sono delle piante sul versante opposto della roccia?”
“Mi pare d’aver veduto dei calamus penzolare lungo la parete, e tu sai che quelle piante sono resistentissime. Vorresti tentare la fuga da quella parte, approfittando delle tenebre?”
“Sì, se ci sarà possibile,” rispose lo Stiengo. “Ho però un’altra idea che mi frulla pel capo. È me che vogliono, o meglio la mia testa, e forse il loro capo non si rifiuterà, se è un coraggioso.
Armiamoci di pazienza, uomo bianco, e aspettiamo che il sole tramonti.”
Si coricarono all’ombra d’un macigno e attesero che il sole compisse il suo giro.
La giornata trascorse tranquilla. I Kayan non si mossero, quantunque avessero costruito due zattere capaci di trasportarli tutti dall’altra parte del fiume.
Quando le tenebre scesero, furono veduti radunarsi sulla riva e accendere parecchi falò, i cui riflessi tinsero le acque di vermiglio fino sul versante opposto della rupe.
“Che facciano dei segnali?” chiese Roberto allo Stiengo.
“Tentano d’ingannarci,” rispose questi. “Fingono di prepararsi l’accampamento notturno.”
“E li vedo anche cacciarsi sotto i boschi, come se cercassero delle frutta per la loro cena.”
“E rimorchiano le loro zattere verso la rapida,” aggiunse lo Stiengo. “Ti dico che si preparano ad assalirci.”
“Quale resistenza potremo opporre?”
“Finché avrò una freccia, non mi arrenderò.”
“Ed io cercherò d’aiutarti.”
“Preferirei che tu non ti compromettessi, onde evitare il pericolo di farti poi uccidere.”
“Non credevo che tu fossi tanto magnanimo e tanto generoso, mio bravo amico,” disse il dottore, con voce commossa. “Qualunque cosa possa succedere a me, non ti lascerò solo a difendere la rupe.”
“Ah!…”
“Cos’hai?”
“Guarda, hanno lasciato tre uomini soli a guardia del loro accampamento, per farci credere che non si muoveranno. Non siamo così stupidi noi, è vero, uomo bianco?”
“Non mi sembra,” rispose Roberto.
“Approfittiamo dell’oscurità per esplorare il lato opposto della rupe e provare la resistenza delle piante.”
Lo Stiengo ed il dottore, certi di non essere veduti dai nemici che vegliavano presso i fuochi, s’avanzarono attraverso le rocce e giunsero sul margine di quel minuscolo altipiano. Là videro che la rupe non finiva. Un po’ più sotto vi era una seconda spianata assai più ampia, che scendeva dolcemente verso il fiume, tutta cosparsa di arbusti e di ammassi di piante parassite e di pepe selvatico.
“Forse possiamo calarci in acqua senza tentare un salto?” chiese Roberto.
“Mi pare che la china si arresti bruscamente,” rispose lo Stiengo con voce sorda.
Si spinsero fino sull’orlo, e a tutti e due sfuggì un’imprecazione. Come lo Stiengo aveva previsto, la roccia cadeva a picco da un’altezza di quaranta o cinquanta metri, e non vi erano piante per potersi calare.
“Siamo presi,” disse il selvaggio, “a meno che non ci decidiamo a tentare il salto.
“Non vi saranno delle rocce sotto?”
“Non è possibile saperlo con questa oscurità,” rispose lo Stiengo. “E poi, anche saltando, gli uomini che vegliano presso i fuochi udrebbero il tonfo ed accorrerebbero.”
“Allora non ci rimane che arrenderci.”
“Ti ho detto, uomo bianco, che io avevo un progetto.”
“Non me l’hai ancora spiegato.”
“Io conosco il valore dei Kayan e vedrai che non respingeranno la mia sfida. Potrei morire nella lotta, e potrei anche riuscire vincitore e salvare me e te.”
“Chi vorresti sfidare?” chiese il dottore.
“Il loro capo.”
“Ad un combattimento corpo a corpo?”
“Sì…”
“Accetterà?”
“Non ne dubito.”
“Tu ti dimentichi che hai la spalla ferita.”
“Non mi darà alcun fastidio,” rispose lo Stiengo.
“Metterai delle condizioni?”
“Certo: se lo ucciderò, dovranno lasciarci liberi.”
“Uhm! Ti fidi tu?”
“Assolutamente, anzi… Eh?… Taci, uomo bianco. Mi pare che vengano. Non odi questi colpi di remo?”
“Sì,” rispose Roberto.
“Seguimi, uomo bianco.”
Riattraversarono correndo la cima della rupe e raggiunsero l’orlo opposto, sdraiandosi dietro un masso. I Kayan avevano già cominciato l’ascensione, illuminando la via con due rami resinosi. Erano in diciassette e tutti armati di pesanti sciabole e di archi. Giunti dinanzi all’apertura della caverna, sostarono alcuni minuti, temendo probabilmente qualche sorpresa da parte dei loro nemici, poi, rassicurati dal silenzio che regnava, vi penetrarono, mandando selvaggi clamori.
“Sveglieranno il grande serpente,” disse lo Stiengo, ridendo.
Quelle urla durarono alcuni istanti, diventando sempre più fioche, poi cessarono bruscamente.
“Che il serpente li abbia divorati tutti?” si chiese Roberto.
“Sono in buon numero e lo uccideranno,” rispose il selvaggio. “I Kayan sono valorosi e fors’anche più degli Stienghi.”
“Taci!”
In lontananza si udirono delle grida che parevano di terrore, poi dei colpi sordi che sembravano prodotti dall’urto di sciabole. Certo i Kayan si erano trovati dinanzi al gigantesco rettile e gli davano battaglia.
“Non si ode più nulla,” disse il dottore, dopo qualche minuto.
“La lotta sarà finita,” rispose lo Stiengo.
“Crederanno che il serpente ci abbia divorati?”
“Sarebbe una gran fortuna per noi. Vorranno però accertarsene squarciando il ventre al pitone, e, non trovando gli avanzi, vorranno sapere che cosa sarà avvenuto di noi.
Li vedi, uomo bianco?…”
Dei bagliori si rifletterono sulle rocce esterne, poi alcuni Kayan comparvero, guardando il canale che saliva verso la cima della rupe.
“Ero certo che non se ne sarebbero andati senza venire quassù,” disse lo Stiengo. “Sta bene: la vedremo.”
“Ti prepari ad accoglierli a colpi di frecce?”
“No; per ora lascia fare a me e vedrai, uomo bianco, come io giocherò quegli ostinati che si sono ficcati in testa di uccidermi.”
Si alzò, si curvò sul canale e gridò con voce acuta, in modo da dominare i fragori che venivano dalla rapida:
“Che il capo dei Kayan mi ascolti. Chi parla è Tatoo, il più valoroso guerriero degli Stienghi.”
Gli assalitori udendo quelle parole si arrestarono, alzando le torce resinose e preparando gli archi. Per alcuni momenti rimasero silenziosi, cercando di discernere lo Stiengo che si teneva sull’orlo della rupe, appoggiato ad un masso enorme; poi mandarono un urlo feroce, che durò un buon minuto. Quando il silenzio tornò, si udì una voce gridare:
“Io sono Karruà, uno dei più famosi guerrieri della tribù dei Kayan, e comando questo gruppo, che per valore non ha l’uguale. Che cosa vuole ora Tatoo?… Arrendersi o combattere?”
“Misurarsi con te per evitare un inutile spargimento di sangue,” rispose lo Stiengo.
“Noi occupiamo la cima della rupe e abbiamo smosso una pietra che lasceremo cadere sulle vostre teste se non accetti quanto ti ho proposto.
Se Karruà, che si vanta famoso, mi vincerà, noi ci arrenderemo e taglierai la mia testa; se sarò io il più valoroso, ci lascerete andare e ritornare tranquilli alla nostra tribù.”
“Un Kayan non rifiuta mai un combattimento,” rispose Karruà. “Io ti spaccherò la testa, la sospenderò alla mia capanna e venderò come schiavo l’uomo bianco che hai con te.”
“Mi hanno veduto,” mormorò Roberto.
“Vieni a misurarti con me dunque!” gridò lo Stiengo. “Noi lotteremo colla sciabola, purché tu me ne dia una di peso eguale alla tua, essendo la mia troppo leggera.”
“Sceglierai quella che ti converrà meglio,” rispose il Kayan.
“Salite: il passo è libero.”
“Non si getteranno addosso a noi a tradimento, quando saranno qui?” chiese Roberto, che non era molto tranquillo.
“Non avere questo timore,” rispose lo Stiengo. “Nelle sfide qui tutti sono leali.”
I Kayan salivano, preceduti da coloro che portavano i rami resinosi. Per mostrare che gli assediati nulla avevano da temere da loro, avevano gettato gli archi a bandoliera e si erano appese le sciabole alla cintura. Quando giunsero sul piccolo altipiano, solo il loro capo si fece innanzi, tenendo in mano due sciabole, che parevano eguali sia per peso che per lunghezza.
Era un uomo robusto, di trentacinque o quarant’anni, alto quasi quanto lo Stiengo e dalle braccia assai muscolose.
Infisse nei capelli, che erano lunghi e nerissimi, portava due penne gialle di tucano ed il becco d’un volatile.
“Sei tu Tatoo?” chiese, muovendo verso lo Stiengo.
“Sì, io sono colui che ti ucciderà,” rispose il selvaggio con voce minacciosa.
“Karruà ti mostrerà il contrario, e avrà la tua testa e anche l’uomo bianco, che venderà al mandarino dei Foang. Sei tu quello che l’anno scorso ha ucciso il fratello del nostro capo?”
“Non lo nego,” rispose altezzosamente lo Stiengo.
“Siamo discesi nei boschi umidi per vendicarlo.”
“Io l’ho ucciso perché devastava le nostre terre: ero quindi nel mio diritto.”
“Il capo ha giurato di non ritornare ai suoi monti senza la tua testa.”
“Vieni a prenderla dunque,” rispose lo Stiengo. “Tu però mi prometterai di risparmiare l’uomo bianco.”
“Non sono così sciocco da ucciderlo, mentre posso venderlo a prezzo altissimo al mandarino di Foang. Scegli la sciabola, ed accompagnami là dove potrai mostrare il tuo valore.”
Lo Stiengo pesò le due armi, ne prese una, poi fece cenno al Kayan di seguirlo.
S’avanzò fino sul declivio e prese posizione, volgendo le spalle al fiume.
I Kayan, silenziosamente, formarono circolo intorno ai due combattenti, mantenendosi ad una certa distanza, onde non impedire le loro mosse.
Il dottore si accostò allo Stiengo, chiedendogli:
“Sei sicuro di vincere il tuo avversario?”
“Né io abbatterò lui, né lui abbatterà me,” rispose il selvaggio sottovoce. “Qualunque cosa succeda, non spaventarti. Ho un’idea che mi sembra buona.”
“Che io non conosco ancora?”
“Il villaggio dove volevo cercare rifugio, ritengo che non sia molto lontano. Io indietreggerò verso l’orlo della roccia e appena potrò spiccherò un salto nel vuoto. Se riesco a salvarmi mi recherò al villaggio, pregherò il capo che mi dia dei guerrieri e verrò qui a salvarti.
Venti uomini non sono già una forza imponente, e posso ottenerne tre volte tanti.”
“E se ti sfracelli sulle rocce sottostanti?”
“I Kayan non avranno la mia testa,” rispose lo Stiengo, con voce pacata. “Addio, uomo bianco; se io muoio, ricordati di me.”
Afferrò la sciabola e si avanzò verso il capo del drappello, che lo aspettava colle braccia conserte ed il petto sporgente, in atto di sfida, dicendogli con voce formidabile: “Io sono il più famoso guerriero della mia tribù ed ho ucciso l’anno scorso ben quattordici dei tuoi uomini. Nessuno mi ha mai vinto ed ora te ne darò la prova spaccandoti la testa.”
Il capo dei Kayan a sua volta si fece innanzi, facendo scintillare al fuoco delle torce la lama della sua sciabola e gridando con voce stentorea: “Io sono Karruà, il più forte lottatore della mia tribù, ed ho ucciso tanti Stienghi da non ricordarmene più il numero. Tutte le fanciulle delle mie montagne cantano le mie lodi.”
“Io ti farò vedere come combattono gli Stienghi,” rispose Tatoo.
“Ed io come sanno uccidere i Kayan.”
Ognuno fece risuonare il suo urlo di guerra, che somigliava all’ululato d’uno sciacallo inferocito, e indietreggiò poi di qualche passo mettendosi in guardia.
Lo Stiengo, che pareva avesse molta premura di condurre a termine il combattimento, fu il primo ad assalire, vibrando all’avversario un tale colpo che qualora l’avesse preso gli avrebbe spaccato la testa; ma il Kayan, che doveva essere molto esperto, fece un salto di fianco e parò il colpo colla sciabola che risuonò rumorosamente, mandando sprazzi di scintille.
“Gli Stienghi non sanno adoperare le nostre armi,” disse con accento ironico. “Le nostre donne farebbero di meglio.”
“La lotta è appena cominciata,” rispose Tatoo, furiosamente. “Mi saprai dire che cosa ne penserai, se ne avrai il tempo, quando la mia sciabola ti spaccherà il cranio come una scure di guerra.”
“Resisti a questa dunque!…”
Il Kayan fece un salto innanzi, poi si gettò a corpo perduto sullo Stiengo, vibrando con rapidità prodigiosa quattro o cinque colpi, l’uno più formidabile dell’altro.
Tatoo, invece di pararli, si gettò indietro come se temesse che la sciabola non potesse resistere a quei colpi, sfuggendo così a quell’impetuoso attacco.
“Lo Stiengo fugge!” gridarono i Kayan, che assistevano a quel terribile duello.
“Tacete, tucani!” urlò Tatoo. “Non mi conoscete ancora e vedrete quanto resisterà il vostro capo.”
“Da’ addosso, Tatoo!” gridò il dottore.
Lo Stiengo sorrise furbescamente ed invece di assalire fece un altro passo indietro, tenendo la sciabola alzata in modo da coprirsi interamente.
Karruà, vedendo l’avversario sfuggirgli, mandò un urlo selvaggio e si slanciò innanzi provocandolo ferocemente.
“Tu non sei un guerriero, sei una donna! Se tu fossi il gran lottatore che ti vanti di essere, non scapperesti come una scimmia rossa.”
“Aspetta l’ultimo colpo,” rispose lo Stiengo. “Poi mi dirai se la mia sciabola taglia.”
“Ti ritiri sempre!…”
“Per accopparti meglio e scaraventarti nel fiume, brutto coccodrillo.”
“A me coccodrillo?!”
“Non vali più d’un vile sciacallo.”
“Para questa!…”
Karruà, per la seconda volta, si avventò contro lo Stiengo e questi, invece di parare, fece un altro passo indietro, provocando un urlo di indignazione da parte dei Kayan.
“Che lo Stiengo abbia paura di Karruà?” si chiese con apprensione il dottore. “Eppure mi ha dato già prova di essere valoroso.”
Tatoo, per mostrare che non temeva l’attacco del Kayan, gli vibrò due o tre colpi, incalzandolo vigorosamente e toccandolo ad una spalla in modo però da non spaccargliela, poi retrocesse vivamente fin sull’orlo dell’abisso, gridando:
“È qui che ti aspetto per darti il colpo di grazia.”
“Se non ti getterò prima io nell’abisso che sta aperto dietro di te,” rispose il Kayan. “Se fai un passo indietro sei spacciato.”
“Fatti sotto dunque e provati, se ne hai il coraggio.”
“Ti taglierò in due.”
“Femmina!” urlò lo Stiengo. “Io ti disprezzo.”
“Muori, immondo sciacallo!…”
Il capo dei Kayan si avventò furiosamente, tempestando l’avversario di colpi formidabili che grandinavano fitti facendo scintillare l’acciaio.
Lo Stiengo, che doveva essere realmente un famoso lottatore, li parò tutti con un’abilità che strappò grida di meraviglia ai suoi stessi nemici, poi fece un ultimo salto indietro.
Stava per voltarsi e per gettarsi nel fiume, quando incespicò in una radice che non aveva scorto in tempo, cadendo così sul dorso.
Il dottore mandò un grido a cui rispose un urlo di trionfo del Kayan. Il selvaggio si precipitò sul disgraziato Stiengo, come una tigre assetata di sangue, e con un colpo rapido e terribile gli tagliò netta la testa.
“Ecco vendicato il fratello del nostro capo,” disse, mostrando ai suoi guerrieri il sanguinoso trofeo. “Noi lo porteremo alla nostra tribù per far conoscere il valore dei suoi figli.”
Poi il capo dei Kayan, ripetendo per tre volte il suo selvaggio urlo di guerra, fece ruzzolare con una spinta il cadavere nell’abisso, nel cui fondo muggivano le acque del fiume.

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