Capitolo XXVII Prigioniero dei Kayan

L’atto del Kayan era stato così fulmineo, che il dottore non aveva avuto il tempo d’intervenire. D’altronde nulla avrebbe potuto fare contro tutti quei bricconi ben armati e certamente decisi a non lasciarlo accorrere in aiuto dello Stiengo.
Il capo, dopo aver consegnato la testa dello sventurato guerriero ad uno dei suoi uomini, si rivolse al dottore, dicendogli in lingua siamese, che pareva conoscere perfettamente:
“Che cosa sei venuto a fare qui, uomo bianco? Io ho saputo che quelli della tua razza abitano un paese assai lontano.”
“Sono venuto qui a cacciare gli elefanti per incarico del re del Siam,” rispose Roberto. “Questi territori gli appartengono e tu sai che tutti quei grossi animali sono di proprietà reale. Ti consiglio quindi di lasciarmi andare libero, senza farmi alcun male, se non vuoi incorrere nella collera di quel potente monarca.”
Il Kayan non poté frenare uno scoppio di risa.
“Io non sono suddito siamese, ma un uomo libero che non è quindi schiavo di nessuno,” rispose con orgoglio. “Tu sei mio prigioniero e non ti lascerò libero.”
“Farai dunque di me uno schiavo?”
“Non solo, ma ti venderò anche a caro prezzo. Gli uomini bianchi sono rari come gli elefanti bianchi ed il mandarino sarà ben lieto di averne uno.”
“Tu sei un miserabile!” gridò Roberto, cercando di avventarsi sul selvaggio.
I Kayan, che lo sorvegliavano, ad un cenno del loro capo si gettarono sul povero dottore, strappandogli la sciabola e legandolo strettamente con due fasce di cotone, colle mani dietro al dorso.
“Conducetelo nella caverna,” disse il capo.
Quattro uomini lo afferrarono e lo calarono giù per il canaletto, con molte precauzioni, per timore che ruzzolasse fino in fondo e che si sfracellasse sulle rocce sottostanti, poi lo spinsero dentro la prima caverna, dove era stato acceso un falò con sterpi secchi strappati qua e là dai fianchi della rupe.
La prima cosa che colpì il prigioniero fu la vista del serpente pitone, così enorme che mai ne aveva veduto prima di eguali, e che giaceva in mezzo alla caverna, colla testa quasi staccata ed il dorso coperto di ferite orribili, dalle quali usciva ancora in gran copia il sangue. Quel mostro misurava non meno di dodici metri, aveva una circonferenza di sessanta o settanta centimetri ed era ricoperto di fitte scaglie brune con larghi punti gialli che luccicavano come se fossero d’oro.
Mentre il dottore lo guardava, i Kayan entrarono tutti nella caverna, sedendosi intorno al falò.
Il capo infisse su un bastone la testa dello Stiengo e la collocò sopra il fuoco, tenendola ad una certa distanza e gettando sui tizzoni dei sarmenti verdi per produrre molto fumo. Si preparava a conservarla per appenderla poi alla porta della sua capanna, come usano quei feroci montanari Laotini.
Intanto alcuni uomini si erano alzati ed a colpi di sciabola fecero a pezzi il pitone, spogliandolo della pelle.
“Si preparano l’arrosto,” disse il dottore. “Puah! Mangiare un serpente!”
I Kayan, che non dovevano essere molto schizzinosi, misero quei pezzi di carne sulla brace, poi quando furono arrostiti si misero a divorarli ingordamente, come se si trattasse d’un delizioso manicaretto.
Quando furono gonfi al punto da scoppiare, si coricarono intorno al fuoco per digerire quella troppo copiosa cena, mentre due di loro vegliavano all’estremità del canaletto, presso cui si trovava ancora il canotto dello sventurato Stiengo.
Passarono due o tre ore. Pareva che tutti si fossero profondamente addormentati, quando improvvisamente si udirono al di fuori risuonare le note stridenti del grosso tucano:
“Kra… Kra… Kra…”
Anche questa volta mancava l’o.
Karruà, che forse dormiva con un solo occhio, si rizzò subito brandendo la sua pesante sciabola e spingendosi rapidamente verso l’uscita della caverna.
Poco dopo uno degli uomini che vegliavano alla base della rupe entrò precipitosamente.
“Che vuoi, Kosy?” chiese il capo.
“Degli uomini avanzano sul fiume.”
“Con delle scialuppe?”
“Sì, capo.”
“Sono molti?”
“Non ho potuto contarli.”
“Non sono dei Kayan?”
“Ho udito un segnale diverso dal nostro.”
“Devono essere Stienghi, forse i compagni di quello che abbiamo ucciso,” disse il capo. “Fuggiamo nella foresta.”
Tutti si erano alzati e aspettavano i suoi ordini. Roberto, che non dormiva, aveva udito il colloquio tenuto in lingua laotina, che conosceva abbastanza bene.
“Che stia arrivando Lakon-tay?” si chiese. “No, sono pazzo a farmi simili illusioni.”
“Prendete l’uomo bianco e portatelo con noi,” gridò Karruà. “Se resiste o manda un grido uccidetelo con un colpo di sciabola.”
“Non sarò così stupido,” mormorò il dottore. “Se sono Stienghi quelli che stanno per giungere, mi libereranno.”
Quattro guerrieri, scelti fra i più robusti, lo presero e lo portarono fuori, facendolo scivolare giù pel canaletto, poi lo deposero nel canotto di Tatoo.
Mentre gli altri prendevano posto nelle zattere, i quattro guerrieri afferrarono i remi ed attraversarono il fiume, passando fra le due ultime rocce e sbarcando là dove ardevano ancora i falò sorvegliati dai tre guerrieri rimasti sulla riva.
Karruà attese che tutti gli uomini fossero riuniti, fece spegnere i fuochi, poi si cacciò nella tenebrosa foresta.
Il dottore, sempre sorvegliato, li seguiva, essendogli state levate le fasce che gli stringevano le gambe; si teneva però in guardia, pronto ad approfittare della prima occasione per fuggire.
Dopo una marcia di un’ora buona, sempre in mezzo alla foresta, il capo diede il segnale della fermata in mezzo ad una macchia immensa di piante gommifere.
Mentre alcuni dei suoi ritornavano prontamente indietro per sorvegliare le mosse di quei misteriosi nemici, egli s’avvicinò al dottore, e gli chiese:
“Tu devi sapere chi sono coloro che c’inseguono.”
“Lo ignoro,” rispose Roberto.
“Tu fingi di non saperlo.”
“Ti ripeto che non so chi siano.”
“Perché eri con quello Stiengo?”
“L’avevo trovato per caso nella foresta ed egli si era unito a me.”
“Devono essere i superstiti della sua tribù quelli che ci dànno la caccia.”
“Può darsi.”
“Non importa: noi impediremo loro di raggiungerci.”
“In quale modo? Possono essere in buon numero e gli Stienghi non sono poi dei poltroni.”
“Il fuoco li arresterà,” disse il capo, indicando le piante gommifere. “Questi alberi bruceranno come torce resinose e tutta la foresta sarà in fiamme. Ti avverto di non cercare di fuggire. Se lo tenti ti spiccherò la testa e la manderò a tener compagnia a quella dello Stiengo.”
“Me ne starò tranquillo.”
Il capo dei Kayan stava per allontanarsi, quando gli esploratori ritornarono tutti trafelati.
“Sono alle nostre calcagna, capo,” dissero.
“Come hanno scoperto le nostre tracce in quest’oscurità?” si chiese Karruà, mostrando i denti come una pantera. “Sono molti?”
“Pare di sì,” rispose uno degli esploratori.
“Prepariamo il falò. Date fuoco a tutte le giunta wan e la foresta arderà così splendidamente.”
I selvaggi, soffregando rapidamente alcuni pezzi di legno che portavano nei loro sacchi, diedero fuoco a dei pezzi di muschio ben secco, e li gettarono qua e là in mezzo ai cespugli ed alle piante parassite che s’avviticchiavano intorno ai tronchi degli alberi gommiferi.
Ben presto delle lingue di fuoco guizzarono attraverso il sottobosco, propagandosi rapidamente alle palme sature di caucciù.
La foresta, pochi istanti prima tenebrosa, s’illuminò come se il sole fosse allora sorto, ed un odore nauseante si sparse dovunque. Le piante, tronchi e rami, si contorcevano sibilando e scoppiettando, e torrenti di caucciù liquido si spandevano per il suolo provocando nuovi incendi.
“Ed ora,” disse Karruà, “in ritirata, miei prodi. Il fuoco ci protegge le spalle e costringerà i nostri nemici a fuggire, se non vorranno arrostirsi.”
Sicuri di essere validamente coperti da quella barriera di fuoco che divampava furiosamente trovando negli alberi gommiferi un ottimo elemento, i Kayan fuggivano a tutte gambe, aizzati dalla pioggia di scintille che cadeva sulle loro teste perché il vento soffiava nella loro direzione.
Il dottore, tenuto stretto per le braccia da due uomini vigorosi, era costretto a seguirli in quella corsa disordinata. Se cercava di arrestarsi, i suoi guardiani alzavano le sciabole, facendogli comprendere che erano decisi a ucciderlo se non accelerava il passo.
Quella fuga durava ormai da un paio d’ore, quando gli uomini che erano davanti ripiegarono bruscamente sugli altri compagni, urlando.
“Che cosa c’è?” chiese il capo, balzando innanzi colla sciabola in pugno.
Vi fu fra i suoi guerrieri e lui un vivo scambio di parole, poi tutti si appiattarono fra i cespugli.
“Dei nemici?” chiese il dottore al capo, che gli si era accovacciato vicino.
“I nemici che c’inseguivano sono sfuggiti al fuoco e ci sbarrano il passo,” rispose Karruà. “Sono stati più furbi e più lesti di noi.”
“Chi sono?”
“Suppongo che siano Stienghi.”
“Sono molti?”
“Non lo sappiamo. Bada di non mandare alcun grido se ti preme salvare la testa.”
Trascorsero alcuni minuti senza che i nemici si mostrassero.
Ad un tratto alcune frecce sibilarono sopra i cespugli, poi comparvero delle ombre umane. Un clamore immenso selvaggio risuonò nella foresta, poi un torrente d’uomini si scagliò attraverso le piante, caricando a fondo i Kayan.
Il capo dei montanari radunò prontamente i suoi guerrieri e, quantunque fossero assai inferiori di forze, contrattaccarono risolutamente, impegnando una mischia ferocissima.
Tutti avevano gettato gli archi, armi inutili in una lotta a corpo a corpo, e combattevano colle sciabole, producendosi reciprocamente delle ferite orribili.
Il dottore, approfittando della confusione, si era gettato in mezzo ad un cespuglio. Nessuno d’altronde poteva occuparsi di lui in quel momento, essendo tutti impegnati.
“Andiamocene e lasciamo che si scannino a loro piacere,” mormorò.
Vedendosi cadere vicino un Kayan trafitto da due frecce, gli balzò addosso, gli strappò la sciabola e poi fuggì a tutte gambe, scomparendo in mezzo agli alberi.
La lotta non era cessata, tutt’altro! Udiva le urla di guerra dei Kayan e quelle dei loro avversari risuonare sempre più furiose: poteva quindi allontanarsi senza timore di essere inseguito.
Vedendo l’incendio avanzare minaccioso, raddoppiò la corsa per cercare un rifugio in qualche altro luogo, in qualche macchia umida.
Dinanzi a sé vedeva fuggire con velocità fulminea sciacalli, cervi, antilopi e anche scimmie. Il fuoco scacciava tutti dalle loro tane e dai loro rifugi.
Corse per una mezz’ora, inoltrandosi sempre più nella foresta, poi, esausto, cadde in un piccolo corso d’acqua che non aveva potuto scorgere in tempo.
“Basta,” mormorò. “Non posso più continuare.”
Si mise in ascolto. Gli parve di udire delle grida che si allontanavano nella direzione opposta alla sua. Forse i Kayan erano riusciti a rompere le linee dei loro avversari e fuggivano chissà dove.
Non erano quei montanari, né gli Stienghi che in quel momento lo preoccupavano, bensì l’incendio che avanzava sempre con rapidità prodigiosa e che lo avvolgeva da tutte le parti, impedendogli ogni via di scampo.
Le scintille portate dal vento dovevano aver prodotto altri incendi più innanzi, e così il disgraziato dottore si trovava in mezzo ad un mare di fuoco.
“Che sia proprio finita?” si chiese. “Povera Len, non mi vedrai più!”
Ricacciò in fondo al cuore il ricordo della fanciulla amata e rivolse tutta la sua attenzione agli alberi che lo circondavano.
La fortuna lo aveva guidato in mezzo ad un enorme gruppo di piante umide, i cui rami gocciolavano come i tamai caspi delle foreste americane. Tutto il terreno era inzuppato d’acqua.
“Questi alberi resisteranno al torrente di fuoco,” disse con gioia. “Il destino non ha ancora segnato la mia morte. Cerchiamo di costruire un riparo contro la cenere ardente che cadrà anche qui e contro la pioggia di scintille.”
Prese la sciabola, tagliò una ventina di foglie di banano lunghe parecchi metri e le trascinò fin sulla riva del ruscello.
“Prepariamoci un letto ora,” mormorò.
Si scavò nella sabbia un buco abbastanza profondo per potervisi sdraiare, vi si introdusse e si ricoperse interamente colle foglie che aveva abbondantemente bagnato.
“Ancora pochi minuti di ritardo ed io arrostivo come un piede d’elefante al forno,” disse.
L’uragano di fuoco giungeva in quel momento addosso alla macchia, preceduto da una nuvolaglia di fumo e di scintille. Gli alberi parvero curvarsi tutti sotto la violenza del fuoco. Per parecchi minuti un fumo densissimo avvolse ogni cosa, poi una cupola di fuoco si abbassò sulla macchia, facendo stridere le foglie e contorcersi i rami. Un nembo di scintille e di cenere ardente cadde sul terreno, facendo evaporare rapidamente l’acqua.
Roberto credette per un momento di morire asfissiato. Le larghe foglie che lo coprivano si accartocciavano su di lui scrosciando, però, bagnate come erano, non avevano fortunatamente preso fuoco.
Quel supplizio durò un mezzo minuto, poi la cupola fiammeggiante si squarciò, il fumo s’innalzò e l’onda di fuoco seguitò il suo cammino attraverso la foresta, continuando la devastazione.
La macchia umida aveva resistito. Le piante sarebbero senz’altro morte, ma che importava ciò al dottore? Quando l’aria divenne più respirabile, Roberto uscì dalla fossa e s’immerse nelle acque del torrente, provando un grande sollievo in quel bagno.
L’incendio si allontanava verso est; verso ovest tutta la foresta era stata divorata e non rimanevano in piedi che pochi tronchi d’albero semicarbonizzati, che di quando in quando cadevano con immenso fragore, sollevando nuvole di scintille e di cenere.
“Che rovina,” mormorò il dottore. “E chissà quando l’incendio si spegnerà. Se potessi trovare qualche cosa per rifocillarmi, sarebbe una vera fortuna. Non mangio da ventiquattro ore e mi sento completamente sfinito.”
Guardò le piante; ma di frutta non ne vide.
“Che sia destinato a morire di fame?” si chiese. “È meglio che me ne vada al più presto di qui e cerchi di raggiungere le rive del lago.
Seguendole potrei forse raggiungere ancora la pagoda e ritrovare i miei compagni.”
Prese la sciabola, si dissetò abbondantemente, si strinse i calzoni per calmare gli stiracchiamenti del ventre e si mise coraggiosamente in cammino, risoluto ad arrestarsi soltanto sulle sponde del lago.
Attraversato il piccolo corso d’acqua, si diresse verso sud, sperando che l’incendio non si fosse propagato in quella direzione.
Dovette camminare un’ora buona fra la cenere, prima di raggiungere il margine d’una foresta umida che aveva opposto una barriera resistente all’uragano di fuoco. I primi alberi avevano molto sofferto e mostravano le foglie avvizzite, gli altri invece si mantenevano ancora ritti e rigogliosi e gocciolavano abbondantemente.
Un gruppo di banani sfuggito all’incendio gli procurò una colazione, se non molto nutriente, almeno abbondante, essendo quelle piante cariche di enormi grappoli di frutta.
Non udendo alcun rumore ed essendo ancora buio, si sdraiò sotto un cespuglio per riposarsi un paio d’ore. Era così esausto di forze che non si sentiva più in grado di continuare quella penosa marcia.
Quanto dormì? Parecchie ore di certo, poiché quando riaperse gli occhi, il sole faceva capolino attraverso il fogliame e le scimmie urlavano a piena gola sulle cime degli alberi, inseguendosi e volteggiando fra i rami. Stava per alzarsi e rimettersi in cammino, quando il suo sguardo incontrò quello d’un animale che stava sdraiato a pochi passi da lui e che pareva lo spiasse.
Era una tigre enorme, una delle più grosse che avesse mai scorto nelle foreste Siamesi, un animale che per taglia poteva eguagliare quelle reali delle jungle indiane.
“Paese maledetto, dove non si può riposare nemmeno un momento senza correre il pericolo di venire decapitati o divorati,” mormorò il disgraziato dottore.
Allungò con precauzione una mano ed impugnò la sciabola che si era messa al fianco, senza ardire però di alzarsi.
D’altra parte la belva sembrava non fare attenzione a lui, almeno pel momento. Si leccava il pelo come fanno i gatti quando sono di buon umore o quando stanno facendo la loro toeletta mattutina, mandando di quando in quando un rom-rom che non indicava alcuna brutta intenzione.
Il dottore non osava muoversi, per non provocare un attacco fulmineo. Aveva solo alzato la sciabola, pronto a difendersi ed a colpire se si fosse presentata l’occasione.
Terminata la sua toeletta, senza nemmeno degnarsi di guardarlo, la tigre si stiracchiò due o tre volte, poi si alzò dolcemente, volse le spalle e s’internò nella macchia, sempre fingendo di non essersi accorta della presenza del dottore.
Quando però fu ad una quarantina di passi, si volse bruscamente mandando un aa-ugh che pareva di sfida e di derisione, poi con un salto formidabile si cacciò in mezzo ai cespugli e scomparve.
“La briccona!” mormorò Roberto. “Se n’è andata dignitosamente; se non avesse scorto il luccichio della sciabola, a quest’ora non so se sarei ancora vivo. Fortunatamente l’avventura è finita comicamente invece che tragicamente.”
Stava per alzarsi, quando un pensiero lo arrestò.
“Non mi aspetterà in qualche luogo per piombarmi addosso a tradimento?” si chiese. “Non bisogna fidarsi di queste bestie. Aspettiamo che si allontani.”
Attese un quarto d’ora, rimanendo in ascolto, poi, non udendo più alcun rumore, s’alzò silenziosamente e si allontanò adagio adagio, scrutando le macchie vicine.
Percorse così una cinquantina di passi, poi tornò a fermarsi.
Gli pareva di aver udito un rumore di foglie secche calpestate sulla sua sinistra.
“Che la tigre mi segua?” si chiese con ansietà.
La paura cominciava ad invaderlo. Il timore di venire improvvisamente assalito e di essere sbranato di sorpresa, lo riempiva d’angoscia.
Si arrestò dinanzi ad un piccolo tek, che cresceva in una minuscola radura.
“Le tigri non sono capaci come, le pantere di arrampicarsi sugli alberi,” pensò. “Se cercassi un rifugio fra i rami di quest’albero ed aspettassi lassù che la tigre si allontani o perda la pazienza?”
Gettò un lungo sguardo sulle macchie vicine, poi, abbracciato il tronco, si arrampicò colla maggior celerità possibile.
Già stava per toccare i primi rami, quando vide l’animale balzare leggermente fuori da una macchia. Vedendo che la preda stava per sfuggirgli, s’avventò rabbiosamente contro la pianta sperando di fare un buon colpo, invece ricadde stringendo fra i poderosi artigli un largo pezzo di corteccia.
Le tigri, dopo il primo assalto, di rado ritentano la prova. Vedendo l’uomo in salvo fra i rami, troppo in alto per poterlo ormai raggiungere, la belva abbandonò senz’altro l’impresa, ritornando nella foresta.
Il dottore, che non si fidava più, rimase lassù fin quasi al tramonto, poi, convinto che la tigre se ne era definitivamente andata per procurarsi una cena più sicura, si decise finalmente ad abbandonare il suo aereo rifugio ed a riprendere la sua marcia verso il lago.
Era fermamente risoluto a cercare la pagoda, quantunque non conoscesse la via per arrivarvi. Il lago non doveva essere molto lontano, così supponeva, e seguendone le coste aveva la convinzione di ritrovare presto o tardi i suoi amici.
Camminò per un paio d’ore ancora, inoltrandosi sempre nella foresta che già diventava tenebrosa, poi si fermò sotto un gruppo di manghi che mettevano in mostra dei piccoli frutti i quali potevano, in mancanza d’altro, servire a calmare la fame.
Raccolse dei rami secchi e poiché conservava ancora l’acciarino e l’esca, accese due fuochi per tenere lontane le belve; poi, sfinito, si coricò su uno strato di foglie secche, tenendosi vicino la sciabola e l’arco.
Dormì due o tre ore e quando si svegliò provò uno strano malessere. Aveva freddo, provava dei brividi fortissimi e nello stesso tempo gli pareva di avere le gambe paralizzate.
“Che sia stato colpito dalla febbre dei boschi o da quell’altra malattia che i Siamesi chiamano il tet, e di cui mi ha parlato Lakon-tay?”
Provò ad alzarsi, ma ricadde subito come se avesse le gambe spezzate. Si sentì bagnare la fronte d’un freddo sudore.
“Sono perduto ormai,” mormorò. “Chi potrebbe salvarmi? Addio, mia amata Len-Pra… addio, generale… Ah! Come è stato breve il mio sogno… Ma no… non voglio morire solo e abbandonato in mezzo a questa foresta e servire di pasto alle fiere.”
Con uno sforzo disperato si alzò, tenendo in pugno la sciabola.
“In cammino,” disse con voce energica. “Se mi fermo sono perduto.”
Quantunque si sentisse le gambe rotte e provasse ancora dei forti brividi, partì di corsa, brancolando nel buio, urtando contro i tronchi degli alberi che si succedevano senza interruzione. Era in preda al delirio.
Quanto corse? Due ore soltanto o molto di più? Sfinito, febbricitante, cadde in mezzo ad un ammasso di foglie, perdendo quasi subito i sensi.

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