Capitolo XXXIII La morte del puram

Lakon-tay, il dottore e Len-Pra erano rimasti come fulminati udendo ricadere la pesante pietra e udendo poi subito dopo le minacciose parole del pilota e il rimbombo di quei colpi di fucile nella pagoda.
Per parecchi istanti erano rimasti muti, col cuore sospeso, guardandosi l’un l’altro, cogli occhi dilatati da un’angoscia inesprimibile.
Il tradimento del pilota, di quell’uomo che fino a quel momento avevano creduto un brav’uomo e che si erano perfino proposti di ricompensare largamente, li aveva completamente scombussolati.
Ad un tratto un grido sfuggì dalle loro labbra:
“E Feng?”
Tutti e tre avevano avuto il medesimo pensiero. Che cosa poteva essere avvenuto di quel bravo giovane che avevano lasciato dinanzi al palazzo reale in compagnia di quel traditore? Era ancora vivo, o i banditi di Mien-Ming l’avevano ucciso? Il generale era diventato pallidissimo.
“Che l’abbiano assassinato?” gridò con voce terribile. “Guai a loro, guai a quei miserabili se hanno torto un sol capello a quel bravo ragazzo, che io amo come se fosse mio figlio!”
“Ahimè, generale,” disse il dottore, “io tremo più per lui che per noi. Quei colpi di fucile che noi abbiamo udito devono aver ucciso qualcuno.”
“Che si sia lasciato sorprendere?” chiese Lakon-tay, con accento di dolore intenso.
“Padre,” disse Len-Pra, “io dubito che Feng, uomo diffidente e astuto, si sia lasciato uccidere a tradimento e senza opporre resistenza.
Tu sai bene che Feng un giorno, dopo il rapimento del signor Roberto, ti aveva manifestato qualche sospetto circa la fedeltà del pilota. Doveva quindi tenersi in guardia.”
“Tu speri dunque che egli possa essersi salvato?”
“Ne ho la convinzione,” rispose Len-Pra. “Che ne dite, signor Roberto?”
Il dottore fece col capo un cenno affermativo, quantunque non condividesse la speranza della fanciulla, poi disse:
“Generale, occupiamoci di noi per ora. La nostra situazione è peggiore di quel che voi crediate, e non so come potremo cavarcela.
Siamo nelle mani di Mien-Ming e quel miserabile non ci lascerà uscire senza imporci delle condizioni terribili che strazieranno due cuori che si amano.”
“Che cosa volete dire, dottore?” chiese Len-Pra, guardandolo con angoscia.
“Lo saprete fra poco, povera fanciulla.”
“Giammai acconsentirò, dottore,” disse Lakon-tay, con suprema energia. “Len diventare sua…”
“Silenzio, generale, per ora. Cerchiamo invece di tentare qualche cosa, prima che quella canaglia si mostri.
Se potessimo uscire, da parte mia non esiterei a impegnare la lotta contro quei banditi a colpi di fucile.”
“Ed io non meno di voi, Roberto,” rispose il generale. “Ma come uscire, ora che il pilota ha ricollocato a posto la pietra che è così pesante?”
“Non è da quella parte che dobbiamo tentare di evadere. Un uomo solo basterebbe per fucilarci a bruciapelo, e certo il pilota o qualche altro sta di guardia dinanzi alla statua del Re lebbroso.”
“Ma queste feritoie sono difese da sbarre di ferro così grosse, che nemmeno un gigante riuscirebbe a svellerle.”
“Forse non presentano quella resistenza che voi credete. Il tempo deve averle più o meno corrose.”
“Quei banditi forse ignorano ancora che questo sotterraneo ha delle finestre?” chiese Len-Pra.
“Lo suppongo,” rispose il dottore, “ma non tarderanno a scoprirle. Venite, generale: vediamo dove guardano queste finestre.”
S’accostò a una feritoia, che s’apriva ad un metro e mezzo dal suolo ed era sufficientemente larga per lasciar passare un uomo di media grossezza e difesa da quattro solide sbarre coperte da un fitto strato di ruggine. Essa guardava su un cortiletto ingombro di macerie, chiuso da un’alta muraglia in gran parte diroccata e che non aveva alcuna apertura.
“Che quella muraglia abbia servito un giorno come base a qualche torre?” si chiese il dottore, osservando l’enorme ammasso di rottami.
“Signor Roberto,” disse Len-Pra, “vi è qualche probabilità di fuggire?”
“Sì, e anche di sorprendere quei banditi alle spalle, se si potessero levare queste maledette sbarre; impresa difficile, non ve lo nascondo, fanciulla mia. La parete è formata da blocchi di pietra che resisteranno a tutti i nostri sforzi.”
“Tentiamo di svellere qualche sbarra,” disse il generale.
“Ci vorrebbe una lima per segarle,” rispose il dottore, facendo un gesto di scoraggiamento, “e noi non ne abbiamo alcuna.”
“Saremo costretti ad arrenderci oppure a morire qui dentro di fame e di sete?”
Roberto non rispose, ma si asciugò la fronte che era madida di sudore. Tuttavia si provò a scuotere una di quelle sbarre, impiegando tutta la sua forza, ma dovette purtroppo convincersi che ogni tentativo era vano. Senza una lima o almeno una trave, mai sarebbero riusciti a fuggire da quel sotterraneo, che minacciava di diventare la loro tomba.
Il dottore e Lakon-tay si guardarono tristemente.
“Nessuna speranza?” chiese questi a mezza voce.
“Nessuna,” rispose Roberto.
“Che cosa accadrà di noi?”
“Se provassimo ad alzare la pietra?”
“Non pensateci, Roberto. Vi esporreste, specialmente voi, ad una morte sicura. “Non dimenticate che il puram odia soprattutto voi e che sarebbe ben lieto di sopprimervi. Non udite nessun rumore, voi?”
“No, generale.”
“Che i banditi si siano allontanati dopo averci rinchiusi qui dentro e dopo aver forse piombato la pietra per impedirci la fuga?”
“Se non ci fosse con noi Len-Pra, forse si potrebbe crederlo,” rispose Roberto sottovoce, affinché la fanciulla, che guardava attraverso la feritoia, non lo udisse. “È vostra figlia che Mien-Ming vuole.”
“Non l’avrà mai: o vostra o della morte.”
Roberto provò un brivido.
“Ucciderla! No, no, generale!” esclamò. “Piuttosto tenteremo di forzare la pietra.”
“Rimanete qui, dottore. Voglio accertarmi se vi è qualcuno che vigila dinanzi alla statua del Re lebbroso.”
Il generale prese la carabina e salì su per la stretta scala.
Roberto si avvicinò allora alla fanciulla che, anche in quei momenti terribili, non aveva perduto nulla della sua calma abituale.
“Len-Pra, mia cara,” le disse con voce profondamente commossa, “la vita di vostro padre sta nelle vostre mani. Volete salvarlo?”
La fanciulla alzò su di lui i suoi dolci occhi, guardandolo con profondo stupore.
“Che cosa dite, Roberto?” chiese.
“Vi ripeto che voi sola potreste salvare vostro padre.”
“In qual modo? Spiegatevi, dottore.”
“Rinunciando a me per diventare sposa d’un altro, del puram del re.”
Una dolorosa contrazione alterò il viso della fanciulla, mentre i suoi occhi s’inumidivano.
“Non mi amate più?” mormorò, con voce singhiozzante.
“Più che mai, mia dolce Len-Pra,” rispose il dottore. “Ma solo la distruzione del nostro bel sogno può salvare vostro padre.”
“È per voi che Mien-Ming ha rovinato il generale; è per aver voi che ci ha perseguitati fin qui e che ha tentato per tre volte di sopprimermi, avendo trovato in me un rivale. Rispondete, Len: siete disposta a compiere un simile sacrificio?”
“Io… diventare la moglie di quell’uomo… e rinunciare al vostro amore… mai, Roberto, mai! Preferisco la morte al vostro fianco; e so che anche mio padre mi approverebbe…”
“Grazie… grazie, mia Len… se noi siamo…”
Un colpo di fucile che rimbombò nel cortiletto gli interruppe la frase. Entrambi si precipitarono verso una delle feritoie, colle carabine in pugno, pronti a respingere l’attacco.
Un uomo, certo uno dei banditi di Mien-Ming, si teneva a cavalcioni della muraglia e stringeva in mano il fucile, la cui canna fumava ancora. Doveva aver sparato in aria e non già verso il sotterraneo, allo scopo di richiamare soltanto l’attenzione dei prigionieri.
Len, che una collera improvvisa rendeva pericolosa, puntò risolutamente la carabina verso il bandito. Il dottore con un gesto rapido le abbassò la canna.
“No, Len,” disse. “Sentiamo prima che cosa vuole quel briccone. Pel momento è un parlamentario che dobbiamo rispettare.”
Il bandito, vedendo l’uomo bianco, fece sventolare una pezzuola più o meno bianca, gridando:
“Non fate fuoco, se vi è cara la vita.”
Lakon-tay in quell’istante li raggiunse. Aveva udito lo sparo e, temendo un attacco, era accorso per prendere parte alla difesa. “Che cosa vuole quella canaglia?” chiese.
“Ora lo sapremo,” rispose il dottore. “Vorrà dettarci delle condizioni di resa a nome del puram.”
“Parla, mascalzone,” gridò il generale, “e spicciati, o ti uccido come un cane, in attesa di fare altrettanto al tuo padrone.”
Il bandito, quantunque poco incoraggiato da quella accoglienza, si fece portavoce colle mani e disse:
“È il puram del re che mi manda.”
“Che cosa vuole?”
“Vi ordina di consegnargli Len-Pra. Solo a questa condizione egli acconsentirà a rendere la libertà a voi e all’uomo bianco.”
“E se rifiutassi?”
“In tal caso devo avvertirvi che nessuno di voi uscirà vivo dal sotterraneo.”
“È tutto qui?”
“Non ho altro da dirvi.”
“Dirai al puram che ad un simile mascalzone non acconsentirò mai a dare in isposa mia figlia, che è ormai la fidanzata dell’uomo bianco, e gli dirai che tutti noi preferiamo la morte. Ecco la risposta del generale Lakon-tay. Ed ora vattene o ti sparo addosso.”
Vedendo che il generale puntava già la carabina, pronto ad eseguire la minaccia, il bandito s’affrettò a lasciarsi cadere dall’altra parte del muro.
Un momento dopo, una voce, che la rabbia rendeva rauca, gridò al di là della muraglia:
“Aspetterò che la fame e la sete vi costringa alla resa. Mien-Ming non ha fretta.”
“Mostrati, vile!” urlò Lakon-tay, che aveva riconosciuto la voce dell’infame Cambogiano.
“Sì, più tardi, quando la fame vi avrà reso meno pericolosi,” rispose Mien-Ming, con tono ironico. “Buona notte ed i miei omaggi alla graziosa Len-Pra.”
Al di là della muraglia si udì un sordo brusio, poi il silenzio tornò più profondo di prima.
Lakon-tay si volse verso il dottore e Len.
I due giovani si tenevano per mano, guardandosi tristemente, ma nei loro occhi si leggeva una implacabile volontà.
“Meglio la morte non è vero, Len?” disse il dottore.
“Sì, Roberto, accanto a te ed a mio padre,” rispose la fanciulla con accento risoluto. “Qualcuno un giorno ci vendicherà.”
“Sei degna di tuo padre,” disse il generale, con voce spezzata. “Figli miei… abbracciatemi…”
Cominciavano a calar le tenebre. Len-Pra e Roberto, seduti l’uno presso l’altro sul basamento della statua, non avevano più aperto bocca. Il generale invece, in preda ad una collera terribile, passeggiava pel sotterraneo come un leone in gabbia, pronunciando parole tronche e facendo gesti furibondi. Di quando in quanto s’arrestava dinanzi all’una o all’altra feritoia e si metteva in ascolto, poi ricominciava a passeggiare.
Erano già trascorse parecchie ore da che le tenebre avevano invaso il sotterraneo, quando una scarica improvvisa rimbombò sopra le teste dei prigionieri, seguita subito da un clamore spaventoso.
Lakon-tay fece un salto verso la feritoia più vicina, mentre Roberto e Len balzavano in piedi.
Gli spari si succedevano agli spari pressoché senza interruzione, mentre i clamori raddoppiavano.
“Assalgono i banditi!” gridò il generale. “Queste sono le urla di guerra degli Stienghi. Dottore! Len-Pra! Vengono in nostro aiuto!”
“Come è possibile?” chiese Roberto. “Chi può averli avvertiti?”
“Chi? Chi? Feng, ne sono certo… Facciamo fuoco attraverso le feritoie per indicare a quegli uomini valorosi che siamo qui.”
La lotta stava per finire. Non si udiva più ormai che qualche rado colpo di fucile, e anche le urla di guerra degli Stienghi erano cessate. Il generale continuava a far fuoco, sparando in aria, imitato da Len-Pra e dal dottore.
Ad un tratto si videro brillare delle fiaccole sulla cima della muraglia, poi comparvero alcuni uomini armati di sciabole e di archi.
“Gli Stienghi! Gli Stienghi!” gridò Lakon-tay, che li aveva subito riconosciuti. “Scendete, amici! È qui l’uomo bianco!”
Una quindicina di selvaggi invasero tosto il cortiletto, agitando le fiaccole e gridando. Accortisi che le feritoie erano difese dalle sbarre di ferro, raccolsero una trave che spuntava fra le macerie e con due colpi ben assestati le sfondarono.
“E i banditi?” chiese Lakon-tay, appena fu liberato.
“Tutti uccisi, meno uno,” rispose colui che comandava il drappello.
“Chi è costui?”
“Il loro capo.”
“Mien-Ming! Chi vi ha avvertito che noi eravamo prigionieri?”
“Feng, il nipote del capo.”
“È vivo ancora Feng?” chiesero ad una voce Roberto, il generale e Len-Pra.
“Non so… venite… il nostro capo vi aspetta.”
Gli Stienghi li aiutarono a varcare la muraglia, girarono intorno alla pagoda e li introdussero nel tempio, che era illuminato da parecchi rami resinosi.
Un terribile combattimento era avvenuto intorno alla statua del Re lebbroso. I banditi dovevano essersi difesi disperatamente prima di cadere, a giudicare dal numero degli Stienghi caduti sotto i colpi delle loro carabine; poi erano stati sconfitti e ora i loro corpi, privati della testa, giacevano ammucchiati alla rinfusa, in un lago di sangue.
Il capo degli Stienghi, che era accompagnato da un centinaio di guerrieri, mosse verso il generale, dicendogli:
“Sono molto lieto di averti salvato: che cosa farai ora di quell’uomo?”
Ad un suo cenno le file degli Stienghi s’apersero e Lakon-tay vide, inginocchiato presso la statua del Re lebbroso, e tenuto pei polsi da due guerrieri, il puram, livido, coi baffi irti e gli occhi fuori dalle orbite.
Il generale gli si avvicinò, seguito da Len e dal dottore, e dopo averlo guardato per alcuni istanti in silenzio, gli disse:
“Ti dono la vita, io: ma ti giudicherà il re.”
Mien-Ming provò un brivido così forte, che tremò da capo a piedi, poi, alzando bruscamente la testa, fissò su Len-Pra uno sguardo in cui si leggeva un odio implacabile.
“Tu mi hai perduto, fanciulla, ma mi seguirai nella tomba.”
Con una scossa irresistibile, atterrò i due Stienghi che lo tenevano pei polsi, poi, estratto rapidamente il coltellaccio, che teneva nascosto nella larga fascia, si scagliò contro Len-Pra.
Il dottore ed il generale mandarono un urlo, che fu subito seguito da un colpo sordo e da un rantolo.
Il capo degli Stienghi con una mossa fulminea si era gettato addosso al puram e l’aveva atterrato.
Poi, prima che Lakon-tay ed il dottore potessero impedirglielo, voltò il fucile su Mien-Ming e appoggiatagli la canna sulla fronte, lo freddò, bruciandogli le cervella.
“Feng è morto!” gridò. “Io l’ho vendicato!”

Conclusione

Quaranta giorni dopo, Lakon-tay, il dottore e Len-Pra, portando con sé il prezioso driving-hook, rientrarono in Bangkok su una di quelle grosse barche che fanno il servizio fra la nuova e la vecchia capitale.
Il re, che dal governatore di Ajuthia era già stato informato del ritorno della spedizione, fece al generale la più festosa accoglienza, decretò in suo onore feste pubbliche e lo nominò grande puram del regno.
E non fu tutto. Apprendendo i tradimenti e le infamie commesse da Mien-Ming, fece radere al suolo la splendida abitazione del miserabile, ne sequestrò i beni così male acquistati, e li donò al generale.
Ebbene, fosse una semplice combinazione, un caso od altro, tre settimane più tardi, lo stesso giorno in cui il dottore impalmava con grande pompa la dolce Len, veniva annunziata la cattura di un elefante bianco nelle alte e selvose valli del Menam.

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