Capitolo XXXI La città del Re lebbroso

Angkor-tom, l’antica capitale del regno della Cambogia, meglio conosciuto anticamente sotto il nome di regno degli Khmer, s’innalza a circa quindici miglia dal Tuli-Sap, verso il 15° di latitudine ed il 102° di longitudine.
Quale spazio occupasse, lo si può facilmente capire dalla infinita quantità delle sue rovine che sono disseminate fra le boscaglie per miglia e miglia; quale magnificenza avesse raggiunto lo si può giudicare dalle sue pagode colossali e dai suoi palazzi meravigliosi, ancora esistenti sebbene debbano aver sopportato le ingiurie del tempo per decine di secoli.
Sono così imponenti quelle rovine e sono frutto d’un lavoro così prodigioso, che alla loro vista si rimane compresi della più profonda ammirazione e non si può fare a meno di chiedersi che cosa mai possa essere avvenuto di un popolo tanto potente, civile ed illuminato, che era riuscito ad innalzare monumenti così grandiosi, da superare per mole, per linee architettoniche, per fregi meravigliosi, i più bei monumenti lasciati dai Greci, dai Romani e dagli stessi Egizi.
Il tempo, i terremoti, i barbari, provenienti forse dal cuore della Cina e dal Siam, forse anche dal Tonkino, hanno rovinato gran parte di quella ricca capitale; tuttavia rimangono ancora in piedi mura, palazzi e pagode, ad attestare il genio meraviglioso degli architetti dell’augusto regno di Maha-Nokhor-Khmer.
Le mura che dovevano difendere la parte centrale della città, abitata dai re, s’ergono ancora, prolungandosi per ben ventiquattro miglia, con uno spessore di tre metri e ottanta centimetri e un’altezza di sette, con quattro magnifiche porte, che s’aprono verso i quattro punti cardinali.
Entro quelle vaste mura, ormai coperte da alberi, cespugli e ammassi di piante parassite, s’innalza un gran numero di monumenti d’una grandiosità stupefacente, tutti più o meno rovinati e che a poco a poco continuano a sgretolarsi; ma nel centro si erge ancora superbo, e abbastanza ben conservato, l’antico palazzo reale, difeso da tre ordini di mura staccate le une dalle altre e circondate ognuna da un profondo fossato, difese da torri colossali e abbellite da archi trionfali che le uniscono.
È cosa davvero impossibile descrivere la bellezza meravigliosa di quel palazzo, costruito tutto in marmo, con innumerevoli colonne, terrazze gigantesche, sale immense e che verso il centro si eleva gradatamente, formando una torre colossale a più piani, coi tetti arcuati e dorati, con statue, con massi scolpiti stupendamente, con frontoni d’una finezza sorprendente. Su tutte le facciate si vedono numerose iscrizioni, in una lingua che tutti ignorano e che perfino i letterati della Cambogia e del Siam non sono mai riusciti a decifrare.
Chi ha costruito quel capolavoro d’architettura, che dopo tanti secoli s’innalza ancora maestoso a ricordare la potenza di quel popolo, così misteriosamente scomparso?
Se si interrogano i Cambogiani e gli Stienghi, che sono probabilmente i lontani discendenti degli Khmer, vi rispondono che è opera del re degli angeli Pra-en; oppure che è opera dei giganti, o anche che il palazzo si è creato da se stesso.
Gli storici invece affermano che quel palazzo fu fatto costruire da un Re lebbroso, in un’epoca non ancora determinata, e sembra che abbiano ragione, poiché all’interno della pagoda che s’innalza in uno dei cortili del palazzo reale, si può ammirare ancora la colossale e bellissima statua di quel potente monarca.
Ma anche fuori dalle mura del palazzo reale rimangono ancora edifici non meno ammirabili, in gran parte coperti da piante parassite, che ne affrettano la distruzione: sono palazzi giganteschi in parte crollati, sono pagode enormi, e vi è pure, un po’ a sud di quelle imponenti rovine, un ponte, per la maggior parte distrutto, lungo quarantacinque metri con una larghezza di cinque e con quattordici archi, un’opera degna dei romani e degli egizi.
Quando Lakon-tay ed i suoi compagni, dopo aver superato ammassi colossali di rottami, entrarono fra le mura del palazzo reale, era mezzodì.
Un silenzio profondo, che stringeva il cuore, regnava fra quelle immense rovine, rotto solo dallo scalpitio dei cavalli, che avanzavano su una via lastricata di pietre ancora ben connesse.
Tutti tacevano, come se non osassero turbare quel gran silenzio che da secoli regnava assoluto sulle ultime rovine di quel gran popolo scomparso.
Quando giunsero dinanzi alla superba scalinata che metteva nell’immenso porticato del palazzo reale, sorretto da due ordini di colonne meravigliosamente scolpite, tutti si arrestarono guardando con stupore quell’imponente edificio, da cui ormai non usciva più alcun rumore.
“Mi sembra di trovarmi in un cimitero,” disse finalmente il dottore. “Questo silenzio, in mezzo a queste grandiose rovine, produce su di me un’impressione strana che non saprei spiegare.
Quale magnificenza! Che cosa sono gli architetti dell’antica Grecia e della grande Roma in confronto a quelli degli Khmer? Non avrei mai creduto di trovare, in mezzo a queste foreste, avanzi simili, che attestano la grandezza e l’opulenza di quello sventurato popolo!
“Scendiamo,” disse Lakon-tay, “ed entriamo.
“È qui che noi troveremo il driving-hook con cui io potrò riabilitarmi.”
Balzarono a terra, affidarono i cavalli al pilota ed a Feng, e, prese per maggiore precauzione le carabine, salirono la gradinata e s’inoltrarono sotto l’immenso porticato che era lastricato di marmo.
L’eco dei loro passi si ripercuoteva sotto le volte con una sonorità incredibile. Pareva che invece di quattro sole persone avanzasse fra quei giganteschi colonnati una compagnia di guerrieri della guardia reale dei re degli Khmer, tanto l’eco ripeteva e moltiplicava i suoni.
L’illusione era così perfetta, che tutti si guardarono intorno, credendosi seguiti da una folla di persone.
“Che i defunti guardiani del palazzo siano usciti dalle loro secolari tombe per farci da scorta?” disse il dottore, cercando di scherzare.
“Avanti,” ripeté Lakon-tay, che era diventato estremamente nervoso.
Nel mezzo del porticato, s’apriva una porta cogli stipiti scolpiti meravigliosamente. La varcarono e si trovarono in una sala immensa, colle pareti di marmo piene d’iscrizioni e di mensole che reggevano un numero infinito di statuette raffiguranti dei re o delle divinità.
In alto correva una galleria, in parte diroccata, adorna di statue per la maggior parte in porcellana azzurra o gialla e colle balaustrate di rame dorato. Vedendo all’estremità della sala un’altra porta, Lakon-tay ed i suoi compagni vi si diressero, e varcatala si trovarono in un vasto cortile, ingombro di sterpi e di erbacce, tutto circondato da porticati e con in mezzo una fontana sormontata da una statua di rame dorato, mancante delle braccia e della testa.
Gli Stienghi o i Cambogiani dovevano aver visitato quel cortile per provvedersi di rame e anche per cercare, come si poteva supporre da alcune profonde fosse, quelle verghe d’argento chiamate nane, pesanti trecentosessantotto grammi, che si rinvengono ancora in buon numero rovistando le rovine, e che dovevano costituire la moneta del regno scomparso.
Scorgendo, al di là d’uno di quei porticati, una torre colossale a vari piani, coi cornicioni dorati e le tegole di porcellana gialla, Lakon-tay ed i suoi compagni vi si diressero, immaginando che quella dovesse essere la cupola della pagoda annessa al palazzo reale.
Attraversarono una seconda sala, non meno vasta della prima, assolutamente vuota e dalle pareti in vari luoghi screpolate, e si trovarono in un secondo e più spazioso cortile, in mezzo a cui giganteggiava una pagoda, ricca di sculture, d’iscrizioni e di colonne istoriate e con un numero infinito di piccole finestre che s’aprivano a sessanta e più piedi dal suolo.
“Là! Là!” esclamò Lakon-tay con voce strozzata. “Il driving-hook è nostro!”
Fecero rapidamente il giro della pagoda, che era in ottimo stato di conservazione, e scoprirono finalmente l’entrata.
La porta, d’uno spessore enorme, costruita tutta in legno di tek, con borchie gigantesche di metallo dorato, era aperta. Tutti si precipitarono nel tempio. Un grido di gioia sfuggì al generale.
“La statua del Re lebbroso! Il driving-hook è là!”
La volta della pagoda era tanto alta, che non si potevano distinguere gli ornamenti che la decoravano. Sulla cima s’apriva un foro circolare, da cui scendeva un gran fascio di luce, e vi si accedeva per mezzo di una gradinata che saliva a spirale, girando intorno alla parete della immensa cupola.
In tempi antichissimi la pagoda doveva essere stata devastata da qualche invasione nemica, poiché l’interno era cosparso di statue infrante, e persino le iscrizioni erano in gran parte rovinate.
Solo la statua del Re lebbroso, del fondatore della superba città, era stata risparmiata. Sorgeva proprio nel mezzo del tempio, su un enorme masso di marmo di forma quadrata, tutto adorno d’iscrizioni. Era una statua di fattura squisita e ben proporzionata, alta quasi quattro metri, di marmo grigio, che portava sul capo una specie di corona a forma di cono, di metallo dorato, ed aveva i lineamenti del viso non solo regolari, ma anche bellissimi.
Lakon-tay non si fermò nemmeno a osservarlo. Si slanciò verso il basamento, davanti al quale si scorgeva un anello di metallo finemente cesellato, infisso in una lastra di marmo di forma circolare, della circonferenza di due metri.
Colle mani spazzò via la polvere che copriva la lastra e mostrò, con braccio tremante, una profonda incisione, che raffigurava un uncino simile a quello che usano i mahut per guidare i loro elefanti.
“Il driving-hook!” gridò con voce soffocata dall’emozione. “Dottore… Len… aiutatemi! Deve trovarsi qui sotto!”
“Calma, generale,” disse Roberto, il quale tuttavia non era meno commosso. “E se poi fossimo delusi nella nostra speranza?”
“No, guardate, questa pietra non deve essere stata mossa da secoli e secoli.”
Len-Pra passò la canna della sua carabina attraverso l’anello, poi tutti e tre tirarono energicamente.
Per un po’ la pietra resistette, poi alla quarta scossa uscì dal suo alveolo, lasciando vedere al di sotto una stretta gradinata, che sembrava condurre in qualche sotterraneo.
“Scendiamo,” disse Lakon-tay.
“Accendiamo un pezzo di candela, se ne abbiamo.”
“Non è necessario; vedo della luce in fondo alla scala.”
Passò per primo, seguito subito da Len-Pra, quindi dal dottore. Dopo essere scesi per una quindicina di gradini si trovarono in un sotterraneo illuminato da due strette feritoie, difese da enormi sbarre di ferro che il tempo non aveva ancora corroso.
Era una sala circolare, poco alta, che pareva scavata in un enorme blocco di pietra, vasta tanto da poter contenere una ventina di persone e colle pareti coperte d’iscrizioni.
Nel mezzo s’elevava una statua di porcellana gialla, rappresentante in piccolo la figura del Re lebbroso, posata su un masso quadrato pure di porcellana, su cui si vedeva ancora disegnato un driving-hook. Tutti si erano arrestati dinanzi alla statua, chiedendosi ansiosamente dove potesse trovarsi il prezioso uncino del mahut di Sommona Kodom.
“Dottore,” disse Lakon-tay, con voce alterata. “Dove possiamo cercarlo?”
Roberto, invece di rispondere, percosse la statua colla canna della carabina e dal suono che diede la porcellana capì che doveva essere interamente vuota.
“Atterriamola,” disse. “Se il driving-hook non si trova qui dentro, non lo troveremo in nessun altro luogo.”
Impugnarono le carabine per la canna e percossero furiosamente la statua, la quale cadde in frantumi. Fra i cocci che rimbalzavano da tutte le parti sulle lastre di pietra del pavimento, videro pure cadere un cofanetto di metallo giallo che pareva d’oro, lungo quasi mezzo metro e largo circa quindici centimetri.
Il generale con un salto vi si precipitò sopra, afferrandolo e alzandolo.
Nella caduta le cerniere si erano spezzate e dentro il prezioso scrigno, che era adorno di cesellature meravigliose per finezza e per disegno, aveva scorto un oggetto risplendente che aveva la forma d’un uncino da elefante.
Lo prese e lo mostrò a Len-Pra ed al dottore, gridando:
“Il driving-hook! Il driving-hook del mahut di Sommona Kodom! Sono salvo! La mia riabilitazione è assicurata! Len! Dottore! La gioia mi soffoca!”
Sì, era proprio quel famoso e preziosissimo uncino di cui parlavano gli antichi libri sacri! La punta era d’oro purissimo, l’asta d’argento cesellato ed il manico formato da uno smeraldo più grosso e più superbo di quello che si ammirava nella grande pagoda di Bangkok, raffigurante, come quello, una piccola statua di Budda.
Il generale, fuori di sé per la gioia, stava per precipitarsi verso la scala per riguadagnare la pagoda, quando un colpo sordo, che pareva prodotto dalla caduta d’una grossa pietra, lo arrestò di botto.
La luce che scendeva dal foro circolare era bruscamente scomparsa.
Lakon-tay, pallido come un cencio lavato, mandò un altro grido, e non certo di gioia.
“Ci hanno rinchiusi! La pietra è stata rimessa a posto! Tradimento!”
Nel medesimo istante una voce, che riconobbe per quella del pilota, echeggiò a distanza.
“Ora farete i conti con Mien-Ming, se vorrete uscire! Ah! Come vi ho giocato!”
Poi risuonò un colpo di fucile, seguito da un urlo, quindi parecchi altri colpi rimbombarono seguiti da altre grida, infine successe un silenzio profondo.
“Dottore! esclamò il generale, guardando cogli occhi smarriti l’italiano e Len-Pra. “Siamo stati traditi! I miserabili ci hanno rinchiuso vivi in questa tomba.”

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